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conversazione con mario simondi a cura di DANIELE DOTTORIN

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 65-67)

Tu hai iniziato a lavorare al Festival dei Popoli fin dalle prime edizioni. Mi piacerebbe che parlassi di come hai vissuto la sua storia in tutti questi anni...

La mia prima collaborazione al Festival risale alla terza edizione, nel 1961. Il primo incarico che ebbi fu quello di occuparmi dell’ufficio stampa. Poi in seguito ho lavorato alla selezione, e infine sono stato per molti anni direttore del Festival. Io avevo una formazione legata ai cineclub, avevo lavorato per un cineclub fiorentino, Primi Piani, che in Italia era considerato uno dei club più pre- stigiosi. Vengo da una formazione «cinéphile» e ho «scoperto» poi il documentario come forma di cinema, rimanendone subito affascinato, soprattutto in quegli anni, che erano gli anni in cui si stava affermando il «cinéma vérité». Io ero molto interessato a quel tipo di cinema, mentre devo dire francamente che il documentario etnografico, quello incentrato sulle società primitive, mi interessava meno, anche se c’erano alcuni autori notevoli, come Robert Gardner, che riusciva a coniugare una ricerca antropologica con una ricerca sulle forme.

Anche Jean Rouch è una figura straordinaria per quanto riguarda l’incontro tra la ricerca etno- grafica e il cinema.

Lui è proprio un caso a parte. È unico. Rouch concepiva il cinema come qualcosa che non finisce mai, che è potenzialmente infinito. Mi ricordo quando venne a presentare Madame l’eau, film molto bello e poetico sui contadini nigeriani che vanno in Olanda per studiare il funzionamento dei mulini a vento. In quell’occasione Rouch commentò il film in sala con un microfono mentre le immagini scorrevano sullo schermo, perché il film mancava del commento. Da questo punto di vista era de- cisamente per un cinema «aperto», incompiuto. Durante una conversazione mi disse una volta che l’ideale per lui sarebbe stato girare la vita di qualcuno per ventiquattr’ore di seguito e mostrare poi, senza alcun intervento di montaggio, il film integralmente. Poi lo spettatore sarebbe stato libero di entrare e uscire dalla sala a suo piacimento, scegliendo lui stesso quando e cosa vedere. Non sa- prei dirti quale altro cineasta si sarebbe potuto avvicinare a questo suo modo di vedere il cinema.

Il Festival nasce proprio con questa doppia anima: da una parte una proposta riguardante il cine- ma come strumento di indagine scientifico-antropologica, dall’altra come ricerca a tutto campo sul documentario come forma-cinema.

Sì, indubbiamente è così. Oltre a questo, o forse anche per questo, è stato sempre un luogo di dibatti- to, di confronto, di discussione anche accesa. Mi ricordo discussioni accanite tra le varie posizioni nei riguardi delle diverse forme di cinema. C’era chi propugnava una strada più aperta di cinema e chi invece rivendicava la necessità di portare avanti un’idea di cinema più rigorosa, più «scientifica».

ne politica è passata, si è attenuato l’interesse politico nei giovani, ed è emerso, secondo me, per quanto riguarda il cinema documentario, un discorso nuovo, soggettivo. I registi hanno iniziato a parlare di se stessi attraverso le immagini, si è aperta la strada dell’autobiografia. Questa forma ha aperto le porte ad una contaminazione sempre più evidente tra finzione e realtà. Uno dei primi registi di questa tendenza che mi viene in mente è Alan Berliner, ma ce ne sarebbero moltissimi altri. Oggi come oggi, a parte la dimensione autobiografica, si continua a lavorare nel senso di una continua contaminazione dei due linguaggi, quello della fiction e quello del documentario. Per fare un esempio, un regista come il cinese Zheng Yi, in The Woodpecker, non utilizza attori professionisti, ma suoi amici che nel film giocano diversi ruoli. È un film che lavora sulla realtà utilizzando le strategie del film di finzione.

Dunque, secondo te, la dinamica della contaminazione finzione/realtà esplode in modo massic- cio soprattutto negli ultimi anni?

Sì, stiamo parlando degli ultimi vent’anni. In un catalogo dei primi anni Novanta, io notai proprio questo, questa volontà da parte del documentario di avvicinarsi alle forme della narrazione del cinema di finzione.

Anche se non è un elemento nuovo nel cinema. Basta pensare al rapporto tra Rouch e la Nou- velle Vague...

Sì, è ovvio. Ma questo lo hanno ammesso loro stessi, Godard Truffaut e gli altri.

La contaminazione si verifica anche in senso opposto, vale a dire nel campo della fiction: basta pensare anche solo al cinema dei fratelli Dardenne....

Assolutamente. Io ero in giuria a Valladolid quando fu premiato La promesse dei Dardenne. Era- vamo tutti d’accordo che si trattava di un film che andava in quella direzione. Quello che io noto nei Dardenne è la volontà di utilizzare attori che non stravolgono la realtà, che non utilizzano tecniche recitative particolari, che non sono delle star.

Tornando alla storia del Festival, una domanda che ricorre riguarda la storia del documentario italiano, che sembra a prima vista aver avuto un percorso parallelo, a sé, soprattutto influenzato da quel grande movimento di rinnovamento delle forme che è stato il Neorealismo.

Sì, a parte alcuni autori come Alberto Caldana e pochi altri, non riesco a riscontrare nella storia del cinema italiano una forte influenza dei movimenti europei e americani della seconda metà del Novecento, e hai ragione nel dire che la matrice più forte del documentarismo italiano è stata sempre il Neorealismo. Se penso ad una grande maestro come Vittorio De Seta, penso proprio a questo: i suoi film sono straordinari, dei veri e propri capolavori, e De Seta è stato uno degli autori che ha più influenzato il documentario italiano nel corso degli anni. Nel suo cinema si ritrova chiaramente l’influenza del Neorealismo. Ora però la situazione è un po’ diversa e tra i documentaristi italiani di nuova generazione si nota una maggiore capacità di confrontarsi con le forme e le tendenze internazionali, mostrando al contempo una via originale al documenta- A partire dalla tua esperienza, che costituisce un punto di osservazione privilegiato, pensi ci sia-

no state delle fasi precise nella storia del cinema documentario riflesse dal Festival?

Direi di sì. Grosso modo c’è stata una prima fase in cui è prevalsa la produzione antropologica, il documentario inteso come strumento scientifico; poi una seconda fase aperta sostanzialmente da una grandissima innovazione tecnica, la diffusione di nuove macchine da presa leggere come la Eclair, che davano la possibilità di avvicinare la realtà in modo più libero, senza treppiedi e al- tri supporti pesanti. Questa è stata un’innovazione importantissima, che ha segnato un viraggio nella direzione di un cinema sempre più interessato al sociale. Successivamente si è aperto un momento caratterizzato dal cinema politico, a cui il Festival si è interessato anche perché era la produzione più importante in quegli anni. Il Festival si ingrandisce in questi anni e c’è un pubblico sempre più numeroso che affolla il Palazzo dei Congressi, dove si facevano le proiezioni. Un pub- blico di giovanissimi, che fischia, che urla, che applaude, con una partecipazione straordinaria. Ricordo ad esempio la proiezione di Introduction to the Enemy, di Jane Fonda, Tom Hayden e Haskell Wexler. Jane Fonda, la «star contestatrice», richiamò una vera e propria folla al Palazzo dei Congressi. A me toccò il compito di accompagnarla e seguirla perché, tra di noi, ero l’unico che parlava un inglese decente. Jane fu molto simpatica e gentile. Erano quelle le sue prime va- canze fiorentine. Su quella stagione c’è stata una riflessione importante solo dopo, devo dire. Su quello che significa (o può significare) fare cinema «politico». Solo a partire dagli anni successivi, grazie anche alle riflessioni teoriche di personaggi come Jean-Louis Comolli. Quando la stagio-

xxxI Festival dei Popoli, il presidente della giuria Nagisa Oshima e Marco Jodice

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