3. Una valutazione qualitativa del contratto a termine nel segno d
3.1. Vecchie convinzioni e falsi miti sul «male della precarietà»: precarietà e
Il termine “flessibilità” viene generalmente assunto per indicare quel processo di adattamento e contemperamento dei contrapposti interessi del datore di lavoro e del lavoratore. Ma, come si sa, ciò che sul piano generale sembra chiaro e scontato non necessariamente assume la stessa valenza quando lo si rapporta alle singole realtà fattuali. In altri termini, se è scontata, nell’ottica delle imprese, l’utilità di un approccio più dinamico al mercato globale, non è affatto scontato, nell’ottica dei lavoratori, il sacrificio richiesto in termini di limitazione delle condizioni di stabilità del lavoro. Ora, se volessimo richiamare e contestualizzare la celebre espressione di Henry Ford: «c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti»294, potremmo concludere che la flessibilità coincide con il “vero progresso” solo quando si traduce in un’opportunità concretamente praticabile per le imprese e in misure sostenibili per i lavoratori. Al contrario, quando la flessibilità si traduce in vantaggi rivolti esclusivamente ad una delle due parti coinvolte (l’impresa) a
294 Cfr. M
ARESCA A., Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, D.Lgs. n. 368/2001, in Riv. it. dir. lav., 2008, 1, 287 ss.
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discapito dell’altra (il lavoratore), inevitabilmente essa coincide con una delle sue possibili declinazioni, la più negativa, la “precarietà”.
D’altro canto, all’interno dello stesso concetto è possibile riscontrare una molteplicità di variabili. Come è noto, si distingue tra “flessibilità in entrata” e “flessibilità in uscita”, rispettivamente, in relazione alle procedure di
reclutamento e di espulsione della manodopera. Alcuni autori295 hanno poi
individuato cinque dimensioni della flessibilità. Si parla così di “flessibilità numerica” per riferirsi alla capacità delle imprese di adattare il volume della manodopera impiegata alle necessità contingenti; di “flessibilità temporale” per indicare la possibilità di adattare il normale orario di lavoro alle esigenze del lavoratore e del datore di lavoro, in termini di numero complessivo di ore lavorate, della loro distribuzione nel corso della settimana, del mese o dell’anno, nonché della variabilità degli orari di ingresso e di uscita; di “flessibilità retributiva”, che fa riferimento alla possibilità di adeguare il livello delle retribuzioni allo stato della domanda sul mercato dei beni ed alla performance dei lavoratori e dell’impresa, di contrattarne una parte a livello locale o aziendale e di erogare incentivi alla produzione; di “flessibilità funzionale”, per alludere alla possibilità di fare ricorso alla mobilità aziendale interna, ciò che richiede lavoratori in grado di adattarsi rapidamente a nuove mansioni o funzioni; “la flessibilità spaziale”, ovvero la possibilità che la prestazione lavorativa venga svolta in un luogo diverso da quello in cui ha sede l’impresa.
Altri autori296 hanno proposto di scomporre la flessibilità in due
dimensioni soltanto: “la flessibilità dell’occupazione” e “la flessibilità della prestazione”. La prima consistente nella possibilità, da parte dell’impresa, di far variare la quantità di lavoro utilizzata, in stretta relazione al proprio ciclo produttivo; la seconda, invece, fa riferimento alla capacità, sempre da parte dell’impresa, di modulare vari parametri della situazione in cui i dipendenti operano all’interno dell’impresa stessa (ad esempio, le mansioni svolte, la differenzazione dei salari, le diverse articolazioni dell’orario di lavoro, i trasferimenti del lavoratore). Altri ancora297 hanno ipotizzato una “flessibilità
295 R
EGINI M., Modelli di capitalismo: le risposte europee alla sfida della globalizzazione, Roma, 2000; REYNERI E., Lavoro e lavori nel contesto italiano, in PERULLI A. (a cura di), Matelica, 2007.
296
GALLINO L., op. cit., 5.
297 D
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interna” ed una “flessibilità esterna”, per distinguere tra la realizzazione dell’efficienza produttiva (grazie ad un’organizzazione coesa, capacità di innovazione e lavoro scrupoloso) dal perseguimento di un’efficienza di tipo allocativo. Si è fatto poi riferimento ad una “flessibilità previdenziale”, per indicare le tecniche di rimodulazione delle varie forme di assicurazione obbligatoria necessarie a garantire adeguati standard di tutela ad un mercato del lavoro sempre più frammentato e diversificato. Inoltre, si è poi parlato di “flessibilità normata”298
per indicare una progressiva attenuazione della norma inderogabile in funzione protettiva del soggetto economicamente e
giuridicamente più debole e di “flessibilità concertata o delegata o mite”299
per indicare quelle tecniche regolative fondate su un complesso dosaggio tra l’intervento legislativo e quello sindacale.
In ogni caso, a prescindere dalla definizione prescelta, il reale oggetto di discussione è rappresentato dalla valutazione del fenomeno in relazione alla sua adattabilità alle esigenze delle imprese e alla necessaria modulazione rispetto alle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. Di guisa che, da un lato dovranno essere valutati gli effettivi vantaggi derivanti dall’attuazione di forme di lavoro flessibile per le imprese e, dall’altro, si dovrà verificare se da tali vantaggi possa ex se derivare un deterioramento delle condizioni di lavoro e un aumento della precarietà per i lavoratori.
In primo luogo, nulla quaestio circa il vantaggio della flessibilità del lavoro per l’impresa nel breve periodo, sia nella parte in cui consente di sopperire agli eventuali picchi di produzione, sia laddove comporta un ridimensionamento rispetto alle previsioni di crescita del mercato, con conseguente ridimensionamento dei costi fissi. Qualche dubbio potrebbe tuttavia essere sostenuto in relazione alla tenuta delle tipologie non standard nel lungo periodo. Se da un lato il lavoro flessibile ha contribuito ad aumentare, nell’immediato, la produttività del lavoro, dall’altro, la stessa rischia di essere compromessa nel corso del tempo a causa dell’assenza di manodopera qualificata, non in grado di far acquisire in ambito internazionale un’adeguata
298
FERRARO G., op. cit., 425.
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competitività300. La formazione ha infatti un costo, tale costo può essere
ammortizzato e sostenuto soltanto in un’ottica di investimento di lungo periodo. Di talché, le imprese, soprattutto in periodi di grave crisi economica, preferiscono tamponare le carenze strutturali, non investire nella formazione di lavoratori presumibilmente “di passaggio” e rimandare le problematiche connesse ai rischi di perdere competitività in un mercato sempre più qualificato e specializzato301.
La flessibilità, apparente “salvezza” per le imprese, si presenta, invero, come una “arma a doppio taglio”, idonea a rimandare il problema con il rischio di aggravarlo.
Si potrebbe ora, addirittura, ipotizzare un rovesciamento delle classiche convinzioni sul tema: se la flessibilità può tradursi in uno svantaggio per l’impresa, la stessa può rappresentare un vantaggio per il lavoratore? In altri termini, la flessibilità, intesa come flessibilità in entrata, è necessariamente precarietà o può essere letta quale forma «speciale» di occupazione?
Per rispondere a tali interrogativi è preliminarmente opportuno individuare una definizione di precarietà. Già da una fugace lettura dei contributi presenti in materia è ictu oculi evidente come neppure la nozione di precarietà risulti essere chiara ed univoca, così come le informazioni statistiche disponibili nei vari Paesi europei, compresa l’Italia, non sono sufficienti per far completa luce sul
fenomeno e sulle cause che lo generano302. Sempre in termini generali, si
potrebbe definire la “precarietà” come la condizione di incertezza di un
individuo rispetto al suo futuro occupazionale303. Alcuni autori hanno
300 Cfr. S
PALLINI S., I contratti di lavoro flessibile nelle scelte strategiche ed operative delle imprese, in GAROFALO M. G. E LEONE G. (a cura di), La flessibilità del lavoro: un’analisi funzionale dei nuovi strumenti contrattuali, Bari, 2009, 21 ss.
301 Per un approfondimento tecnico sulle perplessità in ordine alla sussistenza di potenziali effetti
benefici di una diffusione dei contratti a termine sul funzionamento dell’impresa, cfr.ZAPPALÀ
L., Tra diritto ed economia: obiettivi e tecniche della regolazione sociale dei contratti di lavoro a termine, in Working papers. Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona”, Int. – 37/2005, 15 ss.
302 v. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro,
svolta nel 2006 dalla XI Commissione (Lavoro Pubblico e Privato) della Camera dei Deputati, in http://www.istat.it/istat/audizioni/071106.
303 Tale definizione, tuttavia, non sembra essere convincente o, comunque, risolutiva: non è
chiaro, infatti, se il summenzionato status di incertezza debba essere ricondotto a chi un contratto già ce l’ha (seppure a termine), a chi ancora non è riuscito ad accedere al mondo del lavoro, ovvero a chi ne è appena uscito (ad esempio, a causa del mancato rinnovo di un contratto).
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argomentato il c.d. “male della precarietà”, affermando che esso «non dipende mai dal primo contratto, perché è fisiologico, e rientra nella normalità delle cose, che si provi un lavoratore attraverso un primo contratto a termine»304. Altri, invece, hanno optato per un approccio più pragmatico, elaborando una
suggestiva classificazione dei modi di essere precario305. Nella specie, il mercato
del lavoro è stato suddiviso in quattro categorie: i “surfisti”, ossia lavoratori di lunga durata, in una fascia d’età compresa tra i 35 e i 39 anni, residenti soprattutto nel Nord Ovest del Paese, che hanno acquisito nel corso del tempo un livello di professionalità elevato e per i quali la flessibilità è elemento costitutivo della propria espressione professionale; i “sospesi”, che rappresentano quegli individui che nell’universo del lavoro flessibile occupano una posizione apparentemente privilegiata, disponendo di una forma contrattuale che può anche abbracciare un arco temporale ampio, ma per i quali la condizione occupazionale ha rappresentato un ostacolo rispetto ai propri progetti, lasciandoli sospesi tra un lavoro che oggi c’è e domani potrebbe non esserci (si tratta prevalentemente di lavoratori, di età compresa tra i 25 e i 29 anni, assunti con contratti di co.co.co); i “novizi”, cioè i lavoratori giovanissimi, tra i 20 e i 24 anni, che vivono in gran parte nel Nord Ovest del Paese, per i quali la flessibilità rappresenta la porta d’ingresso nel mondo del lavoro; i “naufraghi”, che corrispondono ai lavoratori giovanissimi, residenti nel Sud del Paese, i quali oscillano tra l’inattività lavorativa e l’impiego saltuario, svolgendo principalmente mansioni a bassa professionalità.
Dal confronto delle situazioni esaminate è emerso come la flessibilità rappresenti un punto di forza per quei lavoratori più qualificati, i quali la utilizzando, da un lato, come elemento costitutivo della professionalità acquisita (i surfisti), dall’altro, come trampolino di lancio nel mercato del lavoro, come opportunità per farsi conoscere, nella speranza di guadagnarsi, nel più breve tempo possibile, il “posto fisso” (i novizi). Soltanto all’interno dell’ultima categoria esaminata (i naufraghi), l’utilizzo di tipologie contrattuali flessibili si è tradotto in uno stato permanente di bisogno, tale da comportare un
304M
ENGHINI L., Clausola generale e ruolo della contrattazione collettiva, in M.D’ONGHIA,M. RICCI (a cura di), Il contratto a termine nel lavoro privato e pubblico, Milano, 2009, 29.
305
v. Indagine Censis, Sotto la superficie della flessibilità: quattro modi di essere atipici nel mondo del lavoro, 29 maggio 2003.
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indebolimento di tali soggetti nella forza contrattuale, rendendoli disponibili ad accettare qualsiasi mansione, a non avanzare pretese di natura contrattuale, a lavorare a buon mercato, a rendersi disponibili alle richieste del datore di lavoro, sacrificando all’occorrenza anche il proprio tempo libero. In tale ultimo caso, va tuttavia rilevato che non è la tipologia contrattuale in sé a determinare un deterioramento delle condizioni di lavoro, piuttosto, alla base del disagio vi è un’impossibilità, rispetto ad un determinato contesto territoriale (quello del Sud Italia), di offrire alternative valide e più adeguate ai giovani che devono inserirsi nel mercato del lavoro, un contesto in cui il lavoro a termine risulta un’alternativa assai più appetibile rispetto alla disoccupazione o al lavoro sommerso.