• Non ci sono risultati.

3. Una valutazione qualitativa del contratto a termine nel segno d

3.2. Il contratto a termine come forma «speciale» di occupazione?

Come si è visto nel paragrafo precedente, la precarizzazione lavorativa può essere immaginata come un fenomeno dalle molteplici dimensioni, che non si riduce nella mera instabilità occupazionale e non può essere unicamente

ricondotto alle forme di occupazione a tempo determinato306.

In estrema sintesi, si potrebbe definire come “precario” quel lavoratore che non è in grado di provvedere al proprio sostentamento attraverso la partecipazione al mercato del lavoro, oppure attraverso l’accesso agli schemi di mantenimento del reddito previsti per la tutela dei periodi di non lavoro307. La precarizzazione, in definitiva, deve essere vista come un fenomeno sociale collegato alla perdita delle garanzie e dei diritti propri del modello standard di occupazione sino ad allora caratterizzato da una sicurezza nel mercato del lavoro (politiche keynesiane di pieno impiego308), da una sicurezza dell’occupazione

306

Per un’analisi più approfondita sulle dimensioni della precarietà, cfr. CANO E., Precarizzazione lavorativa, flessibilità e deregolarizzazione: riflessioni introduttive sulla situazione spagnola, in in RIZZA R. (a cura di), op. cit., 325 ss.

307 Cfr. B

ERTON F.-RICHIARDI M.-SACCHI S., op. cit., 33.

308 Secondo Keynes il mercato lasciato a se stesso può raggiungere da solo l’equilibrio grazie

all’operare delle forze economiche della domanda e dell’offerta. Tale equilibrio è sempre di pieno impiego. In particolare, l’economista individua le cause della crisi economica del ‘29 nell’insufficienza di domanda per i beni di consumo (da parte dei consumatori) e per i beni di investimento (da parte delle imprese): il basso livello della spesa per i consumi e per gli investimenti aveva infatti causato la crisi e l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione. Keynes individua nell’aumento della spesa pubblica la manovra di politica

143

(istituzionalizzazione della stabilità del lavoro e della protezione di fronte al licenziamento), da una sicurezza sul posto di lavoro (forte presenza della contrattazione sindacale sulle condizioni di lavoro), da una sicurezza dei redditi e da una garanzia di protezione sociale (legislazioni sul salario minimo, aumento del salario contrattato collettivamente, indennità di disoccupazione, pensioni di vecchiaia, accesso a istruzione e sanità pubbliche)309.

E’ pertanto inevitabile che il concetto de quo venga tendenzialmente ricondotto alla tipologia di contratti c.d. atipici. In ogni caso, non va trascurato che nel corso degli anni si è assistito ad una diminuzione di tutele di tipo generale, in cui ad essere colpite sono state non solo le nuove forme di lavoro non standard ma anche le occupazioni a tempo pieno ed indeterminato. In tal senso, si può sostenere che «i lavoratori con contratti atipici risulteranno più precari dei lavoratori con contratti tipici se le loro carriere sono più discontinue e se l’eventuale maggiore discontinuità non è compensata né da retribuzioni maggiori guadagnate durante i periodi di lavoro, né da adeguati schemi di

mantenimento del reddito»310.

E’ dunque rilevante analizzare il fenomeno da un punto di vista dinamico, ossia in riferimento alla sua durata. Si dovrà, in altri termini, distinguere tra l’ipotesi di passaggio temporaneo alla precarietà (è il caso dei neolaureati) dall’ipotesi di precarietà di lunga durata: nel primo caso, il lavoratore paga con la flessibilità il c.d. learning on the job che gli consente di transitare verso un lavoro a condizioni migliori (garanzia di redditi adeguati nel lungo periodo, creazione di un’identità positiva e di un riconoscimento sociale, accesso a diritti sociali); nel secondo caso, invero, il lavoratore alterna periodi di occupazioni insoddisfacenti a periodi di disoccupazione senza prospettive future di miglioramento, resta cioè vittima della c.d. trappola della precarietà311.

economica più efficiente per il ritorno alla piena occupazione (la spesa pubblica costituisce essa stessa una domanda di consumo, proveniente dall’apparato pubblico e non dai cittadini o dalle imprese). Attraverso la spesa pubblica in economia lo Stato può aumentare la domanda aggregata di beni; la conseguente ripresa dei consumi porta il sistema verso il pieno impiego e lontano dalla crisi da insufficienza di domanda. Per una più ampia comprensione della politica macroeconomica di Keynes, cfr. KRUGMAN P. - WELLS R. - OLNEY M. L., L’essenziale di economia, Bologna, 2007, 397.

309 Cfr. C

ANO E., op. cit., 326.

310 B

ERTON F.-RICHIARDI M.-SACCHI S., op. cit.

311

Cfr. FREY L.- PAPPADÀ G., Le politiche di contenimento/superamento della occupazione precaria, con particolare riguardo alla legge Biagi, Milano, 2003, 50.

Il contratto a tempo determinato nel dibattito su flessibilità e precarietà nel mondo del lavoro

144

In ogni caso, a prescindere dalla tecnica definitoria prescelta, la conclusione sembra essere la medesima: l’atipicità che si trasforma rapidamente in occupazione stabile non è precarietà, ma semplicemente inserimento lavorativo che necessita di un determinato periodo per evolvere in un’occupazione standard e la tipologia contrattuale (non standard) utilizzata avrebbe il ruolo di “porta di entrata” verso l’occupazione stabile (c.d. “flessibilità in entrata”312

). La quota di atipici che non evolve e rimane sempre nelle medesime condizioni di incertezza rappresenta, invece, la “trappola della precarietà”. In definitiva, il concetto di precarietà, associato all’utilizzo delle forme contrattuali atipiche, di cui il contratto a tempo determinato risulta essere il baluardo, non assume esclusivamente valenza negativa, ben potendo tradursi nella possibilità futura di un’identità lavorativa313

: il singolo lavoratore dovrà essere in grado di utilizzare le “opportunità” derivanti da un’occupazione insicura per costruirsi una carriera stabile, così fuoriuscendo dalle insidie della precarietà ed eludendo il rischio di rimanervi definitivamente imprigionato. In tal senso, il contratto a tempo determinato ben potrebbe rappresentare una forma «speciale» di occupazione, che permette l’inserimento del lavoratore nel mercato del lavoro, traghettandolo dalla flessibilità alla stabilità o, comunque, permettendogli di scegliere il percorso più adatto alle sue esigenze e necessità. Tali conclusioni sono perfettamente in linea con la lettura fornita all’interno del Libro Verde della Commissione europea del 2006, laddove si rileva come l’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili abbia comportato, per il lavoratore, «maggiori opzioni» in riferimento all’organizzazione dell’orario di lavoro, alle possibilità di carriera, ad un migliore equilibrio tra la vita familiare e professionale e la formazione, oltre ad una maggiore responsabilità personale.

In altri termini, su più fronti, si ravvisa la necessità di recuperare l’identità del lavoratore in quanto soggetto in grado di compiere delle scelte. In tale ottica, l’idea del lavoratore “standardizzato”, tutelato in maniera uniforme ed inderogabile, non risulta sostenibile quando a dover essere rispettate non sono le uguaglianze, ma le differenze, a seconda delle circostanze, del contesto di

312 Tale espressione viene utilizzata proprio per indicare quella forma di flessibilità che

caratterizza la disciplina di accesso alle tipologie di lavoro diverse dal modello standard, incentrato sulla durata indeterminata del contratto.

313 Cfr. S

145

riferimento, ma, soprattutto, in relazione alle specifiche e soggettive esigenze di

ciascun dipendente314. In conclusione, non è l’uguaglianza formale del

lavoratore standard, rispetto al lavoratore non standard, a dover essere salvaguardata, bensì quella sostanziale, tramite il riconoscimento di tutele differenziate a fronte di differenziate esigenze e necessità del lavoratore in quanto tale.

3.3. Possibili antidoti alla precarietà: le proposte di riforma avanzate