3.4 “Castelnuovo venirà sotto l’ombra della illustrissima Signoria nostra”: la controversa questione tra i Gavardi e i Tarsia per il possesso di Castelnuovo
3.6 Contrabbandi e banditi Contrabbandi
Il porto di Latisana, oltre ad essere il punto di arrivo di tutto il legname, sciolto o compattato in zattere, era assieme a Monfacone (porto di attracco per le barche di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia) punto nevralgico del movimento clandestino. Come recitano carte degli Inqui-sitori di Stato di data tardiva, riferite però a una situazione da tempo acquisita: “(…) le barche della Tisana che portano a Senigaglia legname e tavole di mercanzia soliono tornare con molte merci vietate, anche olio e tabacco e, per sfuggire le ispezioni delle barche armate che custo-discono l’imboccatura del Tagliamento, usano passare con fede e spedizione da Ancona a Trieste. Qui caricano le merci sopra le barche triestine e le trasportano con bolletta di transito per il fiume Stella e poi di notte alla Tisana con delusione delle leggi”551.
Il formarsi di flussi di contrabbando era sempre largamente presente già nel XVI secolo, nonostante il Settecento sia considerato per antonomasia il secolo del contrabbando. Nel 1503, infatti, una legge sanciva che tutto il legname, di provenienza interna o estera, dovesse far capo a Venezia. In questo modo la Repubblica tese a coprire le proprie necessità e ad ac-capparrarsi le entrate fiscali di un settore che garantiva rapporti facili e sicuri con il resto d’Italia. La risposta dei mercanti era una chiara conseguenza della politica protezionistica ve-neziana: si dichiaravano pronti a non evadere i dazi pur di ottenere l’esonero dal viaggio a Ve-nezia, anche in considerazione della concorrenza serrata degli arciducali lungo il Tagliamento
547
Relazioni dei rettori veneti in Terraferma. Provveditorato di Marano cit., p. 158.
548 ASV, PSCC, b. 169.
549
M. Melchiorre, Conoscere per governare cit., p. 137.
550
Relazioni dei rettori veneti in Terraferma. Provveditorato di Marano cit., p. 185.
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attraverso le ville di Gradiscutta e Goricizza e quindi lungo lo Stella (senza dover sottostare ad alcun aggravio!). Venezia, però, restava irremovibile.
Il governo lagunare, infatti, attribuendo grande importanza al controllo dei confini, agiva a tutela dei suoi interessi economici, fondati in gran parte su una politica commerciale e indu-striale contrassegnata da rigide norme protezionistiche e monopolistiche. Il pesante fiscalismo veneziano, unito alla severità delle pene previste, tuttavia, contrastava con l’ampiezza delle evasioni fiscali, che un farraginoso apparato di controllo e di repressione non era in grado di fronteggiare e circoscrivere, offrendo varchi sempre più ampi al commercio di frodo e al con-trabbando552. Si trafficava di tutto e in ogni luogo. Lungo le coste istriane e dalmate, a ridosso dei confini con gli arciducali, col mantovano, con gli stati pontifici e col milanese. Un flusso ininterrotto di olio, sale, granaglie, tabacco, vino, pesce salato, legname attraversava l’Adriatico e i sentieri che si diramavano dalle valli alpine, dalle province di Bergamo e di Bre-scia al Friuli. Lungo tutto l’arco alpino, lo scavalcamento dei confini da parte di contrabbandie-ri occasionali o abituali era prassi sempre più diffusa. Sul confine ocontrabbandie-rientale, le roccaforti del contrabbando si radicavano in alcune zone, nelle valli delle Prealpi carniche e nelle valli dell’Isonzo, in Carniola, e sul Carso. Da sottolineare come il fenomeno del contrabbando fosse endemico e praticato da larga parte della popolazione, sia veneta che arciducale.
Le relazioni dei luogotenenti segnalavano con frequenza il problema. Nel 1527, Giovanni Moro proponeva come soluzione per “obviar tali contrabandi” di pagare con il denaro dei dazi “4 homini da ben, che serveno a cavallo, alli qual sia datto una patente per la qual sia com-messa in efficaze forma a quelli delli castelli et ville dove andasseno, che li fusse dato homini e favor per tuor li contrabandi, che loro avesseno spiati e trovati”. Secondo lui, la Repubblica avrebbe beneficiato di un aumento annuo di 13-14.000 ducati sulle entrate dei dazi553. Consi-glio che rimase lettera morta, dal momento che Alvise Giustinian nel 1577 denunciava una cronica impotenza dell’autorità veneziana a “prohibir li contrabandi, primo perché la patria è grande, et perché il magistrato non ha officiali et perché anco quelli che vengono deputati, non essendo cosa né interesso suo, non usano quella diligentia, et solecitudine che usano li datiari”554
Nella stessa situazione s'era trovato il podestà di Pirano Nicolò Longo, quando nel 1531 puntava il dito contro la persistenza del fenomeno del contrabbando del sale, causato in mas-sima parte dall’inefficenza e dalla mancanza di mezzi forniti dall’autorità centrale ai rettori istriani per arginare il fenomeno:
“de qui li vostri rettori hano pochissime forze per retrovarsi haver de ministri solum uno ca-valier senza offitiali et ale volte giova pocho il comandar et ordenar, né la terra vuol sentir che se habia offitiali, perché voleno poter far a loro modo senza timor della iustitia. (…)quando ditti offitiali fosseno, le cose vostre di sali andariano meglio, ne saria in preda
552
Sul fenomeno del contrabbando nella Repubblica di Venezia, cfr. F. Bianco, Ribellismi, rivolte antifiscali e
re-pressione della criminalità cit.; Idem, Contadini e popolo tra conservazione e rivolta. Ai confini orientali della Re-pubblica di Venezia tra ‘400 e ‘800. Saggi di storia sociale, Udine 2002 e Idem, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del ‘700: la comunità di villaggio tra conservazione e rivolta, Verona 2005.
553
Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, I, cit., p. 8.
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me sono, perché a quello che in facto atrovo, vedo che ogni anno si ha fatto per mare notabi-lissimi contrabandi de sali, a ruina deli datii vostri dela Patria et del Trivisano, et tamen li var-diani vostri delle saline non hano denuntiato tal contrabandieri per non haver spale da li mi-nistri vostri et offitiali et forsi perché dubitano esser amazati”.
Se il governo marciano non avesse provveduto in tempo ad inviare ulteriori funzionari e denaro per pagarli, “in breve <Pirano> sarà una sentina de gioti banditi et contrabandieri”555. Uno dei problemi principali era il fatto che i mercanti e i contrabbandieri mostravano grande prontezza nello sfruttare le lacune dell’apparato doganale, veneto o arciducale. Le autorità tentavano periodicamente di stringere le maglie e irregimentare le direttrici dei traffici esi-stenti istituendo nuovi punti di riscossione delle gabelle; questo, però, rischiava di far deviare i percorsi. Dalle frontiere montane settentrionali con la Carinzia fino al groviglio confinario della pianura meridionale, le direttrici dei flussi commerciali denotavano una notevole persistenza nel tempo, ma accadeva che questi percorsi mutassero con facilità, a seconda delle gabelle che si volevano evitare, dirottando le merci su stlrade irregolari.
La questione dell’indeterminatezza della linea confinaria tra territori veneti e territori arci-ducali finiva molto spesso per ripercuotersi sulla gestione di entrambe i governi in materia di contrabbando. Nel 1524 alla requisizione di sale (trasportato illegalmente da sudditi arciducali sul territorio di Monfalcone) compiuta dal podestà, fece seguito la rappresaglia di Nicolò Della Torre, il quale ordinò ai suoi uomini di sequestrare 150 capi di bestiame nella villa di Ronchis, sotto la giurisdizione di Monfalcone. Il podestà Francesco Salamon, giudicando la rappresaglia arciducale “tropo austera et cruda, maxime da amici”, prometteva di “restituir li cavalli et sal tolti (…) fin sia cognosciuto utrum che ditto contrabando sia ben over mal tolto” a patto che il Della Torre “ne dagi una optima fideiussion” e che restituisse il maltolto agli abitanti di Ron-chis. La soluzione più opportuna sembrò essere quella proposta alcuni giorni dopo dal luogo-tenente:
“ho scripto al magnifico podestà di Monfalcon chel se vogli intender cum mi et andar super loco et veder se cum verità el contrabando està tolto in iurisdiction del serenissimo principe vostro il che essendo facia restituir quanto per lui està tolto a ditti contrabandieri, come è iu-sto siano preservati de quello, vorei fusseno quelli de la serenissima mia Signoria quando an-cora ditto contrabando fusse sta tolto in la iurisdicion dela prelibata serenissima Signoria, vo-stra magnificentia sarà contenta far quel officio che ho commesso sia fatto verso lei et far re-lassar li animali tolti”556.
I veneziani lamentavano la pratica dei mercanti austriaci di evitare gli scali portuali veneti per non pagare le relative mude. Questi, infatti, preferivano transitare dai porti arciducali di Trieste e Precenicco, sul fiume Stella:
“Alla scalla di Trieste arrivano tutti i navigli grossi, et de ogni portata, i quali scaricando ogli, et in fine ogni sorte di robbe et mercantie, carricano essi poi di ferramenta per Ancona, per Puglia, per Dalmatia e Levante onde vengono in un medesimo tempo a rendere dui danni a
555
ASV, Capi Consiglio dei Dieci, Lettere rettori, b. 267, f. 12, 3 maggio 1531. Si vedano i processi criminali istituiti tra 1579 e 1580 contro i contrabbandi di sale in ASV, PSCC, b. 210.
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datii de vostra Serenità: l’uno delle robbe che conducono da Levante et sottovento a quei luochi, chè doveriano essere condutte de qui, l’altra de ferramenta che levano in quel luoco, et che altre volte solevano venir a comprare in questa Città, la qual ferramenta li arciducali fanno condurre da quelle montagne a quelle marine per frequentare quelle scalle, et per dar occasione a navigli di venirvi, i quali sentono grandissimo avantaggio et per la commodità del viaggio et per il pocco datio che pagano, et in questo modo sviano questa piazza, et fanno prender quella strada a tutto il ferro, chè altre volte soleva da quelle parti esser condutto de qui. Li ogli poi, et altre robbe, che essi recevono da navigli, et altre mercantie, le caricano so-pra barche et le conducono per quelle marine alla bocca dell’Isonzo, facendolo anco con i medesmi navigli, dove entrando li scaricano a Tapoiano, dove hanno i loro magazeni, et di dove i mercanti della Patria levano poi quanto gli fa bisogno, i quali per non esser più de X miglia lontani da Udene, conducono con pocca spesa ogni sorte di robba, la qual se ne và per il più per paesi arciducali et del patriarca, poiché non ha di transito per le giurisdittioni di questo illustrissimo dominio più che 10 miglia (…).Alla scalla de Percinis luogo lontano da La-tisana 3 miglia, arrivano altri navigli che portano anco essi ogli et ogni altra sorte di mercan-tie, nel qual luoco hanno medesimamente i magazeni di dove i mercanti della Patria et d’Alemagna levano le robbe, conducendole anco essi con poca spesa dove più lor piace et co-sì come a Trieste i arciducali caricano per Levante et altri luochi ferramenta, coco-sì a Percinis caricano legname de ogni sorte, il qual conducono da Latisana sopra carri, che passando dalle iurisdittion de Latisana subito nel stato arciducale, non può da nessuno esser impedito, né prohibito, che è danno notabilissimo, poiché tutti quelli che venivano altre volte in questa Città a comprar delle suddette mercantie, hora si servono tutti per quella banda. A queste scalle ancora vengono condutte molte spetie, et altre robbe simili, perché arrivando le navi in Istria da Levante, si fanno lecito i marinari, et altri mercanti scaricare le robbe di lor ragione, et condurle in quei paesi, dove le vendono con qualche avantaggio et libere de datii”557.
Le stesse problematiche erano segnalate dalle autorità arciducali. I mercanti che si dirige-vano verso Gorizia provenienti dalla Carniola meridionale potedirige-vano entrare in territorio gori-ziano percorrendo la valle del Vipacco, dove la muda arciducale era situata a S. Croce del Vi-pacco, oppure attraverso il Carso (qui la muda era a S. Daniele del Carso). La prima delle due strade faceva parte dell’arteria detta ‘strada di Lubiana’ (o ‘della Carniola’) proveniente dall’Ungheria, la seconda fungeva anche da collegamento fra Trieste e Gorizia. Giungendo dal-la Carniodal-la settentrionale le gabelle venivano riscosse a S. Lucia presso Tolmino, da dove l’accesso al Friuli avveniva per la via di Caporetto in direzione di Cividale, su quella del Collio, oppure passando per Gorizia558.
Uscendo da Gorizia verso il Friuli veneto, le mude cesaree erano poste a Gradisca e Villesse, cui competeva la zona dove il confine con la Repubblica era più problematico. Si trattava, in-fatti, di un’area in cui la complessa trama della frontiera offriva molte opportunità di trovare percorsi alternativi che consentissero l’aggiramento delle gabelle, sia sulle vie d’acqua (Isonzo) che su quelle di terra. Nelle vicine terre arciducali c’erano altri luoghi d’esazione, che interes-savano i traffici dell’area: questi erano situati a Trieste, S. Giovanni di Duino, Cervignano, Plez-zo, Cave del Predil e Tarvisio. Provenendo dal mare, i mercanti approdavano ai porti arciducali di Trieste o S. Giovanni di Duino, proseguivano per Gorizia e poi per la strada dell’Isonzo, fino
557
ASV, PSCC, b. 219, “Scrittura de Andrea Capello in proposito de discapiti ne datii del Friul presentata al Conse-glio di Dieci, con particolari osservazioni in tale proposito” (s.d.).
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a Tarvisio (e viceversa). In alternativa, partendo da Duino attraversavano l’enclave veneziana di Monfalcone, si presentavano alle mude arciducali di Villesse o di Gradisca e proseguivano attraverso il Friuli veneto, pagando le gabelle a Venzone e a Chiusaforte, fino a incontrare nuovamente gli uffici austriaci a Pontebba e a Tarvisio. Per scongiurare l’accumulo degli ag-gravi, si distingueva tra dazi d’entrata, pedaggi di transito e diritti di scarico. Le mude di solito fungevano da luoghi intermedi di controllo della regolarità delle strade utilizzate dai viaggiato-ri, garantendo una più capillare presenza sul territorio, per intercettare i traffici che rischiava-no di trasformarsi in contrabbando. a tal fine le merci erarischiava-no accompagnate da certificati rila-sciati dalle mude (le bollette), che attestavano la qualità e la quantità del carico e l’avvenuto pagamento delle imposte.
Nel 1567 l’esattore arciducale Peter Julliani chiedeva alle autorità centrali di essere aiutato nelle sue funzioni da un numero maggiore di doganieri, affinchè i controlli doganali fossero rafforzati e si ponesse un freno al contrabbando praticato sul territorio559. Egli, inoltre, riferiva che lo spostamento di un luogo di riscossione daziaria aveva accentuato i passaggi di contrab-bando sul Carso, che tra XVI e XVII secolo conobbe intensi traffici illegali, fungendo sia da zona di transito sia da area di contrabbando attivo. Da Dutovlje i mercanti proseguivano aggirando Duino e attraversavano il Vallone per arrivare a Monfalcone. Entrati nell’enclave veneta, i con-trabbandieri si facevano “dare dal podestà del luogo un certificato che attesta che la merce o il bestiame è cresciuto in territorio veneziano e dagli stessi ivi acquistato, dopodichè possono portarsi a Villesse (muda arciducale), dove pagano solo il transito, per poi dirigersi (nuova-mente) in territorio veneziano dove vogliono”560. La questione sollevata dall’esattore trovò ri-scontro anche nei decenni seguenti; nel complesso, infatti, il controllo sull’area di confine non segnò progressi significativi. Ancora nel 1587 l’arciduca Carlo riferiva al conte Raimondo Della Torre dei “contrabandi che i somari et contadini del Carso fanno per il Vallone senza pagar la muda di S. Giovanni”. Il 13 giugno Girolamo Campana, mudaro arciducale di Duino aveva
“trovato nel Vallon sotto il territorio di Duino alchuni sudditi di Tulmino con somme 21 di ri-bolla comprata et cargata in luochi veneti prohibiti qual conducevano via di contrabando ar-mati di schioppi et altre arme offensibili senza pagar il dritto ch’erano tenuti pagare alla Ca-mera nostra archiducale et anco quatro somari di Senoseza con otto somme di vin veneto che parimente lo conducevano via senza le ordinarie bollette et contra la nostra seriosa inhibitione già alquanti anni passati fatta”561.
La questione finì per creare degli attriti tra l’arciduca e il Della Torre, in merito soprattutto alla gestione ‘troppo indipendente’ e in contrasto con i funzionari triestini di quest’ultimo. Raimondo Della Torre pretendeva di gestire in maniera autonoma “le decisioni di contraban-di”, procedendo al sequestro dei prodotti contrabbandati, affermando che questi spettavano di diritto al possessore di Duino e non all’esattore di Trieste o al mudaro di S. Giovanni. Il Della Torre, infatti, alla morte del suocero Mathias Hofer (già capitano di Duino), il 26 aprile 1587 era stato investito dall’arciduca della signoria di Duino. I suoi rapporti con Trieste non furono
559
Ibid., pp. 155-156.
560
Cit. da Ibid., pp. 162-163.
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mai sereni: egli si lamentava con l’Asburgo dell’ “insopportabile insolenza” dei triestini su que-stioni riguardanti alcune pertinenze contese e non mancava, come nel caso sopracitato, di ar-rogarsi diritti che non aveva562.
Per tentare di reprimere drasticamente la pratica del contrabbando (inutilmente, però), il nuovo arciduca Ferdinando, figlio del precedente Carlo, emanò nel 1597 un provvedimento volto ad indebolire la ‘proliferazione’, divenuta endemica, di percorsi alternativi per il traspor-to di “vini forastieri”, “con grave impedimentraspor-to delli vini tergestini del paese et in pregiuditio delli utili della nostra Camera”. Secondo quanto stabilito dall’arciduca,
“quelli tali che (…) vorano passar per altre strade inusitate et porti et non comparirano al no-stro quarantesimo di Trieste et Santo Zuane a quelli subito si debba tior tutto quello che con-durano et con quello sarano ritrovati per spedito contrabando et in cadauna giurisditione da quelli magistrati o loro substituti subito sia retenuto et scaricato et acciò antedetti officianti drio simile prohibitione di così dannevole strade per le quali sarano stati condotti detti vini con più diligenza et maggior zelo habbino causa d’oviare, vogliamo che la mettà di detto con-trabando debba esser dato a colui che haverà trovato, overo all’accusador di quello et del re-stante s’habbia a render conto alla nostra Camera”563.
In precedenza, infatti, la metà dei proventi dei sequestri per contrabbando spettavano all’erario camerale, mentre l’altra metà veniva suddivisa ulteriormente in due parti: un quarto spettava all’esattore, l’altro quarto a chi aveva scoperto il traffico illegale (l’ufficiale della mu-da o il denunciante). In questo modo si sperava di incentivare i sudditi a collaborare con l’autorità, quando invece era proprio la popolazione locale complice e sostenitrice delle prati-che del contrabbando: la diffusione dei traffici tra la popolazione si caratterizzava come biso-gno di trovare risorse integrative alla mera coltivazione della terra. La chiave di volta per spie-gare tutto questo va senz’altro identificata nel confine, così vicino e dal profilo incerto e fra-stagliato.
Bandi e banditi
Come abbiamo visto, la questione irrisolta riguardante la definizione del confine orientale, ol-tre a generare continue controversie fra territori arciducali e giurisdizioni venete, contribuì in maniera determinante alla rapida diffusione di pratiche illegali, come il contrabbando e il ban-ditismo, sia al di qua che al di là della frontiera. L’esistenza di una fluida demarcazione tra do-mini veneziani e asburgici nella parte più orientale della Terraferma influenzò non poco la dif-fusa proliferazione della violenza in quest’area. Le ragioni di questo fenomeno vanno indivi-duate non solo nella diffusa prassi del bando (chiaro indicatore della poca efficienza del
562
Ancora nel 1592, l’esattore di Trieste scriveva al mudaro di S. Giovanni sul Carso che “l’illustre signor conte Raimondo pretende di iustificar il contrabant di 5 summe di vino forastiero, per voi et vostri ministri ritenute, pe-rò essendo tale l’intentione dell’illustre conte di iustificar tali contrabanti, contraria alli Generali del eccelso R.to et Camera l’anno passato in questa causa emanati, (…) vogliate dunque quanto prima con questa copia andar a trovar lo illustre signor conte et sopra quella intender la sua resolutione se quella dunque sarà secondo la sua prima intentione et proposito”, in ASTS, Ibid., 7 marzo 1592. Sulla figura di Raimondo Della Torre, v. G. Benzoni,
Della Torre, Raimondo, in DBI cit., pp. 660-666.
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ma giudiziario veneziano e dell’insufficienza di mezzi efficaci di repressione)564, ma anche nella tendenza della nobiltà friulana a ‘scavalcare il confine’ nell’esercizio di funzioni giurisdizionali