• Non ci sono risultati.

Pensieri in Forma di intervista

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 108-112)

A CURA DI VITTORIO IERVESE

Le interviste che Thomas Heise ha rilasciato negli ultimi anni sono molto dense, interessanti e piene di riferimenti storici e biografici. Queste interviste sono difficilmente riassumibili e sinte- tizzabili. In qualche modo assomigliano al suo cinema. Per questa ragione, abbiamo voluto sele- zionare alcuni estratti di conversazioni che Heise ha tenuto in occasioni diverse per fornire degli spunti, piuttosto che riportare un discorso che completo non potrà mai essere.

GLI INIZI

“Ho scoperto il lavoro documentario quando ero sotto contratto, prima come ricercatore, poi come assistente del regista della DEFA Heiner Carow. Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta. [...] Un periodo nel quale, in seguito al ’68, si assisteva ad una grande sperimentazione nei media. [...] Per il lungometraggio Bis dass der Tod euch scheidet (per la regia di H. Carow) ho condotto e registrato una serie di interviste e conversazioni con dei giovanissimi coniugi. Inizialmente erano dei giovani studenti della scuola serale che anche io frequentavo, poi si sono aggiunte anche altre persone, sem- pre giovani, che mi sono cercato o che ho incontrato per caso. Le storie di vita, che questi giovani mi raccontavano, le loro contraddizioni, le diverse percezioni che ciascun uomo e donna aveva della sua propria situazione mi interessavano e mi esaltavano molto. Ho sempre parlato singolarmente con loro e loro mi hanno sempre espresso il bisogno di raccontarsi. E a me, che non ero più grande di loro ma ascoltavo con pazienza, raccontavano delle cose che nascondevano persino ai loro partner. Poi passai alle ricerche nell’ambito dei «VeB»1. Si trattava di intervistare le «Reparaturbrigaden», squa-

dre di riparatori che dovevano cercare di far funzionare i macchinari non più funzionanti e obsoleti delle fabbriche, e lo facevano con un’incredibile fantasia, in parte ingannando anche i loro dirigenti; davvero furbi! Il loro «onore professionale» consisteva nel permettere all’impresa di continuare la produzione con i mezzi che avevano a disposizione. Ciò che facevano, come mantenevano in vita la produzione, non c’entrava niente con quello che raccontavano i giornali.

Chi apparteneva a queste squadre aveva un’idea tutta sua del socialismo, piuttosto anarchica. Il loro Io era un Noi, che non aveva niente o ben poco a che fare con ciò che era in realtà la RDT, ma avevano in mente piuttosto un socialismo utopico. Queste storie non mi bastavano, ne volevo di più. Questo ha anche a che fare con l’avidità, l’avidità di vita. Ho iniziato molto presto a colle- zionare queste storie trascritte. A volte mi hanno buttato fuori dalle fabbriche nelle quali facevo le mie ricerche. Ero un giovane attratto dai frutti proibiti, come ogni giovane. Per ottenere ciò che cercavo, ci voleva abbastanza fantasia, questo mi divertiva molto e trovavo questa realtà molto più interessante dei film della DEFA, la maggior parte dei quali non mi coinvolgeva affatto. C’era- no solo poche, ma davvero valide eccezioni. Dopo la maturità, lo Studio per i lungometraggi della DEFA mi ha affidato ad Heiner Carow con un incarico presso la Scuola di Cinematografia. Lì mi è apparso chiaro che quello che volevo fare era realizzare documentari”. (IG).

217

inizia con un campo lungo della piazza e poi con delle immagini riprese da una videocamera di sorveglianza. Questo mi è piaciuto, mi ha colpito lo sguardo diverso della macchina da presa. […] I film nascevano nell’ufficio di documentazione filmica di stato che apparteneva all’archivio statale della RDT, non alla DEFA, ed erano prodotti per scopi d’archivio. Non subivano nessuna censura perché erano trattati come «materiali» e non come «film». C’era l’opportunità di depo- sitare del materiale in uno degli archivi più moderni dell’epoca, nascondere i propri pensieri e le proprie immagini dal nemico” (MK).

“Io credo che la polizia e anche l’ufficio dell’Amministrazione fossero conviti che io e Peter Badel fossimo «qualcuno di loro». Cos’altro gli fosse evidente – come anche all’ufficio di documenta- zione filmica statale – non posso immaginarlo. Conoscevano soltanto ciò che assomigliava a loro stessi. Per entrare negli uffici dell’Amministrazione o della polizia era necessario un docu- mento con l’intestazione del dipartimento di documentazione filmica statale. Statale significava «certificato». E se si era dentro, si era dentro, non c’erano più domande e si poteva fare quasi tutto. Il vero interesse dell’Amministrazione e della Polizia era l’autenticità, non recitavano, si concedevano alla macchina da presa. Forse non vedevano quello che facevano perché non ave- vano nessuna distanza. Acquisimmo la fiducia della Polizia e dell’Amministrazione, ma anche, all’opposto, del popolo. La macchina da presa era posizionata tra le sedie, proprio al confine. Lì volevo stare. Per le persone che ci fosse la macchina da presa era lo stesso, parlavano del loro appartamento, dell’amore, dei soldi che mancavano, del marito scomparso, dei problemi educa- tivi, della pensione bassa, quelli erano i loro problemi quotidiani. E si sentivano nel giusto. Non c’era nessuna titubanza. Si sentivano sicuri. Ci siamo rispettati reciprocamente. Oggi questo è molto più difficile. Si tratta innanzi tutto di assicurarsi, e ci si aspetta una fregatura o una mes- sinscena piuttosto che la veridicità. Quando mettevamo un po’ di tempo fa la macchina da presa al bordo di una strada di Halle-Neustadt la gente si affacciava immediatamente dai balconi, ci fotografava e gridava. Questo ha a che fare con l’esperienza e la televisione” (MK).

LA RADIO E IL TEATRO

“Quando potevo fare dei film, ho fatto dei film. Quando potevo fare del teatro, ho fatto del teatro. Quando potevo poi fare un film, desideravo il teatro. Nello stesso tempo avrei però anche potuto fare un radiodramma o, se uno vuole, un’opera” (CL).

“Un «documentario senza immagini» non vuole dire altro che fare alla radio ciò che non si poteva fare in un film. L’autore Peter Brasch, il fratello di Thomas Brasch, mi aveva detto che un giovane aveva delle buone possibilità di ottenere un lavoro per la radio. A me interessava il lavoro con il suono originale. Era in pratica una continuazione o uno sviluppo del lavoro di ricerca, che avevo sempre portato avanti con il registratore prima per Heiner Carow, poi per me. Dovevo produrre immagini con dei suoni. Anche questo finì in un disastro produttivo”. (IG).

“Ho conosciuto Heiner Müller a tredici anni in Bulgaria. Avevo a che fare con lui, non perché era un poeta. Non ho mai parlato di arte con lui, mai. Anche successivamente, molto poco. Il nostro accordo si realizzava su un altro livello”. (CL).

216

1986. Io ero andato via già da un pezzo dalla DEFA. […] Lotahr Bisky era diverso. Era aperto a pensieri diversi, era intelligente, un comunista con degli ideali. Nel 1981 mi ha scritto una lettera di referenza per Anka und... . Anka und... era uno scenario per un film documentario sui bambini della Prima città socialista della RDT dal quale dieci anni dopo ne ricavai il mio film Eisenzeit. Il film trattava della seconda generazione nella città di Stalinstadt e nel 1961 rinominata Eisenhüt- tenstadt. [...] Una storia della RDT. [...] L’accettazione della sceneggiatura per Anka und... veniva spostata di riunione in riunione, mancava sempre qualcosa e io mi dovevo occupare di appor- tare le integrazioni. Alla fine chiesero anche – in modo molto insolito – di trovare una referenza per la sceneggiatura e grazie a dio ero libero di scegliere un esperto. Dovevo avere difficoltà a trovare qualcuno, intendevano prolungare la mia richiesta in continuazione, occuparmi con del lavoro inutile, era un metodo veramente idiota. [...]. Mio padre mi consigliò di andare da Lothar Bisky che lui conosceva. Fu una buona mossa andare da lui. Il film lo interessava. La sua peri- zia proveniente dall’Accademia GEWI naturalmente non poteva essere impugnata dalla HFF. La sceneggiatura doveva essere accettata e poi, per essere ultimato, il lavoro doveva passare dal Dipartimento degli Affari Interni di Eisenhüttenstadt.

Certe vicende della storia dell’Accademia per il Film e la Televisione della RDT non sono state ri- elaborate fino ad oggi. E nessuno ha mai ritenuto necessario, neanche l’attuale direzione dell’Ac- cademia, nemmeno in occasione dei festeggiamenti solenni per il cinquantesimo anniversario della sua fondazione, di scusarsi con una delle persone colpite o di tematizzare almeno questa parte della storia della HFF» (IG).

«Io e il mio team eravamo arrivati per le riprese. Lo stesso giorno lo studente della produzione, che mi era stato assegnato dalla HFF, mi comunicava che le riprese all’interno della città sa- rebbero state interdette dal Dipartimento degli Affari interni del comune. Non arrivammo a fare alcuna ripresa. Potevo fare soltanto delle registrazioni audio con Tilo Paulukat, uno dei quattro eroi del film; le abbiamo utilizzate dieci anni dopo, per il film Eisenzeit che ho girato nel 1991. A quell’epoca Tilo era già morto. Si era impiccato durante un fine settimana di vacanza durante il periodo di leva. Le vecchie registrazioni delle sue interpretazioni delle canzoni di Neil Young erano l’unica cosa che ne rimaneva» (IG).

IL POTERE

«Il 1984 era l’anno di Orwell. A Maggio del 1985 ricorrevano i quarant’anni dalla fine della guerra. Per quest’ultima ricorrenza rumoreggiava l’industria della rielaborazione. In questo contesto mi accorsi che non esisteva niente sull’Amministrazione del Terzo Reich. Sullo Stato, sulla dittatura. Lì dove si mostra davvero, nel rapporto concreto tra Stato e cittadino. La domanda era: come parla concretamente lo Stato con il popolo? Su questo non c’era nessun materiale autentico, comunque nessuna immagine, solo atti e descrizioni di seconda mano. Nella RDT l’Amministra- zione era al massimo un tema per un film di propaganda per l’ordine dei giovani. C’era anche una grossa quantità di esperienze vissute ma nessuna immagine autentica. Era questo che volevamo realizzare io e il mio cameraman Peter Badel.

1984 era un libro che non si poteva comprare nella RDT, che non c’era ma di cui ognuno sapeva, perlomeno ne aveva sentito parlare da chi, avendolo avuto tra le mani, l’aveva letto. Das Haus

Quando Peter Badel mi vuole far arrabbiare mi chiede dove deve mettere la camera e quale obiettivo voglio. Ho imparato a rispondergli se vuole mangiare qualcosa. Siamo come una vecchia coppia. In fondo è come una situazione di prove teatrali, durante le quali perché pos- sa nascere qualcosa è fondamentale il modo in cui ci si relaziona gli uni agli altri all’interno del gruppo. Io non voglio che video e audio comunichino soltanto a livello tecnico. Per me è importante che le persone coinvolte si interessino agli altri, che ci sia tensione e discussione tra di loro e anche che io riceva un feedback. Dopo un periodo da dieci a quattordici giorni ci si è avvicinati normalmente alla cosa in modo che non se ne debba più parlare. Che si possa iniziare. Tutto ciò che si è ripreso fino a quel momento è di norma, esagerando un po’, una «cavolata». L’operatore viene da un altro film e vuole usare i nuovi trucchi di illuminazione che ha imparato. Il tecnico del suono vuole sperimentare quel nuovo macchinario, ecc. Si tratta però di qualcos’altro. Si tratta di essere aperti a seguire il film. Per questo ci vuole del tempo. Le cose migliori sono quelle di cui prima non si sa niente. Per ottenere una cecità di cui ci si può fidare si deve avere un sentimento per il luogo e per le persone. Quello che capita tra le persone diventa parte del lavoro» (MK).

SUL DOCUMENTARIO

“Descrivere qualcosa in modo comprensibile, dargli un nome, che può essere anche un intero film, è sicuramente un miglioramento in confronto a qualcosa di innominato. D’altra parte, non so chi, ma qualcuno ha fatto una considerazione che mi piace: un documentario significa accendere la luce e poi lasciare la gente seduta nella luce, quando uno se ne va. Questo atto cambia già le cose. Se poi questo cambiamento sia un miglioramento è piut- tosto opinabile.” (IG).

“Il documentario ha in fondo qualcosa a che vedere con l’atto del collezionare: collezioni di storie, di persone, biografie. […] Ho sempre collezionato ritagli di giornali, ho raccolto soprattutto le porcherie. E il kitsch politico. Cartoni interi. Informazioni di scarsa importanza oppure foto nelle quali Erich Honecker chiacchiera con un ensemble di danza classica o con un gruppo di ballerine sul ghiaccio. Li ritagliavo sempre dal giornale Neuen Deutschland e li incollavo alle pareti del mio bagno. Il messaggio di un lettore sull’espulsione di Biermann3: «endlich» (finalmente). Un

vecchio servizio sulla ripresa dei rapporti diplomatici tra la RDT e la Spagna di Franco. In modo da ricordarmene. Li attaccavo in bagno dove nessun estraneo entrava. Il bagno, l’unico luogo in cui, anche durante la leva, si stava da soli”. (MK).

“La televisione è prodotta per la contemporaneità, per un consumo immediato. Perlomeno ten- denzialmente la televisione teme il rischio. I formati appartengono alle forme di minimizzazione del rischio. Si sa quello che si ottiene. La televisione è industria, vive di un rapido dimenticare. Preferisce la sicurezza alla realtà insicura. Ci si può fidare. Non ogni singolo film, non ogni singolo programma. L’intero, si. Non è affatto paragonabile con qualcos’altro. Il documentario passa in televisione, come «mobile d’informazione». I libri stanno negli scaffali. Gli scaffali indi- cano quali libri alla fine sono stati scritti, stampati, rilegati, quelli che ci entrano e quelli che non c’entrano. Questa è la situazione.

FARE FILM

“Su un set della DEFA sono quasi morto dalle risate a causa dei dialoghi stupidi. Dopo non volevo avere più niente a che fare con i film, non volevo diventare uno di quegli imbecilli, che la mattina presto alle sei vanno con il bus della DEFA a Babelsberg e fanno un film di merda dopo l’altro solo per campare. Internamente avevo messo tutto da parte. Proprio in quel momento ho conosciuto, presentato da sua moglie Evylin, Heiner Carow. E proprio quel giorno da Gerd Golde, Carow ha aperto un’enorme botte di birra. Cosi sono rimasto comunque a fare film” (CL).

“La «capacità di mercato» non è un criterio. Brecht nei suoi periodi più innovativi era tutt’altro che adatto al mercato. Con l’eccezione dell’Opera da tre soldi. I teatri andavano regolarmente in rovina dopo la prima dei suoi spettacoli. I suoi tentativi di adattarsi al mercato sono falliti in modo clamoroso. Si è impegnato così tanto. È notevole come Fassbinder sia riuscito ad essere al mondo in tempo per poter lavorare, e sparire in tempo dal mondo prima che questo non lo volesse più. Sapeva che aveva soltanto una piccola finestra di tempo in cui funzionava quello che faceva.

Sa quanti esemplari del Faust ha venduto Goethe quand’era in vita? Dodici. Il Faust di Goethe non era adatto al mercato. Kotzebue ha venduto. Anche Arno Schmidt non era adatto al mercato. Rosemunde Pilcher lo è ma per questo è insopportabile2. E così via. Una discussione come que-

sta non serve a niente. L’adattamento al mercato non è un criterio artistico. Si tratta di durare nel tempo. Un film come Vaterland forse non si adegua agli standard delle attuali strategie di distribuzione. Dall’altra parte, sono i margini che prima o poi rovineranno il centro. Le periferie. Durare nel tempo è qualcosa che non si preoccupa dell’adattamento al mercato. Un mercato è sempre un mercato del contemporaneo. E questo è passato quando accade. Io credo al tempo. Il mercato attuale non esisterà tra cinquant’anni, il mio film però sarà ancora là. Nel caso peggiore bisognerà andare a scovarlo, magari no”. (MK).

IL METODO

“Ciò che ha a che fare con il mio interesse necessita di tempo. Quando voglio sapere qualcosa da qualcuno, mi devo prendere il tempo per mettermi lì in piedi o sedermi e aspettare fino a che qualcuno si accorge di me e si rende disponibile a raccontarmi qualcosa. Dunque, non posso andare lì e dire ‘Dai, fai!’, ma devo aspettare” (AK).

“Senza apertura per le esperienze non può esistere nessun film. Io non credo ai film nei quali si sa già dall’inizio quello che alla fine verrà fuori. Anche se molti film oggi vengono fatti in questo modo: si nomina un problema e si trovano i protagonisti che si adattano meglio a quel problema. Questo mi annoia. […] Se ci sono persone che mi interessano, io faccio un film su di loro, per saperne qualcosa di più. All’inizio non ho nessuna tesi. (TAZ).

«Sul set siamo sempre in quattro o cinque persone, cioè regia, audio, cameraman e assistente alla ripresa. Talvolta, anche un assistente alla regia. Per il tempo delle riprese, il centro di tutto è il film, nient’altro. Faccio attenzione a legare la gente al luogo di ripresa e nel caso migliore a non lasciarli andare via da lì. Detesto il servizio: io faccio quello che vuoi. Io voglio vedere un pensiero, una proposta. Altrimenti non mi interessa.

221

MATERIALI

“La forma risulta dal materiale. Ha a che fare con lo scavare, il rivoltare. Poi c’è questa strana frase, che mi è venuta all’improvviso in mente e che da lì non è andata più via: la storia, può es- sere concepita logitudinalmente, ma essa è un mucchio. Chi siano le figure nel dettaglio, per me è meno importante. C’é un poliziotto, che vuole stabilire una conversazione con i suoi oppositori, un uomo della strada che vuole convincere la polizia; tutti e due non hanno fortuna, i rispettivi interlocutori non ascoltano. C’è un regista e un scenografo, due che cercano di intendersi, discu- tono di sopra e di sotto, di palco e platea. C’è un funzionario che, come un funzionario, dall’alto cerca di convincere il popolo a rimanere calmo. Sotto c’è il popolo riunito in una piazza che non si fa più prendere per il culo da quelli di sopra. ‘Si deve andare da sotto a sopra e ognuno deve essere interpellato’, dice una guardia nella prigione. Eccetera. Di questo si tratta. Il retroscena dei singoli, i luoghi esatti sono piuttosto secondari per la storia, interessante è ciò che succede, come si sviluppa e come cambia il rapporto tra palco e platea”. (IG)

AK Intervista con Alexander Kluge nel programma televisivo: 10 vor 11, trasmesso il 18 dicembre 2000. CL Intervista con Claus Löser. Berlino, 5 Maggio 2003 in: Löser C. [2003] Im Zweifel für die Schwachen

– Die radikale Ambivalenz des Thomas Heise.

ER Intervista con Erika Richter in: Film und Fernsehen N° 03/93 IG Intervista con Irena Gruca-Rozbicka 2008.

MK Intervista con Mark Stöhr in: Teissl V., Kull V. (a cura di) [2006] Poeten, Chronisten, Rebellen. Inter- nationale DokumentarfilmacherInenn im Portraet. Schueren, Marburg.

TAZ Intervista pubblicata sul giornale “Die Tageszeitung” 2005

NOTE

1. Industrie di Stato.

2. August Von Kotzebue è uno scrittore contemporaneo di Goethe. A. Schmidt, è un autore che faceva parte dell’avanguardia letteraria a metà del Novecento, R. Pilcher è invece una scrittrice di romanzi rosa di grande successo internazionale, molti dei suoi lavori sono diventati film per la tv.

3. Karl Wolf Biermann è un importante cantautore e poeta tedesco. Dopo avere criticato il governo della RDT durante un suo concerto nel 1976 ed essere stato attaccato pubblicamente dagli alti quadri del partito, è stato espulso con l’accusa di: “gravi violazioni dei diritti di cittadino”.

4. In questa espressione T. Heise allude all’espressione «real existierenden» applicata per definire il socia- lismo realizzato.

220

Il film documentario è artigianato, e in questo momento assistiamo alla scomparsa dell’ar- tigianato. I film diventano sempre più simili tra di loro in modo che possano adattarsi me- glio. Bisogna dare una motivazione al fatto che il mio produttore esponga i miei film dipin- gendoli come «film d’autore» o «esperimento». Questo non lo può garantire la televisione, nonostante spesso lo si creda. Un film documentario non è pensato per la contemporanei-

Nel documento 50° Festival dei Popoli (pagine 108-112)