• Non ci sono risultati.

DASS SIND NUR RESTE VON ERINNERUNGEN DIE ZUKUNFT DER VERGANHEIT (QUESTI SONO SOLO RESTI DI MEMORIE IL FUTURO DEL PASSATO)

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 87-89)

lo sPazio del temPo e il territorio del cinema

2. DASS SIND NUR RESTE VON ERINNERUNGEN DIE ZUKUNFT DER VERGANHEIT (QUESTI SONO SOLO RESTI DI MEMORIE IL FUTURO DEL PASSATO)

Wozu denn über diese Leute einen Film? (Perché un film su questa gente?). Quello che dalle filmografie ufficiali di Thomas Heise è riportato come il suo primo lavoro, dopo un apprendi- stato svolto sui set degli studio della Defa a Potsdam-Babelsberg, tra i quali figura anche Bis dass der Tod euch scheidet (1979) di Heiner Carow, reca nel titolo una domanda retorica la cui risposta è data dall’esistenza stessa del film e che, incidentalmente, echeggia ironicamente l’obiezione del suo docente di allora alla proposta del giovane aspirante regista, ma anche quella del funzionario che deve esprimere parere favorevole o negativo alla realizzazione di un progetto. Pensare che questo sia (stato) prerogativa negativa ed esclusiva solo dei paesi del socialismo reale è un’ipocrisia. Il film reca nei cartelli dei titoli di testa l’indicazione: “Filmü- bung des 2. Studienjahres” (Esercitazione filmica del secondo anno accademico). Eppure la pellicola, realizzata in 16mm, nonostante i cartelli dei titoli di coda indichino i collettivamen- te i realizzatori, senza specificare i singoli apporti professionali, si dichiara immediatamente come un film di Thomas Heise. Il cosiddetto «establishing shot» ci rivela una città, Prenzlauer Berg, a Berlino Est, in bianco e nero (e questo è un tratto

che conserveranno anche i lavori futuri di Heise: si entra sempre in un luogo attraverso un’inquadratura in movi- mento che rivela il luogo in cui ci si trova). I film proven- gono da un posto o non sono. Sono evidenti le influenze di un certo realismo sociale delle origini e delle sinfonie visive urbanistiche e industriali. Lo scatto successivo, però, evidenzia subito lo specifico «heiseniano»: un sa- lotto, due ragazzi, una ragazza, una signora anziana. Ci sono foto. I ragazzi da bambini. E ricordi. Di cose che non sono più. I ragazzi sono Berndt e Norbert. La fidanza- ta di quest’ultimo si chiama Regina. Berndt e Norbert sono i primi esempi di una lunga teoria di personaggi che avrebbero successivamente popolato il cinema di Heise. Non alienati o marginali. Ma esseri umani che non ce la fanno a rientrare – fisicamente, psicologicamente – nelle tipologie ufficiali del regime. Berndt e Norbert simbo- leggiano il primo «Rest der nicht aufgeht» di una rap- presentazione ufficiale che non contempla conti che non tornano. Esattamente in questo punto, snodo teorico che diventa il suo luogo-narrazione per eccellenza, inizia a

esistere (con enormi difficoltà politiche) il cinema di Thomas Heise. Ossia tenta di porre la possibilità per un altro sguardo, cosa che equivale a ipotizzare, se seguiamo certe indicazioni di Jean-Marie Straub, «un’altra politica». Un’altra possibilità di esistenza. Un altro sguardo, se si vuole. Sorprende notare retrospettivamente come Heise avesse così chiaro, sin dal suo primo lavoro, l’immagine di tutto il suo cinema futuro. La polistratificazione della sua opera comprende infatti sia la documentazione fisica, materiale della gente che viveva nella RDT, che l’attenzione alla testimonianza orale e la condivisione di un medesimo spazio esistenziale.

Wozu denn über diese Leute einen Film?

un’assemblea sindacale. Tutto avviene nel perimetro di un’inquadratura implacabile, rigorosa, che non abbandona la posizione scelta. Attraverso le interviste fatte ai singoli agenti emerge in filigrana un conflitto che oppone la città all’interno, alla campagna, con i poliziotti che ammettono di sperare di riuscire a tornare al proprio paese d’origine. Quando poi Heise esce in pattuglia con una volante, le strade deserte di Berlino offrono uno spettacolo spettrale che di riflesso dice in sottrazione del lavoro degli agenti. Fare il vuoto intorno a una struttura di potere. E poi gli indizi che presagiscono il 1989: un poliziotto che viene aggredito con una bottiglia di Coca Cola a un posto di frontiera (sono loro che impediscono alla gente di scappare), il ragazzo che ostenta ma- linconico la sua acconciatura dark, le liti condominiali. Sul finale, emerge uno dei tratti forti carat- terizzanti i film successivi di Thomas Heise: dei ragazzi leggono delle lettere che contengono le loro aspirazioni o desideri. Volkspolizei – 1985 termina infatti con Danilo e Karsten, due studenti diligenti, che in virtù dei voti ottenuti, e promettendo solennemente di migliorare le loro già ottime prestazioni scolastiche, chiedono di essere ammessi nella polizia di stato. Ma la loro voce è mon- tata sull’immagine di un muratore che prepara l’impasto del cemento (probabilmente un ricordo del dramma Zement di Heiner Müller). Volkspolizei – 1985 è sintomatico sin dal titolo. L’indicazio- ne dell’anno, infatti, specifica che non si tratta tanto della polizia tout court, quanto della polizia di quell’anno in particolare della vita della RDT, come a voler posizionare tra le parentesi di un’indi- cazione temporale il proprio lavoro (e quello dei poliziotti). Consapevole che qualcosa doveva, stava per cambiare. Anche Volkspolizei – 1985 subisce il medesimo destino di Das Haus ed è stato bloccato sino al 1990 e solo nel 2001 ricostruito su Digibeta. Dettaglio cruciale, entrambi i film furono commissionati a Heise da parte della Staatliche Filmdokumentation der RDT (ossia l’organismo statale di documentazione della RDT). Non come film in quanto tali, ma alla stregua di materiale destinato al Filmarchiv (Archivio del film) e che per questo motivo non necessitavano di particolari permessi e di conseguenza non erano oggetto di censura preventiva. Anche se poi l’archivio censurò pesantemente il lavoro di Heise. Tra Volkspolizei – 1985 e Imbiss – Spezial tra- scorrono quattro anni, il primo grande iato temporale nella filmografia di Heise che ha sempre realizzato i suoi film con una costante regolarità, nonostante i suoi numerosi impegni. Imbiss – Spezial è il film cerniera tra la produzione di Heise realizzata nella RDT e quella successiva. E non solo perché è stato realizzato nel 1989. Ambientato in una tavola calda situata in una stazione della metropolitana (Bahnhof Lichtenberg), coglie gli avventori del piccolo ristorante in una situa- zione d’attesa irreale nella quale fervono i preparativi per i festeggiamenti del quarantesimo an- niversario della fondazione della RDT. Dalla televisione una voce ammonisce severa: “il sociali- smo nella RDT è indiscutibile quanto il risultato della seconda guerra mondiale”. Uno dei cuochi, invece, si limita ad affermare che “la mia vita è la mia vita”. Ciò che colpisce è che le voci, sia quelle ufficiali che quelle degli avventori, dei camerieri e dei cuochi, sono in off. Le voci scorrono su azioni di quotidiana amministrazione permettendo così a Heise di iniziare ad abbandonare i suoi precetti del cosiddetto «realismo scientifico» per avvicinarsi maggiormente alla materia viva delle persone e delle cose. Come in Wozu denn über diese Leute einen Film e Volkspolizei – 1985, c’è una forte attenzione alla televisione e alle sue immagini che viene trattata come se fosse un vero e proprio personaggio. Heise inizia a sperimentare con le possibilità offerte dal montaggio sonoro, sviluppando le intuizioni dei suoi primi film. Imbiss – Spezial è soprattutto una piccola sinfonia di rumori e suoni: un’interferenza significativa nei confronti delle celebrazioni ufficiali. Lavorando per brusche cesure, Heise introduce il colore per la prima volta nel suo cinema, attin- gendolo, con un drammatico scarto politico, proprio dalla televisione. Sulle immagini della folla forza del film. Perché in questo modo Heise riesce a fornire un vero e proprio calco linguistico di

una struttura di potere che si esprime soprattutto attraverso la parola e la sua impeccabile, im- placabile gestione. Attraverso la scansione quotidiana del film, Heise osserva i dipendenti pren- dere il proprio posto di lavoro salendo con un ascensore che li deposita al piano utile. Come in una sorta di commedia meccanica. Un balletto meccanico di matrice «keatoniana» diventato più vero del vero. Il martedì è il giorno più intenso. Diviso a sua volta in tre sottosezioni predisposte ad accogliere le richieste dei cittadini – «Abt. Soziales» (affari sociali), «Abt. Wohnungspolitik» (poli- tiche abitative) e «Abt. Innere Angelegenheiten» (affari interni) – è il giorno in cui la struttura di potere si manifesta in quanto tale. Il muro della parola si erge tra persone e bisogni, proprio come accadrà a Sven Behrendt in Im Glück (Neger) anche se la situazione politica ormai è cambiata. L’impotenza è la medesima. I rifiutati pure. Per quanto apparentemente più cortesi e motivati sono coloro che rifiutano. Laddove nel 1984 un’impiegata afferma “Mein Plan ist Gesetz. Und dann kommt erst alles andere” (Il mio piano è legge. Tutto il resto viene dopo), nel 2006 si consi- glia semplicemente a Sven che cerca lavoro di accettare senza troppe storie un impiego pagato pessimamente, spiegandogli che se rifiuta non avrà più diritto ad alcuna forma di previdenza so- ciale. Il potere resta, nonostante la «Wende» (svolta). L’impotenza, invece, è la stessa. La posizio- ne d’ascolto di Heise però non cambia. Lui sta comunque dall’altra parte e ascolta instancabile. Filma ciò che accade. Non interviene ed proprio questa sua apparente distanza paradossalmente a farlo sembrare schierato sempre in prima fila. E lo è, ovviamente. Perché per vedere basta guardare. E se ne accorgono anche i censori che bloccano il film. Ma la fascinazione di Heise per le strutture burocratiche del potere resta immutata. L’anno seguente realizza Volkspolizei – 1985 che radicalizza ulteriormente l’assunto formale di quello che abbiamo scelto di chiamare il suo «realismo scientifico». Se il film precedente tentava, riuscendoci, di indagare le strutture del po- tere alla stregua di macchine, come a voler radiografare il pensiero che permette(va) loro di fun- zionare e che ha spinto la critica tedesca ad affermare come entrambi i film rivelassero sino a che punto la vita quotidiana della RDT fosse permeata dall’ideologia ufficiale, il primo maggio del 1985, nel “Revier” (distretto) 14 della VP della Brunnenstrasse, Berlin-Mitte, Heise s’insedia con la sua troupe per filmare il lavoro di coloro che sono chiamati a tutelare l’ordine socialista. Non un posto di polizia qualsiasi, trovandosi questo nei pressi del cosiddetto «antifaschistischen Schutz- wall» (il muro di protezione antifascista). Come in Das Haus, la posizione della macchina da presa è sullo sfondo, come se Heise si trovasse immediatamente davanti a noi. Dietro al banco dell’ac- cettazione, il regista ascolta parlare i poliziotti senza muoversi. L’unica infrazione è data dal suo avvicinarsi con lo zoom. Paradossalmente, Heise usa lo zoom per «non muoversi», per guardare senza essere visto. Lo zoom quindi, nel caso di Volkspolizei-1985, gli serve per cercare una posi- zione dalla quale guardare ciò che gli è negato in partenza dall’impossibilità di muoversi nel di- stretto di polizia. Heise non giudica. Non ne ha bisogno. Osserva cosa e come permette alla mac- china di funzionare. E ascolta, ovviamente. Poco alla volta, il progetto e la strategia del suo agire si delineano. Quella di Heise è una descrizione di un territorio data dalla raccolta di cifre e dati il cui valore viene corroborato dalla descrizione delle regole di pattugliamento e di perlustrazione. Attraverso la polizia, Heise traccia i confini mentali di un territorio politico che viene fuori in tutta la sua sconcertante nettezza quando viene condotto al posto di polizia un ragazzo che ha appena picchiato la moglie prendendola a calci. Dalla sua solita posizione dietro il banco dell’accettazio- ne, Heise osserva il «vuoto» che circonda il crimine e il suo autore nonché l’indecisione, non solo burocratica, ma anche etica, e gli agenti che discutono dell’accaduto come se si trovassero a

177

giorno di lavorazione dalla «Abt. Innere Angelegenheiten» che abbiamo visto in azione in Das Haus. L’operatrice, stando alle medesime fonti, avrebbe dovuto essere Dagmar Mundt. Anka, scopriamo più avanti in Eisenzeit, è la ragazza di Karsten che invece si sposa Frank. Anka, Kar- sten, Frank, Tilo erano bambini nel 1981. Erano nati a Eisenhüttenstadt, la ex Stalinstadt creata nel 1950, la cosiddetta prima città socialista della RDT. Dei quattro bambini, ormai cresciuti, solo due sono rimasti in vita. Faticosamente Heise si mette sulle loro tracce. Non si tratta ov- viamente solo di riprendere in mano un progetto interrotto prematuramente, ma soprattutto della testimonianza di una presenza, dolcemente ossessiva, di uno sguardo che non può fare a meno di confrontarsi con ciò che sono poco meno dei residui della storia ufficiale. E limitativo sarebbe anche considerare Eisenzeit come una denuncia retroattiva della criminalizzazione dei bisogni di un’intera generazione soffocati dall’ortodossia del socialismo reale. Heise infatti, da sempre preoccupato con lo scorrere e il manifestarsi del tempo, anche quando stava immobile negli uffici della VP, lega in un unico fluire il tempo delle vite dei suoi protagonisti intrecciandolo instancabilmente tra passato e presente alla ricerca non di una presunta linearità degli eventi ma dei vari punti di condensazione e catalizzazione. Esemplare di questa sua modalità di lavoro, la panoramica circolare in un locale ormai vuoto sulle note di Comes A Time di Neil Young. E la canzone sembra davvero essere stata scritta pensando esclusivamente a questo movimento di macchina (che probabilmente il cantautore canadese non ha neanche visto). Ai bambini sorri- denti del murales che celebra la gioventù socialista, le cui immagini scorrono non a caso sulle note di After The Gold Rush, sempre di Neil Young, si oppone la consapevolezza dello spreco di una generazione, distrutta dalla disperazione, che seppure dichiara di aver scoperto che “die Farben des Lebens sind schöner als ich dachte” (i colori della vita sono più belli di quanto avessi pensato), di fatto ne risulta esclusa. Tilo suona le canzoni di Neil Young in maniera quasi identica al canadese, ma il suo destino, come quello di Mario è segnato. Frank scompare. Karsten torna. Accetta di parlare con Thomas. E racconta del suo odio per il padre che non ha mai perdonato. Anka nel frattempo ha avuto una figlia e anticipa il futuro di Jeannette Gleffe, la «protagonista» di Kinder. Wie die Zeit vergeht, la figlia di Heinz e Ingrid, la famiglia attorno alla quale ruota la trilogia di Neustadt. Non si tratta solo di rilevare assonanze interne all’opera di un cineasta meticoloso e devoto alle persone che ha scelto di ascoltare. Quella di Heise è la mappatura di un territorio umano che (r)esiste, nonostante tutto. Anche quando ciò che resta non risponde esattamente a ciò che immaginiamo debba essere raccontato. Come spiegarsi altrimenti le in- fuocate polemiche che hanno accolto l’anno successivo Stau – Jetzt geht’s los (1992) primo film della trilogia dedicata a Halle-Neustadt, città industriale in disarmo dove una volta gli abitanti della RDT si trasferivano per lavorare attratti da salari maggiori. Appendice di Halle, città del Land Sachsen-Anhalt (la Sassonia-Anhalt che sino al 2 ottobre del 1990 ha fatto parte della RDT), Neustadt fu costruita per ospitare gli operai di Leuna, il fiore all’occhiello dell’industria chimica della RDT. Situata alla frontiera del Land, Halle dista una ventina di chilometri da Lipsia nei cui confronti ha sempre avuto una posizione subalterna, subendone negativamente l’influen- za sulle proprie potenzialità di sviluppo. Sulle tracce della gioventù neonazista di Neustadt, Heise conosce la famiglia di uno dei ragazzi, composta dal padre Heinz, un operaio della raffineria di Leuna appartenente ormai al gruppo francese Total, e dalla madre Ingrid. Ciò che ha sconcer- tato i critici tedeschi è stata la possibilità di parola offerta ai ragazzi dal cranio rasato, senza che Heise intervenisse per commentare o confutare le tesi esposte (a costoro deve comunque essere sfuggita la grande attenzione strategica con la quale il regista osserva muoversi il ragazzo skin

176

che celebra il quarantesimo della fondazione della RDT, scandendo all’unisono “RDT unser Vater- land!”, c’è l’epifania del colore e, immediatamente dopo, su fondo rosso appare la scritta nera, tutta in maiuscolo, «ENDE» (Fine). Dopo qualche secondo appare la didascalia: «Aus Ideen wer- den Märkte», slogan della Deutsche Bank che significa: «le idee diventano mercati». Un mondo si prepara a scomparire, e un altro appare. I resti si accumulano già (ancora...).

4. AM ENDE HABEN ALLE GESCHICHTEN EINEN ANFANG. UND SIE FINDEN KEINEN SCHLUSS.

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 87-89)