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Il d.lgs. n. 368 del 2001, almeno nella versione originaria (prima cioè dell’introduzione del comma 01, art. 1, d.lgs. n. 368/2001, per cui «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato»), non disciplinava espressamente le conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di mancata indicazione delle ragioni giustificanti l’apposizione del termine, al contrario di quanto accadeva nella l. n. 230 del 1962, che prevedeva il principio secondo cui «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le eccezioni previste dalla legge».

Al fine di colmare tale mancanza e dotare la norma di un apparato sanzionatorio efficace, sono state individuate diverse soluzioni, sostanzialmente riassumibili in due orientamenti principali. Una prima (minoritaria)

interpretazione157 individuava il meccanismo sanzionatorio da applicare nel

primo comma dell’art. 1419 c.c. per cui «La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità». Secondo i fautori di tale tesi, la direttiva comunitaria avrebbe inteso considerare «potenzialmente pericolosa solo la successione di contratti a termine, perché idonea a precarizzare un rapporto durevole tra le stesse parti, mentre il primo isolato contratto a termine è valutato favorevolmente, con conseguente assoluta libertà di stipulazione, in quanto utile strumento di flessibilità e di occupazione»158. In tal senso, la ratio della nuova disciplina sarebbe volta a riservare l’effetto sostitutivo (id est, la conversione), quale tecnica di massima invasione dell’autonomia negoziale, solo alle vicende illegittime successive al primo contratto, lasciando invece operare per

157

VALLEBONA A - PISANI C., op. cit., 35 ss.; PAPALEONI M., Le linee fondamentali, cit., 685.

158 V

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quest’ultimo i principi di diritto comune sulla nullità parziale. Il datore di lavoro, semplicemente, avrebbe dovuto provare che non avrebbe mai assunto il dipendente se avesse saputo che il termine era nullo e l’invalidità parziale si sarebbe estesa a tutto il contratto.

Tale tesi, oltre a doversi ritenere ex se irrazionale - dalla violazione di una norma imperativa posta al fine di tutelare il lavoratore si farebbe derivare la liberazione del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale - si è posta in aperto contrasto con l’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale, per cui l’art. 1419, comma 1, «non è applicabile rispetto al contratto di lavoro, allorquando

la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare la conseguenza della nullità del contratto. Ciò in ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere»159.

Secondo un diverso (maggioritario) orientamento160, il meccanismo

sanzionatorio applicabile sarebbe ricavabile non già dal primo, bensì dal secondo comma dell’art. 1419 c.c. per cui «la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative». In tal senso, la presunzione di indeterminatezza, quale principio generale dotato di forza di norma imperativa, si ricaverebbe, oggi, dal comma 01 dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001 e, prima del 2007, dai principi delineati dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE.

L’interpretazione de qua ha trovato pieno riscontro nella giurisprudenza di merito, la quale ha in più occasioni ribadito che «Ogni ipotesi di illegittima

159 Corte Cost., 11 maggio 1992, n. 210, in Giur. it., 1993, 1, I, 277. Tale principio è stato

confermato, nella sostanza, in Corte Cost., 15 luglio 2005, n. 283, in Giust. civ., 2006, 9, I, 1695.

160Cfr. SPEZIALE V., La nuova legge, cit., 405 ss.; F

ERRARO G., Tipologie di lavoro flessibile, Torino, 2002, 46 ss.; SANTORO PASSARELLI G., Note preliminari sulla nuova disciplina del contratto a tempo determinato, in Arg. dir. lav., 2002, 181 ss.; VISCOMI A., op. cit., 222; MENGHINI L., Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2006, I, 707 ss.

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apposizione del termine al contratto di lavoro, a prescindere dal fatto che ciò dipenda da motivi formali o dall'accertata insussistenza in concreto della motivazione addotta, comporta la conversione a tempo indeterminato del rapporto, e cioè - nel primo caso - in conseguenza dell'espressa previsione dell'art. 1 comma 2 d.lg. 6 settembre 2001 n. 368, nel secondo caso ex art. 1419 comma 2 c.c., con conseguente diritto del lavoratore (in caso di recesso da parte del datore di lavoro) al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa»161.

Il principio è stato poi definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione, per cui la sanzione va «legittimamente e correttamente» ricavata «dal “sistema", nel suo complesso, e dai principi generali, in tal modo non

ricorrendo ad una analogia legis e neppure sostituendosi al legislatore o al Giudice delle leggi, bensì semplicemente interpretando la norma nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria (della quale è attuazione) e nel sistema generale (dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato) tracciato dalla stessa Corte costituzionale»162.

La querelle non può tuttavia dirsi risolta. Una recente pronuncia163 ha infatti inteso riaffermare quell’orientamento minoritario per cui «va in ogni caso

esclusa la pretesa conversione nel contratto a tempo indeterminato», in quanto

«ai sensi dell'articolo 1429 del Codice civile la clausola nulla comporta nullità

dell'intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità». Nella specie, la

sussistenza di tale intento si faceva derivare dalla tempestiva allegazione, da parte della società, della prova attestante la volontà di non concludere i contratti senza la apposizione del termine, nonché dal tenore stesso del complessivo regolamento contrattuale intervenuto tra le parti. Nei contratti allegati era specificato che le clausole contrattuali sulla durata del contratto a termine erano

161 Trib. Genova, 14 novembre 2006, in Riv. giur. lav., 2007, 4, II, 693. Fra le tante, cfr. altresì

Trib. Bologna, 7 febbraio 2006, n. 43, in Guida dir., 2006, 36, 63; Trib. Milano, 14 ottobre 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 904 ss.; Trib. Roma, 12 gennaio 2005 e Trib. Roma 3 febbraio 2005, in Riv. giur. lav., 2005, II, 707 ss.; Trib. Monza, 18 gennaio 2005, in Riv. giur. lav., 2005, II, 152 ss.

162 Cass. 21 maggio 2008, n. 12985, in Giust. civ. mass., 2008, 5, 779. In senso conforme, cfr.

Cass. 21 novembre 2011, n. 24479, in Dir. & Giust., 2011; App. Bari, 7 gennaio 2010, n. 4242, in Giurisprudenzabarese.it, 2010.

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concordemente ritenute essenziali ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile. Il contenuto di dette clausole, ogni volta altresì specificamente sottoscritte dal ricorrente, evidenziava univocamente la comune volontà delle parti di dar luogo al rapporto di lavoro soltanto per un limitato periodo di tempo, fino alle scadenze di volta in volta concordate. Secondo il giudice romano, dunque, «la complessiva situazione determina la nullità del contratto nella sua interezza, salvo il diritto della ricorrente al corrispettivo percepito per le prestazioni eseguite in esecuzione del contratto nullo».

In ogni caso, si dovrà far presente che ai due (principali) orientamenti sopra esposti si sono affiancate ulteriori e diverse varianti interpretative164. Si è così ritenuto che «la violazione delle regole imperative, compresa quella attinente la forma scritta, comporta non già l’applicazione di una sanzione di diritto comune ovvero speciale, quanto la mera constatazione che il termine non ha prodotto effetti e che fra le parti si è instaurato sin dall’inizio (o dalla data indicata dalla legge) un rapporto a tempo indeterminato». In altri termini, «quando il legislatore ha usato il termine “si considera” (…) non ha inteso evocare la conversione del contratto a termine in uno a tempo indeterminato, ma solo prendere atto che la specie dominante ha ripreso il sopravvento, essendo venute meno le condizioni che potevano legittimare l’apposizione del

termine»165. Una diversa interpretazione si è basata sull’applicazione analogica

della regola sancita dall’art. 5, d.lgs., 368/2001166

. In tal senso, sarebbe illogico ritenere che il legislatore abbia previsto la conversione solo nel caso di illegittima reiterazione dei contratti a termine, posto che il difetto di giustificazione del termine implica di per sé la mancanza di un interesse apprezzabile del datore di lavoro alla temporaneità, indipendentemente dal numero di contratti stipulati.

Da ultimo, si intende dar conto di due (falliti) interventi legislativi volti, anch’essi, ad individuare la sanzione applicabile in subiecta materia. Il primo,

164 Per una ricostruzione dei diversi orientamenti, cfr. M

ARINELLI F., Le conseguenze del contratto a termine sostanzialmente privo di causale giustificativa: tra categorie civilistiche e ambigue risposte del legislatore, in I Working papers. Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona”, It. – 85/2009.

165 M

ONTUSCHI L., op. cit., 121.

166 Cfr. I

CHINO P., I contratti di lavoro, in SCHLESINGER P.(continuato da), Trattato di Diritto Civile e Commerciale, Milano, 2003, III, 421 ss.; DE ANGELIS L., Il nuovo contratto a termine, cit., 40.

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compiuto nell’ambito della legge di conversione del d.l. n. 112/2008, si ispirava alla tesi minoritaria argomentata sulla base del primo comma dell’art. 1419 c.c. Il testo, nell’originaria versione approvata dalla Camera, prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 3-bis, che l’apposizione del termine in assenza delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo non avrebbe determinato la conversione a tempo indeterminato del rapporto, in quanto avrebbe trovato applicazione esclusivamente l’art. 1419, primo comma, c.c. Tale disposizione, com’era prevedibile, è stata soppressa nel testo finale della legge.

Il secondo intervento riguardava l’introduzione dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001, ad opera dell’art. 21, l. n. 133/2008, che prevedeva, con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge, esclusivamente la sanzione dell’indennizzo, in caso di violazione delle disposizioni relative all’apposizione del termine al contratto e alla proroga. In riferimento a tale disposizione sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale con ben diciannove distinte ordinanze167. Tutte hanno censurato la norma per contrasto con l’art. 3 Cost. In particolare, secondo i giudici remittenti, l’art. 4-bis modificherebbe retroattivamente le tutele introdotte dal «diritto vivente», operando una discriminazione irrazionale ed ingiustificata, favorendo con una tutela «forte» coloro che hanno tardato ad agire in giudizio e discriminando lavoratori che si trovano in un’identica situazione di fatto (dipendenti dallo stesso datore di lavoro, che hanno stipulato identici contratti nello stesso periodo, per la stessa durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi). La norma sarebbe irrazionale anche perché penalizzerebbe «chi

comportandosi lealmente non ha atteso anni, ma ha iniziato da subito la causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare il contenzioso

(…) Il Legislatore ha quindi ritenuto di disciplinare diversamente (nelle

conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la diversità

167 Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008; Corte d'Appello di Torino con

ordinanza del 2 ottobre 2008; Corte d'Appello di Genova con ordinanza del 26 settembre 2008; Tribunale di Ascoli Piceno con due ordinanze del 30 settembre 2008; Tribunale di Trieste con ordinanza del 16 ottobre 2008; Corte d'Appello di Bari con ordinanza del 22 settembre 2008; Tribunale di Viterbo con ordinanza del 10 ottobre 2008; Tribunale di Milano con quattro ordinanze del 19 novembre 2008; Corte d'Appello di Caltanissetta con ordinanza del 12 novembre 2008; Tribunale di Teramo con ordinanza del 17 ottobre 2008; Tribunale di Milano con due ordinanze del 24 dicembre 2008; Corte d'Appello di Venezia con ordinanza del 10 dicembre 2008; Corte d'Appello di L'Aquila con ordinanza del 14 gennaio 2009; Corte d'Appello di Roma con ordinanza del 21 ottobre 2008.

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delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio»168. Tale disparità di trattamento non troverebbe giustificazione neppure nella dichiarata natura transitoria della norma, la quale non prevede nessuna modifica della precedente disciplina, che riprende efficacia immediatamente sui nuovi processi del lavoro instaurati con l’entrata in vigore della legge, ossia dopo il 21 agosto 2008169.

Molte altre sono state le questioni di legittimità costituzionali sollevate in riferimento all’art. 4-bis e, in particolare, per contrasto con le seguenti norme costituzionali: artt. 3, primo comma, e 24 Cost., per quanto concerne il generale principio dell’affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell’ordinamento giuridico, principio che, come già sostenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 525 del 2000, costituisce elemento essenziale dello Stato di diritto ed in quanto tale non può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti170; art. 10 Cost., poiché lede il principio di parità di trattamento che è principio generale del diritto internazionale e comunitario che l’Italia si è

impegnata a rispettare171; artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma, Cost.,

in quanto l’art. 4-bis, riducendo la tutela accordata in precedenza dall’ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, violerebbe la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/79/CE e, conseguentemente, l’obbligo del legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale172; art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), il quale, nel disciplinare il principio del giusto processo, impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la

risoluzione delle controversie in corso173; art. 24 Cost., avendo la norma

censurata compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti, sottraendo loro la

168 Corte d’Appello di Genova, 26 settembre 2008. 169 Corte d’Appello di Milano, 28 ottobre 2008. 170

Tribunali di Roma e di Viterbo e Corte d’Appello di Bari.

171 Tribunale di Milano.

172 Tribunale di Ascoli Piceno e Tribunale di Milano, unicamente in riferimento alla violazione

dell’art. 117, primo comma, Cost.

173

Tale questione di legittimità è stata sollevata da tutte le ordinanze di rimessione, ad eccezione della Corte d’Appello di Torino e del Tribunale di Rossano.

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possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del contratto irregolare, la cui prospettiva aveva direttamente condizionato l’esercizio del loro diritto di

azione174; art. 111 Cost., con riferimento al principio del giusto processo, poiché

la norma censurata modifica, nel corso dei procedimenti giudiziali, la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato, senza che ricorrano idonee ragioni oggettive o generali175; artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo concernente solo alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del carattere di astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un carattere provvedimentale generale invasivo

dell’ambito riservato alla giurisdizione176

.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 214 del 2009, ha ritenuto fondate solamente le censure sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. dalle Corti d’Appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo, ritenendo le altre questioni inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza. La Corte, com’era prevedibile, ha dichiarato la norma costituzionalmente illegittima per l’irragionevole disparità di trattamento collegata alla sola circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008. Un passaggio importante di questa parte della sentenza consiste nella definizione come «diritto vivente» del regime di conversione del contratto a termine nullo in contratto a tempo indeterminato.

1.4. Tempistiche di attuazione e conseguenze risarcitorie del termine