La biomedicina come etnomedicina
All'interno del paradigma fenomenologico può essere considerato il modello di analisi dei sistemi sanitari proposto da Arthur Kleinmann. Kleinmann è stato uno degli animatori della cosiddetta “scuola di Harvard” che negli anni '70 ha propugnato lo studio della biomedicina come una specifica etnomedicina. La biomedicina è caratterizzata dalla limitazione della focalizzazione sulle componenti biofisiologiche della malattia e tende a perdere di vista le componenti simboliche di essa. A fronte di questa tendenza, la scuola di Harvad propone un'antropologia medica soprattutto come attività applicata ai contesti locali e finalizzata alla mediazione tra la malattia come prodotto di una norma sociale e quindi esperienza dotata di senso da parte degli individui e la malattia come oggettualità biofisiologica. Proprio a questa distinzione fa riferimento la terminologia introdotta da Kleinmann che identifica con disease il fatto biologico della malattia e con illness il significato che l'esperienza del dolore assume per chi la vive in prima persona. Kleinmann legge i sistemi sanitari come sistemi culturali intendendo per cultura «un sistema di significati simbolici che modella sia la realtà sociale che l'esperienza personale, mediando fra i parametri “esterni” e “interni” dei sistemi sanitari e che costituisce pertanto una determinante rilevante del loro contenuto, degli effetti e del mutamento a cui esso soggiace». (Kleinmann, 1978: 86). Attraverso il metodo della semantic network analysis introdotto da Byron Good (Good, 1977), Kleinmann oggettiva i modelli esplicativi di malattia che sono costituiti dai concetti relativi all'eziologia, ai sintomi, alla fisiopatologia, alla terapia e alla prognosi delle malattie; tali modelli esplicativi sono utilizzati sia dai tecnici sia dai profani secondo i loro propri modelli di riferimento. Il modello di sistema sanitario proposto da Kleinmann non coincide con la totalità del sistema sociale: ogni contesto locale può essere attraversato da molteplici sistemi sanitari, con diversi livelli di interazione che vanno dalla reciproca incomunicabilità fino a forme di sovrapposizione e sincretismo. Nei contesti locali ciascun sistema sanitario si compone di tre dimensioni fondamentali: popolare, professionale e tradizionale. In ciascuna di queste tre dimensioni del sistema sanitario gli eventi di malattia possono essere esperiti e agiti con modalità differenti. Il settore popolare si riferisce al contesto familiare della malattia e della cura ma anche alle reti sociali primarie nella comunità di appartenenza. Il settore professionale è rappresentato dalle istituzioni legittimate dalla scienza occidentale o da altre tradizioni mediche professionalizzate (Kleinmann fa qui riferimento a tradizioni mediche che hanno
sviluppato corpus teorico-pratici e strutture istituzionali di continuità e identificazione dei ruoli professionali come la medicina cinese o ayurvedica). Il terzo settore è quello delle pratiche di cura dei guaritori non professionali. Nella sua focalizzazione della illness Kleinmann considera il fondamentale rilievo del settore popolare: sia nelle società occidentali che in quelle non occidentali in questo settore viene gestito tra il 70% e il 90% degli episodi di malattia; inoltre è in questo settore che emerge la “costruzione di senso” introno all'evento di malattia e si produce la scelta sulle ulteriori forme di fronteggiamento.
A partire da questo modello analitico la Scuola di Harvard sviluppa la precisa consapevolezza di un'agenda politica e culturale: l'intervento diretto nei contesti locali in cui l'intreccio conflittuale tra molteplici modelli esplicativi struttura la realtà clinica del rapporto di cura; la medicina biofisiologica occidentale focalizzando se stessa sui dati oggettivi della disease ha perso la capacità di interagire con i modelli esplicativi propri della illness quindi l'efficacia simbolica degli atti terapeutici prodotti dai sistemi sanitari occidentali rischia di esaurirsi ed essere soppiantata da fenomeni di non-compliance e conflittualità tra medici e pazienti. L'attenzione posta negli ultimi anni da questi autori sul tema della narrative based medicine esprime chiaramente la volontà di recuperare all'attenzione dei clinici il ruolo della percezione personale del paziente e del conferimento di senso agli eventi di malattia e di cura.
Critica all'approccio culturalista
Le posizioni della scuola di Harvard, a fronte della progressiva accoglienza ottenuta nei contesti clinici occidentali, hanno suscitato un ampio dibattito teorico ed epistemologico tra gli studiosi di antropologia medica, che è qui utile richiamare brevemente attraverso la ricognizione di Ivo Quaranta per approfondire la nostra consapevolezza degli strumenti concettuali disponibili per l'analisi dei sistemi sanitari. I due rappresentanti più illustri di questa stagione “critica” nei confronti della scuola di Harvard sono stati il già citato Michael Taussig e Alan Young. Tema centrale della critica è l'approccio “culturalista” dello studio della illness; suo punto di impatto è proprio il concetto di “rete semantica” messo a punto da Byron Good. Se intendiamo come nelle intenzioni di Good il concetto di rete semantica come insieme delle parole attraverso cui il sofferente conferisce significato alla propria esperienza di malattia possiamo coglierne in due sensi la funzione operativa. Da una parte tale concetto supera l'approccio “tradizionale” dell'antropologia che applicandosi allo studio dell'efficacia terapeutica delle culture “altre” aveva generalmente “sospeso il giudizio” sul sostrato “oggettivo” delle pratiche di cura occidentali e accettato l'identificazione di tale sostrato con la descrizione che ne viene fornita dalla biofisiologia medica. La svolta avviene quando si inizia a volgere lo sguardo “culturale” sul proprio sistema sanitario: inserendo le reti semantiche del paziente e del medico in un “sistema culturale” si dà una dignità autonoma all'attività di costruzione di senso dei soggetti sia cogliendo le criticità dell'approccio tecnico sia
evitando di ridurre il “discorso profano” farcito di espressioni simboliche ad una “approssimazione difettiva” rispetto all'oggettività medica. In questa prestazione concettuale sta propriamente l'utilità di un approccio “culturalista”: i soggetti in campo (medico e paziente) interagiscono in un “incontro clinico” che è culturalmente strutturato per entrambi: i loro modelli esplicativi possono interagire ed essere ricompresi in una mediazione che ne possa favorire l'efficacia. E qui veniamo però al secondo aspetto, che ha richiamato le critiche di “culturalismo”: i “modelli esplicativi” e le “reti semantiche” sono oggetto di un'analisi ad impianto prettamente “razionalistico”, l'esperienza di malattia viene ridotta ad un “sistema di credenze” che potrebbe esaurirla razionalmente tenendo sullo sfondo le contraddizioni di questa “comprensione narrativa”.
Come sostiene Ivo Quaranta,
merito indiscusso di questi autori è stato quello di aver diretto l'attenzione sulla natura culturale della biomedicina, giungendo a vedere in essa un'etnomedicina. Coerentemente con questa posizione Kleinmann sostiene che anche le altre etnomedicine sono efficaci. Tuttavia la loro efficacia risiederebbe nell'attenzione che dedicano alla illness, ovvero: le altre medicine sarebbero efficaci solo laddove la cura preveda un intervento mirato a riordinare l'esperienza. Paradossalmente, nel momento stesso in cui tenta di mettere sullo stesso piano i diversi sistemi medici la scuola di Harvard opera una frattura netta: la biomedicina è efficace perché cura il corpo, mentre le altre medicine sono efficaci solo se da sanare sono l'esperienza, il disadattamento del paziente, la sua psiche ecc. La distinzione tra illness e disease, dunque, cade vittima delle stesse dicotomie che aspirava a superare. Impegnati a restituire al paziente la sua soggettività, questi autori non hanno messo in discussione la nozione di soggetto (ancorata alla dicotomia fra mente e corpo) al cuore del sapere e delle pratiche biomediche. Non si comprende, infatti, cosa questi autori vogliano significare con il termine disease: da un lato essa è intesa come un modello esplicativo, ovvero come l'interpretazione che la biomedicina elabora della malattia; dall'altro, invece, sembrerebbe essere la malattia stessa, intesa come un'entità oggettiva e presociale (Hahn, 1980). Non è un caso che l'approccio dei modelli esplicativi privilegi in modo esclusivo le dimensioni cognitive: la cultura è vista come fattore pertinente in riferimento alle categorie appunto, laddove il corpo, le emozioni, gli affetti vengono rappresentati come stati psicofisiologici universali e, dunque, naturali (Kleinmann, 1980). Il fatto che il corpo non appaia mai come oggetto analitico spiega anche perché la scuola di Harvard abbia limitato la sua analisi alla sola illness, senza mai porre sotto la stessa lente analitica i processi di costruzione della disease. (Quaranta, 2006)
A fronte di tali contraddizioni, la proposta di Michael Taussig è quella di operare un rovesciamento che “rimetta sui piedi” il sistema di Harvard: non più la costruzione culturale dell'incontro clinico, ma la “costruzione della realtà sociale attraverso l'incontro clinico” è l'oggetto di interesse dell'antropologia medica. Come abbiamo già visto attraverso l'uso del concetto lukacsiano di reificazione, Taussig ritiene che pratiche e saperi biomedici abbiano un impatto sulla realtà sociale determinando le condizioni in cui viene naturalizzata e vissuta l'esperienza delle contraddizioni sociali. Oggetto dell'antropologia medica diventa dunque l'azione di forze sociali più
ampie rispetto a quelle indicate con i “modelli esplicativi”, che nell'incontro terapeutico trovano un momento di espressione e cristallizzazione. L'approccio archeologico di Taussig, che lascia traccia in quelle che saranno le successive riflessioni sull'incorporazione, mira quindi a demistificare la costruzione della realtà che avviene grazie all'ideologia medica. Come vediamo tali posizioni, seppur ancorate alla particolarità dello sguardo “antropologico”, tendono a porsi ai limiti di un approccio squisitamente fenomenologico in quanto riprendono nell'analisi i fattori macrosistemici e socioeconomici considerati dai modelli analitici precedenti.
La “sickness”
Su posizioni simili, Allan Young denuncia la limitatezza dell'approccio di Harvard nello studiare i sistemi sanitari attraverso la coppia concettuale illness\disease e propone di affiancare ad essi una terza dimensione negletta nell'impostazione precedente: la sickness, intesa come il complesso delle relazioni sociali vigente in un contesto locale che produce sia l'organizzazione tecnica del sistema sanitario sia la messa in forma individuale dell'esperienza di malattia. Con la sickness si intendono i processi di produzione del sapere medico e delle patologie, quindi i processi sociali che determinano cosa in una società debba essere letto come “problema medico” e quali processi sociali di legittimazione debba attraversare ciò che si pone come “sapere medico”. Esempio di questa prospettiva di indagine sulla sickness sono i lavori di Barbara Smith (1980) che ha studiato le interazioni tra le lotte sindacali dei minatori americani e i vari modi di definizione medica della “silicosi”, passata da malattia la cui eziologia era legata alle abitudini e agli stili di vita “sbagliati” dei minatori a “malattia professionale” riconosciuta e dotata di forme speciali di tutela e presa in carico. Oggi si rifanno a questa prospettiva di ricerca le analisi che cercano di cogliere il peso dei fattori produttivi e degli interessi economici nella produzione delle categorie diagnostiche. Esempio significativo a tal proposito è il lavoro di Rossi (2003) sull'abbassamento dei livelli di glicemia nel sangue per diagnosticare il diabete e la conseguente “creazione” di 6 milioni di diabetici in Europa.
Uno dei portati principali della riflessione di Allan Young è il concetto di produttività medica (Young, 2006) che si pone come strumento per andare oltre la valutazione dell'efficacia terapeutica dei singoli interventi clinici indicando piuttosto l'impatto dell'insieme delle prestazioni mediche con un'efficacia terapeutica riconosciuta nel trattamento del singolo paziente sulle condizioni generali di salute di una data popolazione, in termini di morbilità e mortalità. Tale strumento teorico permette di oggettivare una rilevante contraddizione dei sistemi sanitari: non sempre i miglioramenti di efficacia tecnica di un trattamento hanno effetti positivi sulla produttività medica generale, quindi sullo stato di salute della popolazione. A dimostrazione di ciò Young fornisce tre esempi: grandi investimenti economici e umani producono miglioramenti nell'efficacia di interventi rivolti a gruppi ristretti, limitati alle realtà urbane o a condizioni socioeconomiche alte, a detrimento di
interventi più complessi dal punto di vista della progettazione perché rivolti ad ampie fasce di popolazione ma meno “tecnici” dal punto di vista specialistico; farmaci messi a disposizione di larghe fasce di popolazione senza che siano presenti condizioni di consapevolezza rispetto alle opportune modalità di impiego, il cui impiego su larga scala finisce per provocare effetti iatrogeni; cure su casi isolati privilegiate rispetto a ricerche di epidemiologia e di eziologia sociale.
Secondo il commento di Massimiliano Minelli (in Cozzi, 2012) questa distinzione operata da Young è particolarmente utile per vedere la possibile contraddizione tra livelli di salute e livelli di efficacia delle tecnicalità biomediche, al fine di superare una delle sfide in cui i sistemi sanitari oggi sono impegnati: la capacità di leggere e valorizzare l'apporto che nei “sistemi di salute” acquisiscono le azioni di cura della sfera informale e non istituzionalizzata.
A conclusione della sua riflessione sulle critiche alla scuola di Harvard, Ivo Quaranta (2006) nota come
la prospettiva della sickness si ponga nei termini di un correttivo all'individualismo della scuola di Harvard, al caro prezzo però di eliminare ogni considerazione per le dimensioni personali dell'esperienza di sofferenza, penalizzata a vantaggio di un'analisi dei processi e delle relazioni sociali di produzione del sapere. Tuttavia, le due prospettive sono accomunate proprio dal loro più grande limite. È infatti paradossale che, sebbene entrambe si dichiarino critiche nei confronti della biomedicina, non giungano a problematizzare la natura della disease, ovvero le radici corporee della malattia, relegando così il corpo alla sua definizione biomedica di entità biofisica.
Dalla posizione di Quaranta risulta la necessità di mettere in questione la stessa corporeità come fatto problematico e non scontato per cogliere le contraddizioni tra sanità e salute e le contraddizioni che si sviluppano tra i reciproci sistemi come elementi conflittuali suscettibili di una tematizzazione politica. Si rimanda alla riflessione successiva sul tema dell'incorporazione come possibilità teorica per dare seguito a questo proposito.