• Non ci sono risultati.

La continuità del Feindstrafrecht rispetto alla tradizione del delitto

Nella cifra ontologica del diritto penale politico dunque, come visto, le affinità con la descrizione che Jakobs offre del Feindstrafrecht paiono evidenti: anche questo infatti si mostra come un sistema, una parte, del tutto, irriducibile alle caratteristiche dell’insieme. Afferma Jakobs: ”Il Diritto penale del cittadino è il diritto di tutti; il Diritto penale del nemico è invece il Diritto di coloro che contrastano il nemico; nei cui confronti è ammissibile soltanto la coazione fisica, sino ad arrivare alla guerra”319.

Per questo motivo ci sembra che il giuspenalista di Bonn in qualche modo riprenda, facendola sua, e rielaborandola, parte della riflessione sul delitto politico320. Sebbene, infatti, quella jakobsiana si mostri, per certi aspetti,

come una lettura del fenomeno penale inedita, sicuramente politicamente

318 T. Padovani, Il nemico politico e il suo delitto, in A. Gamberini--­R. Orlandi (a cura di)

Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo Revisionismo penale, cit., p. 73.

319 G. Jakobs, Diritto penale del nemico, in M. Donini-­­M. Papa (a cura di) Diritto penale del

nemico. Un dibattito internazionale, cit., p. 13.

scorretta321, non si può non vederne la linea di continuità con parte della

tradizione penalistica continentale e, più in generale, con quella vicenda istituzionale e giuridica che, partendo dai crimina maiestatis, arriva fino alle leggi d’emergenza degli ultimi anni. La soluzione proposta da Jakobs – dividere il campo penale in due sistemi diversi, aventi come parametri di riferimento da una parte il cittadino, dall’altra il nemico -­­ non appare affatto una novità assoluta nella prassi e nel pensiero politico/giuridici: il diritto penale nel corso della sua evoluzione dogmatica e normativa ha infatti sovente conosciuto partizioni, segmentazioni tali da metterne in discussione l’omogeneità e l’unitarietà complessive.

Jakobs dunque seguirebbe quella tradizione di pensiero iniziata con Hobbes, ai cardini della dottrina dello Stato moderno: “i ribelli, i traditori, e tutti i rei di lesa maestà non devono essere puniti secondo il diritto civile, ma secondo quello naturale, cioè non come cattivi cittadini ma come nemici dello Stato, e non in forza del diritto di sovranità ma del diritto di guerra”322.

Scendendo sul piano normologico, i delitti contro la personalità dello Stato risponderebbero proprio a tale criterio, rappresentando una forma diversa di tutela penale: essi sono rivolti cioè ad una dimensione in cui

321 L’idea che il diritto, ed in particolare il diritto penale, serva solo agli interessi dei singoli,

sia (solo) strumento di pacificazione e di risoluzione dei conflitti (rectius tutela di beni) viene perentoriamente rifiutata. Cfr. G. Jakobs, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in A. Gamberini-­­R. Orlandi (a cura di) Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo Revisionismo penale, cit., in particolare p. 109.

322 T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino, in N. Bobbio (a cura di) Opere, Torino, Utet,

1988, XIV. Sottolinea Cazzetta, svolgendo anch’egli un paragone tra Hobbes e Jakobs: “Considerando la necessità di ottenere un obbedienza nel fare – e considerando che in Hobbes lo scopo della pena è comunque il terrore – la divisione netta tra la pena (rivolta verso il delinquente) e l’atto di ostilità rivolto verso chi è apertamente nemico, risulta continuamente minacciata da una possibile assenza di fedeltà: chi nega la sudditanza non riconosce più la punizione prescritta dalla legge, e perciò subisce la pena come nemico dello Stato”. In questo senso “la distinzione, con qualche variazione, è utilizzata oggi da Gunther Jakobs nella sua ricostruzione del diritto penale del nemico: a porre il delinquente come nemico non è la violazione alla norma ma l’assenza di fedeltà, il mancato riconoscimento della identità normativa del gruppo”. Cfr. G. Cazzetta, Qui delinquit amat poenam. Il nemico e la coscienza dell’ordine in età moderna, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2009, p. 460.

politica e diritto, diritto e guerra, si confondono inerendosi sistematicamente323.

Se si volesse dunque tentare, anche solo abbozzandola, una teoria giuridico-­­penale dell’inimicizia, questa dovrebbe partire, nel caso italiano, innanzitutto dai reati contro la personalità dello Stato: in questi si determina, infatti, una forma di relazione ostile, tra lo Stato ed il singolo, oggetto d’imputazione, che sovente sfugge alle mediazioni tradizionali del giuridico e che può essere compresa, lo ripetiamo, solo attraverso un’ interpretazione polemologica delle norme324.

323 Per tale ragione un fine giurista come Carrara arrivò a negarne perfino la giuridicità.

Così scrive: “La esposizione dei reati politici non può essere che una storia; e come semplice storia era inutile che io vi consacrassi un altro volume, quando è materia della quale sono piene le biblioteche. Come dottrina filosofica io mi sono convinto che il giure penale è impotente: che esso non sarà mai l’arbitro delle sorti di un uomo al quale applaude una parte ed impreca l’altra, senza che la così detta ragione punitiva si possa fare arbitra del vero fra quel plauso e quelle imprecazioni. Dirò la ultima parola; io mi sono sventuratamente convinto che politica e giustizia non nacquero sorelle; e che nel tema dei così detti reati contro la sicurezza dello Stato, così interna come esterna, non esiste diritto penale filosofico; laonde come nella pratica applicazione la politica impone sempre silenzio al criminalista così, nel campo della teoria gli mostra la inutilità delle sue speculazioni e lo consiglia a tacere”. Il seguente passo carrariano è presente in M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra otto e novecento, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 1973, pp. 638 e ss.

324 Nota sul punto Palano, discutendo sempre dello statuto del criminale politico tra ‘800 e

‘900: “Il dibattito sulla delinquenza politica di fine secolo e l’ipotesi lombrosiana sulla duplice psicologia dei terroristi (…) raffiguravano il criminale politico al tempo stesso come un sopravvissuto e un individuo affetto da patologie psichiche, e cioè come un individuo le cui azioni – lungi dall’essere il prodotto di lucide convinzioni politiche – discendevano in misura variabile, da riviviscenze atavistiche o da anomalie cerebrali. Se quest’operazione si accompagna per molti versi proprio all’affermazione della nuova economia del potere individuata da Foucault, essa delinea anche una figura del nemico che, pur senza rinunciare al bagaglio iconografico più tradizionale, ne ricolloca le immagini all’interno di una nuova rappresentazione spaziale della psiche. In altre parole, per effetto di una sorta di rivoluzione spaziale – differente, anche se connessa a quella individuata da Carl Schmitt – la ricerca sulla duplice psicologia del terrorista contribuiva a dare sostanza a una più ampia impresa teorica, che – a partire dalla rottura dei modelli classici della mente umana – produceva una nuova raffigurazione e concettualizzazione della psicologia umana. In sostanza, mentre le potenze occidentali, lanciandosi alla conquista di una frontiera mobile, riuscivano a costruire un modello dinamico di neutralizzazione del conflitto, la stessa dicotomia tra interno e d esterno, tra dentro e fuori, si trovava replicata al cuore della struttura antropologica individuale. Non solo il cervello – dissolta l’unità dell’anima – si trovava ad essere gradualmente frammentato, ma la sua stessa profondità, scandagliata da medici, filosofie scienziati, finiva col restituire l’immagine di una lotta analoga a quella ingaggiata da esploratori e conquistatori contro le popolazioni selvagge, primitive o feroci, collocate all’estremo confine dell’espansione occidentale. All’interno di questo percorso – e all’incrocio di molte discipline ottocentesche – la ricerca sulla psicologia estrema delle folle, delle plebi o dei terroristi, non costituiva semplicemente una tappa di avvicinamento alla scoperta dell’inconscio. Più propriamente, si trattava infatti del

Tali norme, rappresenterebbero, per usare una terminologia cara a Julien Freund325 -­­ autore cui ci si è riferiti in precedenza a proposito dello statuto

ontologico degli illeciti di sistema – figure di reato a cavallo tra la lutte e le

combat. Se, infatti, la lutte indica “la forma irrazionale e indeterminata dei

conflitti, talora disordinata, scatenata e confusa”326, le combat al contrario

descrive il duello, lo scontro messo in forma, tra soggetti, sul piano internazionale327.

In questo senso, i delitti contro lo Stato persona, tendono a giuridicizzare entrambe le dimensioni della conflittualità -­­ quella interna, di carattere sedizioso, volta a de-­­stabilizzare l’ordine sovrano statuale, e quella esterna, attraverso il coinvolgimento di un soggetto terzo nelle forme di uno Stato straniero.

Sul punto è stata oggetto di critiche la stessa differenziazione tra personalità esterna ed interna dello Stato, ritenuta troppo artificiosa e passibile di compromissioni: “L’artificio” secondo Padovani, “trae origine dalla constatazione che la soggettività dello stato è sostanzialmente unitaria

percorso con cui le scienze occidentali inventavano l’inconscio. Senza limitarsi a raffigurare il nemico come straniero, spingendone la presenza al di là dei confini fisici o politici dell’Occidente, la sovversiva logica d’azione del nuovo nemico veniva sepolta, al tempo stesso, nel passato remoto della specie e nelle profondità più recondite della psiche individuale. E mentre la logica dell’economia mercantile e coloniale dell’Occidente arrivava, almeno tendenzialmente, ad abbattere tutte le barriere naturali – e forse addirittura a dissolvere i confini tra il mondo civilizzato e l’esterno – l’esplorazione della mente umana, introiettando nelle profondità dell’inconscio l’alterità della barbarie coloniale primordiale e il nemico assoluto della civiltà, finiva col collocare il segreto dell’ordine politico, oltre la minaccia della sua sovversione, nel cuore di tenebra della coscienza”. Cfr. D. Palano, La psicologia del terrorista: Cesare Lombroso e il delitto politico, cit., p. 503.

325 Scrive lo studioso francese “la signification minimale de la politique est de trasformer la

lutte indistincte en combat règlementè (…) Un des moyens de remplir ce role de protection consiste prècisèment dans la trasformation au sein de la sociètè de la lutte indistincte et confuse en un combat grace à la règlementation des conflits par des conventions et deslois. Par la force des choses et en vertu de la logique de l’institution politique, c’est-­­à-­­dire la suppression du conflit violent, l’Etat tend ou doit tendre à èliminer dans la mesure du possible meme le combat pour y substituer la compètition règlèe par le droit, en dehors de toute violence”. Cfr. J. Freund, Sociologie du conflit, Paris, PUF, 1983, p. 79 e ss.

326 P.P. Portinaro, Excursus: Sociologia del conflitto e teoria del politico, in G. Miglio (a cura

di) Amicus (inimicus) Hostis. Le radici concettuali della conflittualità privata e della conflittualità pubblica, Milano, Giuffrè, 1992, p. 280.

327 Ibidem. I reati ex artt. 241 e ss rappresenterebbero icasticamente dunque questa

e non si presta alla distinzione tra un aspetto interno ed uno internazionale”328.

Al di là comunque di ogni considerazione in merito alla liceità del

paradigma personalista, di cui si è discusso e di cui qui si auspica una

rivisitazione, nel campo dei delitti contro lo Stato persona, il principio kelseniano della purezza e dell’indipendenza del sistema giuridico 329

sembra venire radicalmente meno: in questo campo, e anche volendo prescindere dalle valutazioni di Jakobs, il diritto tende a confondersi continuamente con le ragioni della politica, in lotta contro un criminale/nemico, per affermare l’ordine sovrano anche quando la statualità muta, perdendo la sua maschera tradizionale330.

328 T. Padovani, Bene giuridico e delitti politici. Contributo alla critica ed alla riforma del

titolo I, libro II c.p, in A.M. Stile (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, cit., p. 234.

329 Cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien, 1934, trad. it. Lineamenti di dottrina pura del

diritto, cit.

330 Cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Roma-­­Bari,

CAPITOLO SECONDO

Le basi filosofiche del Feindstrafrecht: il livello della prescrizione

SOMMARIO: 1. Retribuire o neutralizzare? Il paradigma jakobsiano alla luce delle dottrine della pena. 1.1 Uno sguardo sulla crisi dell’Illuminismo penale: la caduta del principio di proporzionalità. 1.2 Diritto penale classico vs moderno: due paradigmi opposti nello sviluppo teorico della pena. 1.3 Le radici hegeliane del pensiero penale jakobsiano. 2. Sorvegliare il nemico. Per una analisi biopolitica delle misure di sicurezza. 2.1 Il carattere specialpreventivo delle misure di sicurezza: tra diritto penale del nemico e logica governamentale. 2.2 Misure a carattere amministrativo o penale? 2.3 Il passaggio alle misure di prevenzione. Da una società disciplinare ad una società di controllo. 2.4 Per una critica del concetto di devianza. 3. La teoria della colpa in senso funzionale. 3.1 La crisi del principio della libertà del volere. 3.2 Sulla relazione tra colpa (Schuld) e fine (Zweck): la teoria penale nel giovane Schmitt e la sua vicinanza alla scuola sistemica. 3.3 La dignità quale valore costituzionale operante contro il giudizio di colpevolezza in senso funzionale.

1. Retribuire o neutralizzare? Il paradigma jakobsiano alla luce delle dottrine della pena

1.1 Uno sguardo sulla crisi dell’Illuminismo penale: la caduta del principio di