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conversazione con tullio sePPilli a cura di DANIELE DOTTORIN

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 58-61)

Io partirei dal progetto del Festival dei Popoli, vale a dire da come nasce e come si sviluppa l’idea di realizzare una rassegna di cinema documentario – come recita il sottotitolo – «etnografico e socio- logico». Prima di arrivare alla prima edizione c’è stato un lungo lavoro teorico e organizzativo... Sì, soprattutto direi che l’embrione del progetto è stato il Centro Italiano per il Film Etnografico, costituito a Roma nel 1953 da Romano Calisi e da me insieme a Ernesto De Martino, che ha dato luogo anche ad una serie di collaborazioni per la produzione di film, ad esempio con Magia Lucana di Luigi Di Gianni. Questa struttura nasceva parallelamente all’antropologia culturale italiana nei primi anni Cinquanta. Tieni conto che non esisteva una tradizione antropologica o etnologica nelle università italiane, non c’erano strutture organizzate di ricerca, e in quel perio- do avemmo l’idea di creare un Centro Etnologico Italiano in cui iniziare a fare ricerca. Oltre a De Martino c’ero io, c’era Lanternari, c’era Cirese, c’era Carpitella, tutti quelli che poi sono diventati i primi antropologi italiani. C’era anche Pasolini, che veniva qualche volta. Perché lui, che veniva dal Friuli, oltre all’interesse per le periferie romane, aveva quello per il dialetto, per il folklore, per l’etnologia. Questo centro ha funzionato per alcuni anni, poi, pian piano, si sono aperti degli spazi nelle università italiane che hanno assorbito i vari studiosi. La sede era vicino a Via Veneto, in una casa della cultura del PCI, che ospitava molte attività, oltre alla nostra e al Centro per il teatro e lo Spettacolo Popolare diretto da Vito Pandolfi. In quell’atmosfera aperta iniziammo a pensare al cinema come forma di documentazione della realtà. In quel momento c’erano una serie di persone che stavano lavorando intorno al documentario realista, e costituimmo accanto al Centro Etnologico, il Centro Italiano per il Film Etnografico, che si collegò a quello francese, coordinato da Jean Rouch, all’interno di un organismo internazionale che si chiamava Comité International du film Ethnographique. Lavoravamo a stretto contatto con l’area francofona e organizzavamo, mi sembra ogni due anni, dei colloqui internazionali, l’ultimo dei quali si tenne a Perugia, dove io insegnavo e dove avevamo costituito il primo Istituto universitario di antropo- logia culturale. Questo centro ha avuto un ruolo importante a livello internazionale perché noi avevamo insistito sul fatto che il lavoro del documentario dovesse incentrarsi anche sulla allora chiamata «realtà metropolitana», non soltanto la ricerca sui popoli «esotici», come dicevano i francesi, ma anche le realtà moderne. Quindi, con una proposta di denominazione che adesso giudico errata, proponemmo di cambiare il nome alla struttura, chiamandola Comitato Italiano del Film Etnografico e Sociologico, intendendo per «sociologico» il film che si occupa del mon- do moderno. Dico che fu una scelta errata perché per sociologico oggi intendiamo una cosa diversa, e anche perché l’antropologia culturale non è limitata all’analisi dei popoli «esotici». Fatto sta che la proposta fu accettata a livello internazione e si creò il Comité International du Film Ethnographique et Sociologique. Poi finalmente, avendo fatto la mia buona autocritica su

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La prima edizione del festival ha svolto un ruolo non secondario nella storia del cinema docu- mentario, perché proprio in relazione ad alcuni dei film visti in quell’edizione, Edgar Morin e Jean Rouch, che erano membri della giuria, iniziarono a pensare di poter sperimentare nuove forme espressive...

Sì, perché immediatamente il festival ebbe una dimensione internazionale. Fu proprio dopo la loro partecipazione al festival che Morin e Rouch decisero di fare Chronique d’un eté, che fu poi dato al Festival dei Popoli. In effetti il festival è stato un luogo d’incontro, perché noi organizzavamo dei colloqui tematici, in cui si discuteva di questioni teoriche sulla forma docu- mentaria. C’erano poi dei seminari in cui mostravamo i film di interesse più etnografico, molti dei quali non venivano proiettati nel festival vero e proprio. In questi seminari venivano invitati antropologi, etnologi, sociologi che discutevano di questi film. Quindi il festival era contem- poraneamente una vetrina di documentari, che naturalmente venivano selezionati sulla base di una serie di criteri che avevano a che fare con la forma cinematografica e poi una serie di colloqui, seminari, mostre fotografiche.

A proposito della selezione di cui si parlava prima, come avveniva dal punto di vista pratico? Avveniva in una saletta di proiezione dell’Agis a Firenze, dove ci si rinchiudeva a vedere film. La selezione durava circa un mese e la commissione di selezione era in genere di sei o sette perso- ne. La saletta era ben attrezzata e permetteva di vedere film in diversi formati compresi i 35mm in materiale infiammabile, i super8 o i film con banda magnetica separata. C’era di tutto. I film arrivavano sia attraverso il bando di concorso, sia attraverso segnalazioni, sia grazie al comitato internazionale che si attivava per proporre dei film. La selezione avveniva anche in base ai vari spazi in cui il film poteva essere visto. Un film scartato dal concorso poteva essere proiettato in uno dei colloqui o dei seminari collaterali.

È interessante leggere nell’introduzione al catalogo dell’edizione del ’59 che il festival si propo- neva sì di mostrare film di interesse «etnografico e sociologico», ma, allo stesso tempo, nella consapevolezza che il documentario è una forma di cinema...

Il grande dibattito di quel periodo fu proprio questo: “Come individuare un film scientificamente corretto che sia però «cinema»?”. Perché, superata la visione ingenua dell’oggettività della ri- presa cinematografica, c’era la consapevolezza dell’esistenza di un punto di vista, che è quello da cui la macchina da presa riprende l’oggetto e dell’organizzazione di queste immagini per mezzo del montaggio. Il problema si poneva in modo ancora più pressante per i film italiani, la cui lunghezza non superava i dodici minuti. Il fatto era che questi film non avevano circolazione e la loro unica possibilità era di essere premiati dalla Presidenza del Consiglio. Se questo avveniva, il film poteva circolare nei cinema ed essere proiettato nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo di un lungometraggio. In realtà poi non circolava neppure così, perché spesso i gestori dei cinema proiettavano la pubblicità nell’intervallo (cosa che li faceva guadagnare di più); quindi, di fatto, nessuno li vedeva. Uno dei temi che veniva discusso nei seminari di allora riguardava proprio le forme alternative di circolazione dei prodotti italiani. Di fronte a questa situazione, e visto che il premio della Presidenza del consiglio non era poi così cospicuo, i produttori facevano

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(e io dovetti affittarne uno per l’occasione). In quegli anni imperava la censura, per cui c’erano una serie di norme e proibizioni particolari: tanto per dirne una non era possibile mostrare in una scena di un film il seno nudo di una donna bianca, ma era possibile mostrare il seno di una donna di colore senza incappare nella censura. Così fu lanciato il festival che aveva di fatto tre anime: un’anima sostanzialmente antropologica e di sinistra, che era quella del Centro Italiano per il Film Etnografico, un’anima democristiana governativa, rappresentata da coloro che ave- vano gli agganci in alto, e un’anima cattolico-progressista, rappresentata dall’area fiorentina, legata al sindaco Giorgio La Pira. Era ancora un’epoca in cui si potevano mescolare intorno ad un progetto la sinistra marxista con le aree cattoliche e con la mondanità aristocratica. In seguito però le differenze di impostazione emersero e prevalse la linea «culturale» del festival. Dopo alcune edizioni ci emancipammo dal gruppo romano e acquistammo il nome (che era depositato) di Festival dei Popoli, acquistando così una maggiore autonomia nelle scelte e nella linea che volevamo portare avanti. Questi sono stati i cambiamenti strutturali dei primi anni. Ini- zialmente il festival era più orientato verso una scelta di film «etnografici», nel senso di film che focalizzavano l’attenzione verso il mondo extraeuropeo, anche per un’esigenza di informazione su luoghi e situazioni non molto conosciuti. Tieni conto che il festival muoveva i suoi primi passi quando la televisione era appena agli inizi e non offriva la quantità di spazio per l’informazione che è oggi a disposizione; quindi il festival ha avuto in questo senso una funzione informativa importante, fino al 1968, quando questa dimensione del festival come luogo dove si produceva informazione raggiunse il suo apice....

Ad esempio quando si proiettò Le Ciel, la terre di Joris Ivens...

Sì, il film era stato bloccato dalla censura, e ci fu una riunione lunghissima del comitato organiz- zatore del festival in cui decidemmo alla fine di proiettarlo lo stesso. Ci fu un altro episodio legato ad un film che raccontava l’Apartheid in Sudafrica con un taglio decisamente critico, denuncian- done l’ingiustizia; l’ambasciata sudafricana inoltrò una protesta ufficiale al Governo italiano per la proiezione di un film diffamatorio nei confronti del Governo di Pretoria. Il ‘68 fu il momento in cui il Festival arrivò al più alto grado di politicizzazione. Noi eravamo sensibili al tema delle istitu- zioni manicomiali, ad esempio, e in quegli anni demmo una serie di film legati a questo tema...

Come Titicut Follies di Wiseman?

Anche quello fu un evento per la forza delle immagini. Ma penso soprattutto a Marat-Sade, che tra l’altro era un film molto bello, perché si basa su questa rappresentazione della morte di Marat che i pazienti di un ospedale psichiatrico mettono in scena a Parigi. Quel film fu uno degli eventi simbolo di quegli anni. Dovevamo portarlo alla Facoltà di Lettere a Firenze per una proie- zione all’Università. La cosa coincise con la contestazione del Festival, che ci portò ad accettare una giuria popolare, e in seguito all’eliminazione del concorso. Tornando al Marat-Sade, proprio in quei giorni l’Università era occupata e noi dovevamo proiettare il film. Fu veramente una not- te brava, perché la polizia voleva entrare e i vari gruppi studenteschi erano pronti a resistere all’assedio. Alla fine il film non fu proiettato vista la situazione d’emergenza, ma noi eravamo dentro l’Università. Per fortuna finì abbastanza bene, anche se fummo tutti denunciati e ci fu un processo collettivo senza grosse conseguenze.

ministro mi rispose esplicitamente che sì, io avevo ragione, ma che non tenevo conto del fatto che al contrario dell’Italia, che aveva vissuto l’epopea partigiana, gli stessi dirigenti di oggi erano stati molto spesso i dirigenti della rivoluzione culturale, e questo era bene non esplicitarlo. Il progetto fallì soprattutto per questo.

Un’ultima considerazione possibile riguarda la situazione attuale, in cui è cambiato il panorama della fruizione del cinema documentario, si assiste ad un aumento impressionante della produ- zione, ma continua ad esserci un problema di visibilità...

Non so se sia giusto dire che il documentario non ha circolazione. La televisione è piena di pro- grammi che trasmettono delle forme di documentario, servizi e filmati su forme di vita «esotiche» o luoghi lontani. Ora quella funzione informativa delle immagini, che per un certo periodo è stata svolta dal documentario viene svolta pienamente dalla televisione. Quello che non c’è però, è il documentario «pensato» come documentario. Quello che circola di fatto è un prodotto generica- mente informativo, servizi, reportage, ecc. quello che manca, o che è poco visibile, è il documen- tario vero e proprio, la ricerca cinematografica e la riflessione teorica. D’altronde c’è un problema che caratterizza il rapporto del documentario con il cinema di fiction, ed è quello della specificità del documentario. Così come c’è una differenza tra un saggio storico su un evento e un romanzo

xV Festival dei Popoli, Jane Fonda al Palazzo dei Congressi

in modo di realizzare film più economici possibile, anzitutto della lunghezza massima di dodici minuti o anche meno; in secondo luogo, utilizzando meno girato possibile; infine, girati in luoghi vicini, perché ogni spostamento costava denaro. Questi criteri hanno condizionato fortemente la forma del documentario, e spiegano tra l’altro perché moltissimi documentari italiani di quegli anni sono su Roma, sulla periferia romana. C’era qualche eccezione, come I battenti di Gabriele Palmieri, ma di fatto la situazione era la stessa per tutti.

Nel 1968 fu abolito il concorso?

Sì, anche perché una delle critiche che venivano fatte al Festival era proprio che il concorso rap- presentava una sorta di competizione tra pari, individualista e borghese. E soprattutto trasfor- mava la ricerca cinematografica in un mercato. Ma non era solo questo perché avremmo potuto fare i premi senza denaro, era proprio l’idea del «confronto» ad essere messa in discussione.

Quello fu anche il periodo dell’esplosione del cinema politico; questa nuova particolare forma di documentario provocò una discussione anche all’interno del festival? Su cosa rappresentasse quel tipo di documentario rispetto alle forme del documentario degli anni Cinquanta-Sessanta, dal cinema diretto al cinéma vérité?

Io ho l’impressione che la cosa era talmente politicizzata che non c’è stata una vera discussione teorico-metodologica sulla forma cinematografica del documentario politico. Ricordo che il pro- blema vero era di far vedere questi film, proiettarli come atto politico, al di là delle loro differenze. Ci furono poche occasioni di dibattito teorico vero e proprio. Ma fu un periodo di grande interesse, di grande vitalità ed energie, che poi ha avuto delle derive diversissime tra loro. Molti dei prota- gonisti delle lotte degli anni Sessanta sono poi passati dall’altra parte.

Pensando al riflesso di tutto questo sulla storia del Festival, gli anni Settanta sono stati anni di cambiamento, di trasformazione anche per la manifestazione?

Fino ad un certo punto. Nel decennio successivo si è andati gradualmente verso una normalizza- zione della società italiana e anche il Festival rifletteva questa tendenza. La dimensione politica è stata comunque sempre presente nel festival. Ricordo un progetto per una retrospettiva sul cinema cinese che avevamo pensato nel 1985. Era l’idea di costruire un percorso sulla storia del Novecento in Cina attraverso il cinema. Il progetto si arenò perché ci scontrammo con le autorità cinesi: parte dei documentari che avremmo voluto selezionare provenivano dall’Istituto per le minoranze etniche, mentre noi eravamo stati invitati da un comitato per il cinema di derivazione ministeriale. Questi negarono persino l’esistenza di questi documentari. C’era stato uno scontro di competenze, una sorta di concorrenza interna. Da un punto di vista politico c’era però un al- tro motivo, più profondo. Visto che quei documentari erano stati prodotti durante la rivoluzione culturale, e che in quel periodo il governo cinese aveva attuato la revisione critica di quella fase della storia della Cina, quei film erano stati archiviati e non si potevano vedere. Quindi non si poteva proporre una retrospettiva incompleta. Ebbi un colloquio con il vice ministro della cultura, al quale chiesi perché sarebbe dovuto essere un problema proiettare quei film; in fondo, da noi, gli dissi, proiettare film del periodo fascista si può, e siamo una repubblica antifascista. Il vice

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