II. Inchiesta sociale e prassi istituzional
6. Esperienze di interlocuzione nelle politiche di salute mentale
Dopo la ricognizione delle esperienze di partecipazione di utenti e familiari ho dovuto allargare e successivamente raffinare il mio percorso di ricerca, con il fine di individuare di un modello di “interlocuzione” che soddisfacesse le mie domande iniziali. Le esperienze osservate nella prima parte mi hanno fornito la rappresentazione di processi partecipativi tendenzialmente “tecnicizzati”: nonostante la presenza di contraddizioni e increspature nelle predisposizioni soggettive di alcuni membri, i gruppi osservati sono risultati complessivamente funzionali a dinamiche istituzionali di cui le “nuove presenze” di utenti e familiari sono parte integrante. Ho dovuto allargare il campo d'indagine anche per poter cogliere nella sua interezza il senso della dinamica istituzionale in corso, in virtù della quale tale modello di “partecipazione” va espandendosi: sulla scorta degli UFE trentini, sono emerse negli anni della mia ricerca molte altre esperienze in parte o del tutto assimilabili ad essa. Si tratta di percorsi stimolati dai Dipartimenti, che coinvolgono gli utenti e i familiari ma collocandoli in ruoli irrilevanti ai fini di una possibile riformulazione in senso anti-istituzionale delle prassi del servizio. Se non per limitatissimi aspetti, in queste esperienze di partecipazione la cultura dominante resta quella dei gruppi professionali e tecnici: i familiari e gli utenti coinvolti svolgono prevalentemente ruoli vicari, non dispongono di un'elaborazione autonoma sui temi trattati dall'istituzione; non si modificano profondamente i luoghi decisionali e le istanze raccolte ed espletate nella
pratica quotidiana dei servizi di salute mentale.
Questi processi hanno fatto emergere posizioni “reattive” di critica e di messa in discussione da parte di alcune associazioni di familiari che, richiamandosi esplicitamente alla legge 180, criticano la “commistione” di utenti e (soprattutto) di familiari che sono implicati in queste forme di “partecipazione”. Tuttavia queste associazioni, tra cui abbiamo visto diffusamente il caso dell'UNASAM, non hanno elaborato ulteriori approfondimenti sul tema della partecipazione: il loro approccio si ferma ad una linea di “tutela” degli utenti e manca di una vera e propria tematizzazione strategica su come intervenire nei singoli territori e interloquire con i servizi di salute mentale. Altre esperienze di partecipazione hanno tuttavia richiamato l'attenzione dell'Unasam sull'evidenza di una nuova presenza e di una emergente soggettività degli utenti: il Coordinamento Nazionale degli utenti della salute mentale ha raccolto esperienze di partecipazione degli utenti che, in vari territori, stanno elaborando modelli locali di ingresso e di interlocuzione con i servizi pubblici. La sua breve storia però ha mostrato l'inconsistenza del tentativo di coordinamento nazionale tra realtà che non avevo individuato un unica “linea”, condivisa anche con i Dipartimenti locali. Proprio grazie a questo coordinamento ho avuto modo di conoscere meglio alcune esperienze particolari che ho definito come forme di partecipazione “non tecnicizzata”, e che approfondirò nel successivo capitolo.
Contemporaneamente, per capire le tendenze dei sistemi istituzionali di salute mentale ho approfondito le posizioni di gruppi organizzati di tecnici, delle maggiori società scientifiche dell'ambito psichiatrico e dei gruppi di pressione “storici” oppure di recente formazione. Una parte delle appendici è dedicata a questi approfondimenti. È stato inoltre necessario esplorare le posizioni di alcuni gruppi e di singoli operatori e “tecnici” che ritenevo importanti per capire le tendenze oggi dominanti tra chi, anche se vagamente, si richiama a temi di tradizione “anti-istituzionale”, promuovendo esperienze di analisi, sensibilizzazione o di mobilitazione (nelle appendici sono disponibili anche questi momenti “collaterali” della presente ricerca). Ho infine dedicato alcuni momenti di osservazione al gruppo di cooperanti sociali che si riunisce sotto l'organismo di Lega Cooperative Sociali, diffusa sul territorio nazionale e che comprende, oltre a cooperative “recenti”, residui delle esperienze storiche della cooperazione nata nel periodo del movimento anti-istituzionale. Questi approfondimenti mi hanno permesso di definire un panorama più ampio dei fenomeni che interessano i sistemi istituzionali di salute mentale, con l'obiettivo di collocare le esperienze di partecipazione in un quadro teorico complessivo. Complessivamente mi sembra che oggi nessun gruppo organizzato sia in grado di elaborare un programma di analisi e azione che consenta di “riattualizzare” temi e prassi del movimento anti- istituzionale; in generale mi sembra che i temi con cui si affrontano le questioni psichiatriche siano pervasi da un complessivo tecnicismo, sia sul piano clinico che su quello sociale; le implicazioni politiche della prassi e della teoria psichiatrica sono ad un punto molto arretrato di elaborazione: il “discorso” dominante, condiviso oggi sia
da società scientifiche tradizionalmente fredde nei confronti del movimento basagliano sia da gruppi di tecnici che formalmente si richiamano all'eredità dell'esperienza anti-istituzionale, tende ad accettare una riduzione semplicistica del rapporto tra società e salute mentale, in virtù della quale la “salute mentale” è soprattutto un campo di “investimento”, utile da “curare” nella misura in cui può garantire “sviluppo”, “coesione sociale”, “risparmio e migliore allocazione della spesa sociale e sanitaria”. Pure nei gruppi maggiormente “critici” rispetto alle retoriche dominanti si notano tendenze che ritengo legate ad una complessiva penetrazione del discorso neo-liberale nella formazione e nelle prassi dei ceti intellettuali: l'approccio iper-soggettivistico, la critica alla psichiatria dominante in virtù di una pretesa liberazione dell'espressione soggettiva, l'individualismo e la incapacità di costruire efficaci ipotesi organizzative emergono anche da queste esperienze “radicali” e ne segnano la debolezza.
A partire dall'osservazione di questo quadro, una delle ipotesi che ho elaborato è che la “partecipazione”, tecnicamente definita dagli amministratori e degli operatori dei dipartimenti, sia un elemento che corrobora il progressivo innervamento dei saperi di tipo “psy” nel tessuto sociale, per rispondere a una specifica crisi di legittimazione sistemica del sapere psichiatrico e per ampliare e differenziare le sue possibili modalità di utilizzo. Importante a questo punto è anche cogliere una questione epidemiologica, che non ho potuto approfondire nel corso di questo lavoro ma che sarebbe necessario riprendere in un successivo programma di ricerca: l'ampliamento dei campi di applicazione dell'interesse “psy” corrisponde ad una moltiplicazione e una differenziazione delle prassi dei servizi; a fronte di questa osservazione, bisognerebbe vedere se è confermata l'ipotesi secondo cui questa “moltiplicazione e differenziazione” risponde a caratteristiche socio-economiche dell'utenza e ad una “segmentazione” delle funzioni politiche che i sistemi istituzionali svolgono su queste diverse fasce di utenza. Questa ipotesi ha ricadute immediate nell'analisi dei percorsi di partecipazione: a partire dell'osservazione dei vari contesti analizzati è emersa l'ipotesi che le persone che “partecipano”, attraverso le associazioni di familiari e utenti, siano sottoposte a una sorta di ricatto o in altri termini accettino un “trade off” tra la possibilità di essere seguiti in maniera qualitativamente superiore e la scelta di uniformare il loro sapere e la loro prassi ad una logica funzionale all'istituzione. Questo permette ai servizi di “eleggere” segmenti istituzionali interni che siano adeguati ad affrontare i bisogni di una nuova utenza, giovane e proveniente dal “ceto medio”, che non è disponibile a barattare il soddisfacimento di un proprio bisogno con un modello di psichiatrizzazione istituzionalizzate, invalidante e percepito come “arretrato”.
In pratica si tratterebbe di cogliere i fenomeni di “partecipazione” come processi di segmentazione interna dei servizi e di differenziazione tra aree dei servizi “moderne”, destinate cioè ad utenza non istituzionalizzata, proveniente dal ceto medio, tendenzialmente italiana, dotata di alto potere contrattuale, e zone “arretrate” del
servizio, in cui non penetrano le pratiche “partecipative”, che continuano ad occuparsi, nella solita vecchia maniera, di poveri, cronici, stranieri, persone che non dispongono di alcun potere contrattuale. Questa ipotesi è fondata su alcuni temi già emersi dall'inquadramento teorico del campo di ricerca: come osserva Giulio Moini a proposito dei percorsi di partecipazione comunitaria, (Moini, 2012), sembra che in alcuni casi la partecipazione approfondisca la distanza di risorse tra chi partecipa e chi non partecipa e favorisca redistribuzioni di risorse (di potere, di informazioni, di possibilità di scelta) di tipo “personalistico” e arbitrario. Dispositivo essenziale di questo processo è che, come è emerso dalla mia osservazione, attraverso le pratiche “partecipative” si definisce un “modello ideale” di buon utente “attivo”, che riceve più cure e più attenzione da parte del servizio, nella misura in cui lui stesso collabora ad incarnarne e diffonderne una rappresentazione positiva.
Sembra trattarsi di una risposta “tipica”100
, che emerge quando il sistema politico nel suo complesso riduce le risorse destinate agli investimenti nel campo della salute e del welfare: si diffondono discorsi che denunciano la scarsa efficacia di questi investimenti, che ne mettono in luce il carattere “passivizzante”, si richiede a gran voce “risparmio”, “innovazione”, “migliore efficacia”. La disciplina scientifica che sta al centro dell'intervento sociale e sanitario nel frattempo si riformula: così, come nel corso del '900 la scienza medica ha subito una serie di innesti (lo “psicologico”, il “sociale”, il “pedagogico”) moltiplicando le forme di intervento specifico senza che il sociale e il medico entrassero in una dialettica trasformativa, oggi si assiste a questa riformulazione dell'intervento attraverso la valorizzazione del “sapere profano”. Sviluppando l'ipotesi di Basaglia già citata nel primo capitolo, si può immaginare che le nuove figure “sociali” che trovano posto nelle dinamiche istituzionali, rientrino nella categoria di “nuovi mediatori del sapere medico”. Nello specifico sembra che utenti e familiari “associati”, la cui partecipazione viene tecnicizzata e istituzionalizzata dentro il servizio, accettino questo ruolo in cambio di un aumento del loro potere contrattuale individuale rispetto alle dinamiche istituzionali di presa in carico.
100 Si veda il già citato “Il concetto di salute e malattia”, relazione al convegno “Les ambiguités du concept de santé
dans les societés industrialisées”, Parigi, 1975, in collaborazione con Franca Ongaro e Maria grazia Giannichedda, raccolto in Basaglia, F. “Scritti. Vol II” p. 362
IV. FORME DI INTERLOCUZIONE TRA CONFLITTO, CONSENSO,