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2. Sorvegliare il nemico Per una analisi biopolitica delle misure d

2.2 Misure a carattere amministrativo o penale?

Prima di ritornare, di nuovo, sull’ipotesi circa la natura governamentale delle misure di sicurezza, soffermiamoci sul loro inquadramento dogmatico: il problema riguarda la loro genesi contestata. Si tratta di misure a carattere amministrativo o penale?

Sul punto in dottrina si sono registrati pareri diversi: Maria Antonella Pasculli ricorda come “Le misure di sicurezza si manifestano da principio come provvedimenti aventi natura amministrativa, alla stregua di qualsivoglia atto di polizia, rivolti a contrastare i soggetti pericolosi che delinquono, differenziandoli dalle pene, agganciate a principio di responsabilità e direttamente proporzionate al fatto commesso”427.

Tale interpretazione è importante perché, nell’equiparazione tra misure di sicurezza e atti di polizia, rilancia in un certo qual modo la nostra considerazione circa le misure di sicurezza quale tecnologia di potere tendente a controllare, disciplinare, sorvegliare: lontane dunque dallo schema retributivo che regola (o che dovrebbe regolare), nel suo complesso, il sistema penale; da un altro punto di vista, ne sottolinea la natura ancipite, a metà tra politica e diritto, legge e forza: dispositivi operanti in un regime giuridico d’eccezione in cui la legalità è in parte sospesa.

Bisogna dire però che, nel tempo, tale linea interpretativa -­­ la quale descrive la misura di sicurezza come atto di polizia avente natura amministrativa – si è in parte modificata: per alcuni addirittura è necessario andare oltre il sistema del doppio binario, che prevede da una parte le pene dall’altra le misure di sicurezza: “in seguito al riconoscimento costituzionale del finalismo rieducativo delle pene in senso stretto (art. 27, comma 3 Cost.)” si è scritto, “è venuta ormai meno però quella distinzione di scopi che in origine giustificava lo sdoppiamento del sistema

427 M. A. Pasculli, Le misure di sicurezza, in Commentario al codice penale, Persone e

sanzioni. Presupposti soggettivi, previsione comminazione ed esecuzione delle sanzioni penali in M. Ronco (diretto da), Bologna, Zanichelli, 2006, p. 768

sanzionatorio nell’assetto codicistico del ’30 (pena=retribuzione e prevenzione generale; misura di sicurezza=prevenzione speciale a mezzo di incapacitazione e/o risocializzazione)”428.

Anche la pena oramai -­­ e il riferimento al Feindstrafrecht è esemplificativo -­­ svolge secondo alcuni autorevoli autori una funzione di profilassi sociale tendente a “farsi carico di neutralizzare o attenuare la pericolosità del reo e di impedirne la ricaduta nel delitto”429. Questo però mette in discussione

una serie di questioni in apparenza consolidate: se le misure di sicurezza si presentano come oramai indistinguibili dalle pene – e le pene da esse -­­ per via della loro funzione, e del loro inquadramento dogmatico, qual è la ragione della loro esistenza, rectius della loro sopravvivenza?

Non più misure a carattere amministrativo ma pene vere e proprie, esse rappresenterebbero “la logica conseguenza alla commissione del fatto di reato e vengono ad essere applicate all’esito dello stesso processo giurisdizionale di garanzia, novellato dal c.p.p. 1988, in cui si accerta la penale responsabilità dell’individuo”430.

Quanto, tale assunzione dogmatica, riverberi sul piano del nostro discorso, è presto detto: nella sussunzione delle misure di sicurezza nell’ambito classico della pena, ciò determina che l’intero ordinamento penale (e non solo quello riguardante le misure di sicurezza), lungo tale direzione (pena=misura di sicurezza), tenda a caratterizzarsi in senso governamentale: tenda cioè ad amministrativizzarsi, così che sia la pena che la misura di sicurezza mutino contemporaneamente in dei dispositivi di disciplina; ma, riconosciuta tale sussunzione – delle misure di sicurezza nello schema generale delle pene -­­, dov’è che permane (se permane) la responsabilità per il fatto? Registriamo una sorta di cortocircuito, nell’analisi: se, secondo molti, pene e misure di sicurezza svolgono oramai lo stesso ruolo, per cui ogni differenziazione tende ad essere oggi più che mai obsoleta, è necessario capire quanto la natura dell’una condizioni la

428 G. Fiandaca--­E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 791. 429 Ibidem.

natura dell’altra, quanto cioè la pena perda il proprio status originario mutandosi in misura di sicurezza, e viceversa; è evidente che un discorso del genere non può essere affrontato solo da un punto di vista tecnico dogmatico, ma occorre valutarne i suoi effetti sul piano metagiuridico, sociale: rendere le pene e le misure di sicurezze fungibili, andare oltre lo schema del doppio binario significa rivoluzionare non solo l’assetto codicistico iniziale, parto del legislatore fascista, ma porre in forte discussione alcune categorie classiche del pensiero giusfilosofico e penale, tra le quali quelle della pericolosità, della colpevolezza, della responsabilità, che si sono sedimentate nel Moderno.

La previsione delle misure di sicurezza contribuì, infatti, non solo ad una riappacificazione tra la scuola classica e la scuola positiva, ma delineò un sistema in cui erano ben chiari i compiti: non tutto il diritto penale infatti, che nella sua generalità si fondava su parametri retributivi, ma solo una sua parte, basava la propria ragione giuridica, la propria operatività, in virtù della pericolosità sociale del soggetto sottoposto alla misura.

Dunque tecnologia di potere governamentale, dispositivo rivolto alla prevenzione e alla cura, attraverso la messa in custodia: l’area delle misure di sicurezza rappresentò inizialmente quel luogo, dell’ordinamento giuridico, sul confine tra penale e amministrativo, in cui si realizzava, in massimo grado, quel duplice compito di funzionalizzazione sociale -­­ di cui parla Jakobs riguardo al teleologismo sotteso al fatto penale – e di presa in carico biopolitica del soggetto.

“È un fatto accertabile” afferma Bettiol, “che le misure di sicurezza cominciano ad apparire – sia pure sporadicamente – nelle varie legislazioni e nei progetti di riforma solo quando lo Stato da un tipo spiccatamente liberale va trasformandosi in liberale-­­autoritario o in un tipo di Stato sociale- ­­autoritario”431.

Oggi, se possibile, gli argini – intesi come garanzie -­­ si sono (ancor di più) rotti: assistiamo, infatti, e in larga parte, ad un generale processo di

funzionalizzazione del diritto penale, che esorbita il perimetro classico delle

misure di sicurezza, tale da rendere l’intero impianto penale strumento di profilassi sociale in difesa non più del singolo ma della comunità – si osservi, come vedremo, per questo l’uso politico delle leggi d’emergenza.

Nell’ibridazione, tra pene e misure di sicurezza, opera anche il principio della spiritualizzazione del concetto di (illecito) Unrecht – per cui il diritto penale protegge funzioni, interessi generali, non beni individuali.

Torniamo allora, e nuovamente, a sondare i diversi caratteri delle misure di sicurezza in prospettiva di una loro interpretazione biopolitica, quali dispositivi di potere governamentale.

Se, per quanto finora detto, pene e misure di sicurezza vanno perdendo la loro differenza originaria, è importante osservare – di queste ultime -­­ alcuni profili tali da rendere ancora la misura di sicurezza, e in particolare la misura di prevenzione, strumenti sanzionatori particolarissimi, in qualche modo sussumibili nella logica del Feindstrafrecht jakobsiano e altrettanto inquadrabili nella categoria di dispositivo. Si badi: in linea di principio l’impianto assiologico che ispira da una parte la logica del dispositivo, dall’altra quella del Feindstrafrecht, sono divergenti: attraverso il dispositivo, infatti, il potere (governamentale) regola, disciplina, (ri)produce categorie sociali; per mezzo del diritto penale del nemico invece si tende ad escludere, coartare, finanche neutralizzare l’altro ritenuto ostile. Nondimeno esiste un punto di contatto. In questo senso ciò che rileva subito, e che può essere utilizzato ai fini di tale lettura, è il principio della pericolosità sociale. In virtù di tale principio agisce, infatti, lo spettro delle misure di sicurezza (e delle misure di prevenzione), in linea con la logica del Feindstrafrecht, e su questo stesso principio si basa la loro natura di dispositivi tesi alla soggettivazione432.

Sul principio di pericolosità tanto si è scritto, tanto da renderlo principio ispiratore di una importantissima scuola interpretativa di diritto penale (la scuola positiva). Ed è proprio nel principio di pericolosità (sociale) che può

432 Cfr. De Cristofaro, Legalità e pericolosità. La penalistica nazifascista e la dialettica tra

rintracciarsi quella razionalità governamentale che regola e governa la materia delle misure di sicurezza: “Quale presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza, la categoria della pericolosità sociale (o criminale) è stata dal legislatore del ’30 recepita secondo la specifica elaborazione maturata nell’ambito del positivismo criminologico di fine Ottocento: in questo contesto teorico e culturale, la pericolosità sociale viene cioè a coincidere con la probabilità che un soggetto, a causa delle sue caratteristiche fisiche e/o dell’influenza esercitata dall’ambiente, commetta in futuro fatti di reato”433.

È evidente, in queste parole, il taglio biopolitico adottato, nell’elaborazione del concetto di pericolosità, dalla dottrina. Qui, nella prospettiva della pericolosità sociale, il giuridico si confonde continuamente, attraversandola, con la vita. Ed è proprio da questo

attraversamento che nasce la categoria del delinquente434, cui si indirizzano

le misure di sicurezza: “Il delinquente”, scrive Foucault, prodotto del sistema carcerario moderno, “si distingue dall’autore di una infrazione per il fatto che è meno il suo atto che non la sua vita ad essere pertinente per caratterizzarlo. L’operazione penitenziaria, se vuole essere una vera rieducazione, deve totalizzare l’esistenza del delinquente, fare della prigione una sorta di teatro artificiale e coercitivo dove quell’esistenza verrà considerata dal principio alla fine”435.

Il carcere definisce e perfeziona l’ontologia criminale del delinquente, colui verso il quale l’indagine “deve risalire non solo alle circostanze, ma alla cause del crimine; cercarle nella storia della sua vita, dal triplo punto di vista della organizzazione, della posizione sociale e dell’educazione, per conoscere e constatare le pericolose tendenze della prima, le incresciose disposizioni della seconda, ed i cattivi antecedenti della terza”436.

433 G. Fiandaca--­E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 795.

434 La categoria del delinquente qui descritta può essere paragonata, sotto diversi punti, a

quella del nemico nell’ottica jakobsiana.

435 M. Foucault, Surveiller et punir, trad. it. A. Tarchetti (a cura di) Sorvegliare e punire.

Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 275 e ss.

Dal nostro punto di vista le misure di sicurezza, e meglio di esse le misure di prevenzione, realizzano quel piano d’immanenza del diritto (penale) rispetto alla vita: se la pena quale castigo legale si fonda infatti su un fatto, secondo il paradigma retributivo – ma abbiamo visto come quel paradigma sia oggi alquanto in crisi, nella prassi e nella dottrina -­­ e dunque è circostanziata nello spazio e nel tempo, le misure di sicurezza (rectius le misure di prevenzione) rappresentano al contrario una tecnica punitiva operante sulla vita, sul bios, senza interruzioni, secondo il principio della pericolosità sociale.

Definire come “governamentale” il regime sanzionatorio sotteso alla materia delle misure di sicurezza appare allora come la presa d’atto di una realtà indiscutibile: nonostante operi in esse anche il principio di legalità, sotto il duplice parametro della riserva di legge e della tassatività, le misure di sicurezza mostrano chiari riflessi disciplinari che non possono essere elusi al fine di una comprensione efficace delle stesse. Scendendo più nel dettaglio, volendo meglio delineare il nesso governamentalità/misure di sicurezza, sul piano del diritto positivo, si potrebbe far riferimento alla casa di cura e di custodia, come visto appartenente all’alveo delle misure di sicurezza personali detentive, quale figura iuris icastica di tutto questo discorso. Tale rappresenta, secondo autorevole dottrina, proprio “un ibrido di ideologia curativa e di ideologia custodialistica”437.

Senza voler aggiungere altro, e senza dilungarci in una ricostruzione meramente tecnicistica dell’istituto, compito dei giuristi penalisti, ecco confermate le nostre considerazioni iniziali: è proprio in relazione a quella duplice ideologia infatti, curativa e custodialistica, sottesa allo schema generale delle misure di sicurezza a carattere detentivo personale, che si può scorgere, in filigrana, la traccia di quel potere che vuole disporre delle vita, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue forme.

2.3 Il passaggio alle misure di prevenzione. Da una società disciplinare ad una