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Strumenti di governo e politiche della cittadinanza: analisi dei sistemi d

Il welfare mix in una prospettiva istituzionalista

In questo paragrafo ci apprestiamo a costruire una raccolta di strumenti teorici per orientarci nel campo delle politiche pubbliche e indicare riferimenti per analizzare i sistemi di welfare. Negli ultimi vent'anni gli studi sul welfare convergono nell'indicare il “mix” come assetto istituzionale delle relazioni tra settore pubblico, settore privato e società civile. Il concetto di “mix” tiene conto delle varie tensioni che si agitano all'interno di un contesto radicalmente mutato dalla crisi dello stato sociale fordista, riconosciuta da alcuni autori come “crisi di razionalità dell'ordine sociale” (Offe, 1977; Habermas, 1975; Cough, 1979; O'Connor 1977; Dal Lago, 1979). Per fornire un framework all'analisi delle politiche sociali partiamo dalle indicazioni fornite da Wolfgang Streeck (Streeck, 2010). Nella sua proposta di impostazione istituzionalista è particolarmente rilevante lo studio della “società e dell'economia contemplate in dense relazioni reciproche e strettamente interdipendenti”. Le indicazioni di metodo di Streeck sono finalizzate a specificare maggiormente le astrazioni con cui nell'istituzionalismo classico si descrive l'azione sociale. Tali astrazioni soffrono di una debolezza in quanto trattano le istituzioni sociali “in genere” e le caratteristiche dell'azione sociale che in essa si svolge senza una osservazione situata delle particolarità capitalistica della loro forma. Diviene dunque difficile l'identificazione delle forze che guidano i cambiamenti istituzionali, l'individuazione delle modalità di regolazione promosse dalle elitès ed il riconoscimento dei conflitti politici che accompagnano ogni processo di strutturazione sociale. In particolare Streeck richiama la sociologia istituzionalista a tematizzare, nell'analisi delle trasformazioni istituzionali, il maggior potere della classe capitalista nella possibilità di catturare agenzie di regolazione e in generale la ineguale distribuzione della competenza sociale e della capacità di agency attraverso le classi. Un aspetto fondamentale della teoria istituzionalista, come configurata da Streeck, riguarda la relazione dialettica costante tra processi di “disembeddeddness”, favoriti dallo sviluppo delle forze produttive capitaliste, e processi di “re- embeddeddness” che i sistemi sociali realizzano per riconfigurare il complesso di relazioni sociali non economiche entro le quali il mercato può sopravvivere. La disembeddeddness è una forza propulsiva costante dei processi sociali in quanto dipende dalla coazione alla crescita e alla progressiva mercificazione di aree della vita. Rispetto ai processi di re-embeddedness è importante notare che i loro esiti e le loro caratteristiche non sono in alcun modo determinabili a priori. La dialettica tra processi economici e politici deve dunque essere analizzata in modo da contemplare la possibilità che processi politici possano essere orientati dalle elitès a favorire importanti dinamiche di disembeddeddness per sottoporre a mercificazione aree

determinanti di beni. Parallelamente, nelle formulazioni di Streeck c'è la consapevolezza che tentativi politici di controllo dei mercati possano andare verso dinamiche di chiusura dei processi deliberativi e irrigidimento del corpo sociale. In generale le indicazioni di frameworking di Streeck spingono a considerare i processi politici di innovazione sociale come potenzialmente attraversati da spinte contraddittorie: la richiesta sociale di sicurezza può essere tale da sfociare in una situazione di ingovernabilità, mentre d'altra parte la spinta verso la liberalizzazione e la mercatizzazione possono essere importanti veicoli di risorse economiche e di conseguenza politiche per le elitès. I processi politici che vedono implicato lo stato, come le forme di innovazione delle politiche sociali, devono dunque essere analizzati tenendo conto di questa ambivalenza, con una particolare attenzione al basilare e sostanziale conflitto che può giocarsi sull'uso della politica nel confronto con i mercati (Streeck, 2010). Proprio a partire da questa indicazione istituzionalista sulla rilevanza dei conflitti e sulla eterogensi delle forme politiche di re-embeddedness, appare estremamente problematico l'asserto che una visione mercificata dei beni pubblici possa essere maggiormente rispondente ai bisogni non intercettati della popolazione. Questo tema è di estrema rilevanza per l'analisi delle esperienze di innovazione sociale.

Il contributo principale dell'approccio neoistituzionalista, radicato negli studi polanyiani sulla relazione tra società e mercato, risiede nella definizione dei “regimi di regolazione” delle relazioni sociali che tengono conto delle varie forme in cui si definisce un “equilibrio” tra modalità di distribuzione delle risorse contestualmente legato (“embedded”) alla specifica dimensione sociale. Recentemente vari autori hanno cercato di definire caratteristiche e differenze dell'assetto dei modelli di governance nei vari regimi di welfare (Oosterlynck et al, 2013). I vari regimi hanno subito in misura diversa trasformazioni attraverso il passaggio alle economie post- industriali (Esping Andersen, 2000). Tali trasformazioni sono da leggere nell'ottica della fine di un periodo di mediazione legato alla fase del “capitalismo del benessere”. Per quanto la definizione agiografica del welfare fordista sia stata ampiamente decostruita (Castel, 2007) possiamo individuare dagli anni '70 dello scorso secolo un passaggio da una società in cui era stata raggiunta una tendenziale mediazione tra egualitarismo, crescita economica e quasi piena occupazione, ad un periodo di severa compressione delle sicurezze sociali e ad un tendenziale riconfigurazione degli equilibri tra welfare, mercato del lavoro e strutture familiari. É necessario dire che i “regimi di welfare” sono altamente differenziati all'interno delle economie capitalistiche e varie forme di meccanismi allocativi hanno dato luogo a composizioni diversamente configurate. Ad oggi vari elementi tendono a problematizzare la distinzione dei regimi di welfare: elementi riconnessi alla intervenuta differenziazione territoriale, (Kazepov, Barberis, 2008) alla tendenziale integrazione sovranazionale e all'accresciuto pluralismo (Schubert, Hegelich e Bazant, 2008). Tuttavia alcuni importanti aspetti di elaborazione sulle tipologie di regimi di welfare impongono di considerarne particolari aspetti critici per come essi

si sono venuti configurando negli specifici contesti, attraverso la mediazione degli elementi transnazionali e delle forme di embeddedness locale interpretate in un complesso sistema di interrelazioni. Se le ricerche sul regime di welfare nordico - socialdemocratico avevano individuato la particolare forma di mediazione raggiunta dal sistema integrato di politiche universalistiche, assicurativo-previdenziali e assistenzialistiche come esito di una esplicita mobilitazione politica rivolta a svolgere un ruolo conflittuale nella distribuzione del reddito da parte della classe operaia (Korpi, 1982) è da dire che nelle ricerche attuali sembra assente la tematizzazione della relazione tra specifici regimi di welfare e modalità di azione collettiva organizzata e politicamente orientata. La definizione analitica dei diversi regimi di welfare, sopravvivendo ai processi di rescaling e all'affermazione della prospettiva multilevel ha dovuto arricchirsi di una riflessione sulle forme organizzative assunte dai processi di governance nella definizione delle politiche pubbliche (Kazepov, Carbone, 2007). Una ricerca orientata a rendere evidenti le forme di conflitto che si giocano in ogni contesto di innovazione sociale deve dunque localizzare la possibilità di questo conflitto all'interno dei processi di governance. Il termine stesso rimanda ad una serie di possibilità interpretative che già esprimono il conflitto politico che attraverso di esso si gioca.

Welfare tra innovazione sociale e partecipazione: prospettive di ricerca

Le ricerche sulla “innovazione sociale” hanno tematizzato l'esistenza di processi di sperimentazione, parziale riassestamento e riformulazione della governance delle politiche sociali, la cui spinta verrebbe principalmente da una contraddizione tra la produzione di beni pubblici e la presenza di “bisogni non intercettati” nelle formazioni sociali (Oosterlynck et al, 2013). L'innovazione sociale appare come una modalità di riconfigurazione delle politiche sociali che promuove l'intercettazione di bisogni inespressi e la realizzazione di percorsi emancipativi da parte dei gruppi che soffrono condizioni di esclusione. Tale prospettiva, nel dare conto di questi processi innovativi, tematizza le nuove configurazioni istituzionali in cui si svolgono le politiche sociali, vale a dire il “rescaling” della politiche pubbliche e la “multilevel governance” del welfare. Entrambi i concetti descrivono la riconfigurazione delle relazioni sociali, spaziali ed economiche nel mondo globale, definendo un approccio che supera il nazionalismo metodologico e lo stato-centrismo negli studi sul welfare. Tale approccio rende conto dunque della complessità globale in cui prendono forma le politiche sociali, riconoscendo l'influenza reciproca di attori transnazionali e la ridefinizione del peso reciproco di attori coinvolti nelle varie forme di “embeddeddness” sociale del mercato (Granovetter, 1998). Caratteristiche principali delle dinamiche di innovazione sociale sono: la capacità di rendere le politiche sociali più sensibili rispetto a bisogni non intercettati di gruppi “deboli” di popolazione, un diretto coinvolgimento dei gruppi di popolazione target, chiamati a svolgere ruoli deliberativi, in vista di un accrescimento dell'efficacia dell'implementazione e della legittimazione democratica. Gli studi istituzionalisti hanno tentato di individuare le

relazioni tra innovazione sociale e assetti di welfare, con una particolare focalizzazione sulle caratteristiche delle dinamiche partecipative proprie di ciascun “regime” (Oosterlynck et al, 2013). Mettere in luce questa relazione permette di osservare le caratteristiche specifiche e le contraddizioni dei processi partecipativi, di sostanziale importanza nelle varie configurazioni attuali della governance.

Gli assetti della governance, secondo gli studi richiamati, contemplano una dimensione intrinsecamente “partecipativa”, quindi già attraverso l'utilizzo del termine “governance” si dice qualcosa di molto importante sulle relazioni reciproche tra diversi soggetti. Se accettiamo una definizione parziale di governance, tenendo conto delle difficoltà costitutive del concetto (Keating, 2008a; Pierre, 1999; Jenson 2003), il primo aspetto che emerge è la sua ricollocazione rispetto al parallelo concetto di governo. Forti ambivalenze emergono già dalla gamma di posizioni in cui può avvenire la collocazione reciproca di questi due concetti: se da una parte la governance può essere intesa come un sistema di definizione dei rapporti tra attori e di sviluppo delle politiche pubbliche radicalmente alternativo e indipendente rispetto al governo, dall'altra si può pensare alla governance come a un modo di governo diversamente sviluppato, che contempla una nuova configurazione delle relazioni gerarchiche in cui il governo, rispetto ad una molteplicità di nuovi attori provenienti dal mercato, dal terzo settore e dalle organizzazioni di volontariato, può essere incluso oppure rivestire un ruolo centrale. Da una parte possiamo cogliere nelle interpretazioni della governance che ne propongono una configurazione radicalmente alternativa al governo l'eco di una tradizione di pensiero che ha problematizzato la questione della centralità statale nelle politiche pubbliche a partire dalla critica ai programmi keynesisti. Tale ottica ha aperto la strada ad una serie di ridefinizioni di orientamento pragmatista tendenzialmente fiduciose nell'approfondimento della competenza democratica diffusa, dell'apertura delle società liberali, ritenute capaci di affrontare questioni complesse con uno sviluppo di dinamiche di apprendimento collettivo (Regonini, 1998). In questa ottica la governance appare entusiasticamente come l'ingresso degli attori nel campo della soluzione dei problemi, che finalmente supera le lentezze, le contrazioni e le pesantezze del burocratismo stato-centrico. D'altra parte le interpretazioni della governance maggiormente disposte ad accettare la sua coimplicazione necessaria con i principi del government hanno fornito letture più varie del suo significato politico. Da più parti è stata sottoposta a critica l'interpretazione della governance come mera espressione delle tendenze neoliberali in virtù delle quali essa consisterebbe principalmente nel sostituire alle tradizionali arene di governo contesti nei quali i soggetti del mercato possono sviluppare più efficacemente i propri interessi. Le relazioni tra processi di governance e affermazione delle politiche neoliberiste sono state quindi considerate in una modalità più complessa dai teorici “riformisti”, che spesso tendono a relativizzare questa relazione, rilevando che la ristrutturazione della governance si accompagna ad una diffusa enfatizzazione del tema della sussidiarietà (Paci, 2007). Il tema della sussidiarietà in qualche modo sembra compensare nelle elaborazioni attuali il

richiamo all'efficienza e alla riduzione delle spese introducendo elementi di solidarismo, coesione sociale, empowerment di gruppi emarginati e legittimazione democratica. Tuttavia la presenza di questi temi non può essere sbrigativamente letta come sufficiente contrappeso alle spinte neoliberali ma deve essere secondo noi compresa come specifica formazione neoliberista a sua volta. Una proficua ipotesi di ricerca identifica infatti il richiamo ai temi della relazionalità e della cooperazione sociale come una penetrazione performativa di logiche di valorizzazione capitalistica (Minelli, 2012) nei settori della riproduzione sociale. Secondo queste ipotesi la valorizzazione del capitale sociale come alternativa locale alla crisi di politiche redistributive va inscritta in una lunga manovra di reificazione e alienazione della riproduzione sociale, la quale si svolge lungo i filoni delle pratiche di governance e si rispecchia nelle pratiche sociali dei ricercatori, introducendo concetti e definizioni che hanno il doppio esito performativo di rappresentare una realtà sociale senza conflitti e di indirizzare la lettura dei bisogni sociosanitari in senso favorevole alla mercatizzazione. Sullo sfondo di queste analisi ci sono le ricerche di tipo etnografico sulle pratiche sociali che si accompagnano ai processi di innovazione. Come ha evidenziato Harzfeld (Harzfeld, 2009) nel suo studio sui processi di gentrificazione dei quartieri romani, le retoriche e le programmazioni politiche facenti leva sulla sussidiarietà si accompagnano a fenomeni di segmentazione della qualità dell'ambiente e processi espulsivi operanti in dinamiche di displacement. Parallelamente va considerata la tendenza delle politiche della sussidiarietà a “mettere al lavoro la morale” in forma pienamente coincidente con le aspettative delle politiche neoliberali. Come ha mostrato Andrea Muhehelebach (Muhehelebach, 2012) la moralizzazione delle relazioni è uno strumento indispensabile delle trasformazioni capitalistiche nella misura in cui lo stato mobilita il volontarismo sociale nella destrutturazione dei programmi di assistenza. Allo stesso tempo, l'analisi delle narrative anticapitaliste nel lavoro sociale viene mostrata in quest'ottica come promotrice di sviluppi inattesi.

Approcci critici

Un proficuo filone di ricerca ha investito direttamente la governance come forma della ristrutturazione capitalista, orientata ad operare una subordinazione progressiva della riproduzione sociale alle norme della concorrenza (Laval, Dardot, 2013). La governance appare qui come una particolare forma di “governo spoliticizzato”, che rende impossibile ogni arena pubblica di discussione in quanto realizza la propria mission includente nella misura in cui preventivamente mette in atto pratiche di depoliticizzazione e depontenziamento dei conflitti (Harcourt, Brown). Ricerche di matrice biopolitica (Foucault, 2005) o che fanno uso del concetto di habitus (Bourdieu, 1995) considerano le pratiche e le teorie della governance come parte attiva in un processo di “produzione di soggettività” funzionali agli interessi del neoliberalismo. Il liberismo appare come una razionalità sotterranea e onnipervasiva che invade la globalità, nelle dimensioni politiche, economiche, interpersonali

producendo relazioni sociali, forme di vita e soggettività adeguate (Boltanski, Chiapello, 2005; Laval, Dardot, 2013). In particolare la riflessione sulla governance neoliberale come strumento di penetrazione di “produzione di mondo” capitalista viene ricollegata alla sospensione della democrazia a sua condizione di “eccezione” (Lazzarato, 2013).

Un ampio filone di studi, in parte collegato al precedente, focalizza l'attenzione analitica sul crescente peso delle domande di controllo sociale nella progettazione delle politiche pubbliche e nelle pratiche che le sostanziano. Per alcuni autori la questione del controllo sociale sembra oggi aver superato la dimensione “disciplinare” per pervenire ad una nuova dimensione definita di “controllo sociale automatico” (Melossi 2008), fondato sulla “incapacitazione preventiva”, sulla neutralizzazione e il non-riconoscimento della possibilità di agire al di fuori degli schemi definiti. Il “controllo sociale diffuso” (Deleuze, 2010) corrisponde ad una forma di “democrazia custodiale” nella quale il riconoscimento dello statuto giuridico vige ma in uno stato di “sospensione”, sottilmente legato al permanente “stato d'eccezione” (Agamben, 2005). Le politiche della sicurezza, facendo leva su una specifica definizione dell'insicurezza che ne tralascia le dimensioni sociali, (Castel, 2007) riproducono in un circolo vizioso tale stato di eccezione. Il “fuori” rispetto al controllo è invaso da uno scarto di popolazione da cui “ci si può solo difendere” (Foucault, 1995). Un dibattito oggi molto sviluppato sui temi del neo paternalismo nelle politiche sociali tende a leggere anche le pratiche che sostanziano le politiche sotto questa luce. “Gli strumenti adottati per attuare politiche indirizzate a soggetti o gruppi con immagine negativa sono generalmente più coercitivi ed autoritari di quelli rivolti ai gruppi ritenuti meritori, per i quali si adottano interventi che promuovono la capacità di autogestione, quali l'informazione e l'apprendimento, in quanto viene loro implicitamente riconosciuta una maggiore capacità di scelta autonoma. Gruppi costituiti negativamente, o percepiti come particolarmente vulnerabili o fragili (come anziani o bambini) sono costruiti nelle politiche pubbliche come se abbisognassero non solo di nuove opportunità, ma anche di un certo grado di supervisione esterna o di costrizione rispetto alle scelte personali di ciascuno.”48.

Questo tema ha particolari conseguenze nel campo della salute mentale, come vedremo in seguito, vista la forte presenza di pratiche coercitive nei servizi di Salute Mentale, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle carceri. In termini più generali, Robert Castel (Castel, 2007) ha messo in evidenza come l'ultima metamorfosi della questione sociale riguardi proprio lo status da attribuire ai sovrannumerari: strutturalmente espulsi dalle condizioni dell'inclusione, ma chiamati ad aderire alle politiche di assistenza in modo

tendenzialmente impossibile, fino a giustificare una sorta di “doppio vincolo” che

porta a scaricare sul soggetto che si trova in una condizione di disaffiliazione la gran parte della responsabilità per la sua condizione. A fronte dei “poveri abili al lavoro” si sviluppa dunque l'handicappologia degli inabili, a cui non spetta una piena inclusione nella cittadinanza ma il destino di un paternalismo caritatevole e fortemente

assoggettante. L'impostazione contrattuale delle politiche sociali, che per certi aspetti sembra assecondare i principi dell'individualizzazione delle prestazione e la maggiore corrispondenza alle preferenze individuali, se sottoposta all'analisi del “potere contrattuale” degli utenti, (Monteleone, 2007) rivela che in molti casi per l'utenza diminuisce sensibilmente la possibilità di scelta e “deliberazione”.

Sulla saturazione di concetti ambigui nel welfare mix, specificatamente nei richiami sulla solidarietà, all'attivazione e alla partecipazione, ha insistito Ota De Leonardis (De Leonardis, 1998). Tale proliferazione di concetti ambigui emergenti con il superamento dello “stato sociale” a vantaggio delle nuove forme istituzionali del welfare mix è particolarmente evidente nei nuovi frame in cui si colloca la relazione tra servizi e cittadinanza. Rispetto al lessico dei diritti sociali, della redistribuzione e dell'uguaglianza, nuove categorie come l'efficienza, la responsabilità e la sostenibilità hanno orientato la ristrutturazione delle politiche pubbliche. In questo nuovo “ordine del discorso”, rischia sovente di scomparire la pesante eredità lasciata dalla stagione dello stato sociale: la questione della giustizia sociale. Più precisamente, sembrano oggi scomparsi tempi e modi della posizione pubblica della questione che ha costituito il più importante apprendimento scaturito dalla storia del welfare state europeo, cioè la capacità di legare domande del tipo “che cos'è una società giusta?” a domande del tipo “come deve funzionare un dato servizio sociale?” (cfr. De Leonardis, O. 2002)49

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Come è già stato ampiamente rilevato (cfr. De Leonardis, O. 2002), la struttura del welfare mix è caratterizzata dal superamento del monopolio dell'autorità pubblica nella definizione dei servizi sociali. Tra le conseguenze di questo superamento, la più evidente dal punto di vista delle “questioni di giustizia” è costituita dalla crisi di uno spazio politico nel quale assumano visibilità e argomentabilità i nessi tra i principi e le pratiche agite nell'erogazione dei servizi. Il campo di “giustificazione” dei servizi, orfano di questa articolazione discorsiva, risulta quindi occupato da una serie di principi dalla forte carica ambivalente, la cui declinazione pratica lascia spazio ad una serie di sfumature interpretative. A partire dalla diffusione dei principi di “sussidiarietà”, “solidarietà” e “coesione sociale”, è stato ampiamente argomentato (cfr. De Leonardis, O. 2002) come il discorso che satura il campo occupato dal welfare mix risulti ambiguamente puntellato da espressioni suscettibili di una doppia declinazione: da una parte troviamo un accento sempre più pressante sull'autonomia della società civile dall'autorità pubblica, che si traduce in un'impostazione privatistica delle relazioni sociali. In questa declinazione trovano ampio spazio i valori che furono propri della tradizione cattolica: la centralità della morale individuale nelle scelte relative alla “riproduzione sociale”, da sottrarre dunque

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Il richiamo svolto in questo capitoli ai contributi pratici e teorici dei movimenti anti-istituzionali intende richiamare alla consapevolezza che questa domanda è stata posta nella storia del welfare state attraverso processi in cui si è concretamente agito nelle pratiche quotidiane mettendo in discussione il ruolo “tecnico” dei professionisti e sperimentando forme nuove di esercizio dei diritti di cittadinanza. L'apertura di spazi di “interlocuzione” rappresenta uno degli elementi fondamentali di questa dinamica di interrogazione sulle pratiche del welfare.