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Uno degli aspetti su cui si è maggiormente concentrato il lavoro accademico degli studiosi è stato la ricerca di casi in cui i leader dell’industria sono riusciti, in contrasto con quanto sostiene la teoria, a fronteggiare con successo l’innovazione disruptive che li ha bersagliati. Alcuni esempi riguardanti l’industria dei quotidiani e dei semiconduttori sono offerti da Gilbert (2005, 2006). Per giustificare queste anomalie, gli esperti hanno delineato due situazioni possibili. Nel primo caso, viene fatto risaltare che, affinché avvenga la distruzione, l’industria deve essere adeguatamente strutturata per produrre prodotti a performance e servizi sempre più elevati, oltre che da una maggior profittabilità che motivi le aziende a scalare il mercato. Ma se la profittabilità risulta appiattita tra i diversi livelli del mercato, come nel caso dell’industria degli hotel prima della rivoluzione Airbnb, è meno probabile che la distruzione avvenga (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 10).

Nel secondo caso, viene denotato come certe industrie siano caratterizzate da nuclei estensibili (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 10), intendendo un business model o una tecnologia che permette alle aziende di produrre prodotti o servizi inizialmente semplici, ma che nel tempo possono essere indirizzati a fasce del mercato superiori e più sofisticate, ad un costo minore rispetto a quello possibile per le aziende affermate. È la presenza di questo nucleo estendibile che permette la risalita e quindi la distruzione di intere industrie.

In che direzione procede la ricerca.

Nel paper di ricerca riguardante le future rotte di ricerca sulla disruptive innovation (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016), gli studiosi individuano quattro possibili cammini differenti da poter percorrere.

1. Esplorare la variazione nel processo distruttivo.

Le traiettorie già analizzate, che comprendono il grado con cui gli innovatori migliorano le performance e la capacità effettiva di assorbimento da parte dei clienti, possono cambiare notevolmente a seconda dell’industria sotto osservazione (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016).

In alcune industrie il cambiamento può avvenire in alcuni mesi, mentre in altre la distruzione può richiedere decadi. In taluni casi può addirittura avvenire che, a causa di traiettorie relativamente piatte, la distruzione non avvenga mai o fino a quando si presenti

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l’opportunità di inclinare la traiettoria. Per esempio, nel caso di industrie caratterizzate da traiettorie piatte, accade che venga introdotta improvvisamente una nuova tecnologia o un nuovo modello di business, che inclina esponenzialmente verso l’alto la traiettoria di miglioramento (Figura 8) (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 34).

Figura 8: Traiettoria piatta modificata da nuova tecnologia (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 34).

Prima dell’avvento di Airbnb, l’industria alberghiera aveva registrato traiettorie quasi completamente piatte. Il punto di rottura è arrivato con la ormai celebre start up statunitense. Quest’ultima ha iniziato a farsi strada dal basso, cercando di aiutare gli studenti universitari a trovare alloggi temporanei di dubbia qualità; poi è passata a hotel di fascia bassa ed infine, grazie alla semplice quanto geniale idea basata su un sistema di feedback e recensioni, ha scalato l’industria fino a raggiungere la vetta del mercato e i consumatori più sofisticati (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 14).

2. Documentare le possibili risposte strategiche.

Solo l’analisi delle vie possibili per rispondere alla distruzione può aiutare a individuare le migliori soluzioni percorribili. Tra queste spiccano:

• investimento aggressivo per migliorare l’attuale performance o per bersagliare nicchie di mercato profittevoli;

• diventare un’azienda ambidestra; • ridefinire l’identità aziendale;

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• instaurare partnership o dare a terze parti l’incarico; • acquisire le risorse e le capability necessarie; • fare affidamento sul proprio brand.

Tali soluzioni sono sviscerate più nel dettaglio nei seguenti capitoli.

3. Utilizzare ibridi tecnologici.

Un concetto molto di moda tra gli studiosi è l’ibrido a cavallo delle due tecnologie, la vecchia e la nuova. Questa soluzione può aiutare di fronte ad un momento di incertezza e transizione, in quanto combina elementi della tecnologia emergente e di quella già esistente, fungendo da passo intermedio tra due generazioni (o disegni dominanti). Nell’industria automobilistica per esempio, tutti i maggiori produttori hanno combinato il sistema di propulsione elettrico con il tradizionale motore a combustione interna (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 18).

Questi ibridi sono interessanti da analizzare, in quanto gli studi empirici sono ancora carenti e trovano pareri contrastanti. Mentre in alcuni casi questi si sono rivelati essere degli ottimi traghettatori, in altri hanno dato luogo ad un fallimento nell’ottenere tale ruolo. Secondo alcuni, gli ibridi sarebbero più utili per imparare qualcosa riguardante un futuro incerto piuttosto che essere valide teste di ponte temporanee per gestire il cambiamento. A prova di quanto detto, nel caso dell’industria automobilistica statunitense, lo studio della transizione tra carburatore e iniezione elettrica ha aiutato le aziende affermate a mantenere una solida leadership nelle nuove tecnologie rispetto ai competitors (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 19).

La conclusione del mondo accademico, per il momento, è quella di guardare agli ibridi come una valida risposta strategica alla disruptive innovation, utilizzandoli per migliorare la tecnologia esistente mentre si cerca di adattare la nuova e di imparare da essa.

4. Lo studio dei Business Model basati su piattaforme, esternalità di rete ed ecosistemi di produttori di beni complementari.

I recenti progressi tecnologici, soprattutto per ciò che concerne il costo decrescente delle

information technology, ha comportato una crescita significativa nei business model basati

su piattaforme ed esternalità di rete. Le esternalità di rete sostengono che il valore di una tecnologia aumenti all’aumentare del numero di utilizzatori di quella tecnologia; un chiaro esempio sono le telecomunicazioni, eBay o il servizio ferroviario. Spesso questi network sono caratterizzati da un circolo virtuoso in cui la dimensione della base dei clienti attrae i

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produttori di beni complementari, e la disponibilità di beni complementari attrae a sua volta nuovi clienti (Schilling, and F. Izzo, 2012).

In questi modelli di business, le piattaforme incorporano un’architettura tesa a facilitare l’interazione tra terze parti e una conseguente distruzione della precedente industria. Non tutte le piattaforme sono dei nuovi entranti, come nel caso di Ticketmaster, piattaforma per la vendita e la distribuzione di biglietti per i concerti (ticketmaster.it, 2018).Secondo gli studiosi, i business model basati su piattaforma ad architettura modulare ottengono più facilmente il successo come distruttori quando, invece di focalizzarsi sulla performance, decidono di concentrarsi su altre dimensioni come convenienza, personalizzazione, flessibilità e via dicendo (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 24).

Le aziende che avranno l’abilità di gestire adeguatamente i produttori di beni complementari ne avranno notevoli benefici. Per avere successo nell’innovazione non basta più fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze interne, ma è fondamentale governare la supply chain, le reti di partnership e aziende collaboratrici al fine di generare un solido ecosistema.

5. Riconsiderazione delle matrici finanziarie.

Negli albori della teoria, la disruptive innovation è stata vista esclusivamente come un problema tecnologico per le aziende affermate. La ricerca ha contribuito a sfatare questa credenza, giudicandola un problema relativo all’intero business piuttosto che alla sola tecnologia.

Le metriche finanziarie attuali sono parametrate su investimenti sustaining, con orientamento al breve termine e risultati certi; non sono adatte per le sfide disruptive. I manager che impiegano tali metriche finanziarie, assieme ad altri strumenti molto popolari al giorno d’oggi, gettano inconsapevolmente i semi per la distruzione.

Tali metriche vanno rivisitate, per valutare più correttamente i progetti promettenti e per allocare a questi le risorse necessarie perché portino la distruzione nell’industria (C. M. Christensen, R. McDonald, E. J. Altman, J. & Palmer, 2016, pag. 25).

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L’esigenza di categorie più precise.

Una delle esigenze più sentite è stata quella di definire delle categorie più specifiche, in quanto non tutte le innovazioni disruptive possono essere raccolte sotto la stessa dicitura.

Nel suo lavoro iniziale, Christensen aveva trattato esclusivamente tecnologie disruptive, racchiudendo all’interno di questa nomenclatura tutti i tipi di innovazione distruttiva. Con tecnologia, l’autore intendeva tutti i processi grazie ai quali una organizzazione trasforma lavoro, capitale, materiali e informazioni in prodotti e servizi di valore (C. Christensen, 1997). Questo concetto di tecnologia si estendeva al di là della progettazione e della produzione, per incorporare al suo interno anche altri ambiti aziendali come il marketing e i processi manageriali. Tale semplificazione è stata contestata dal mondo accademico, che ha argomentato come diverse tipologie di innovazioni producano mercati di peculiare natura, con dinamiche competitive proprie.

C. Markides (2006) propone una netta distinzione tra innovazione tecnologica, del business model, e di prodotto completamente nuovo. Queste tre tipologie possono avere un simile processo di invasione del mercato e possono essere ugualmente distruttivi per le aziende affermate, ma devono essere considerati come fenomeni differenti.

Secondo lo studioso, le innovazioni del business model sono la scoperta di business model completamente nuovi, che differiscono notevolmente dai business model esistenti. Per ricevere questa denominazione, il nuovo business model deve allargare l’attuale torta, sia attraendo nuovi clienti all’interno del mercato, sia incoraggiando gli attuali consumatori a consumare di più. È importante evidenziare che questi innovatori non scoprono nuovi prodotti o servizi, ma semplicemente ridefiniscono gli attuali prodotti e servizi e il modo in cui questi forniscono valore ai clienti.

Le innovazioni di prodotto radicale invece, creano prodotti completamente nuovi, e sono giudicate

disruptive perché introducono nuove proposte di valore che sconquassano le tradizionali abitudini

e i comportamenti dei consumatori. Sono distruttivi per le aziende già affermate, che vedono annientate le loro competenze e gli asset che li hanno portati al successo. Questa tipologia di innovazione non è quasi mai guidata dalla domanda ed è piuttosto il risultato del processo già menzionato, da parte dagli innovatori, di spinta verso l’alto. Va osservato infine che spesso i pionieri che danno alla luce queste innovazioni non sono quelli che hanno le risorse e le competenze necessarie per trasformare un piccolo mercato di nicchia in un colosso globale.

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Le differenze tra queste tre tipologie (innovazione tecnologica, innovazione di business model, innovazione radicale di prodotto) devono essere abilmente maneggiate dai manager delle grandi aziende, perché solo da una chiara comprensione delle forze della distruzione possono scaturire contromosse efficaci.