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Io: il giornalista Sergio Hernández nel teatro in cui sta andando in scena l’opera.

Sergio Hernández: Mi sono svegliato e intorno a me c’erano voci e luci strane. Ho impiegato al- cuni secondi per identificare un punto di riferi- mento che mi riportasse alla realtà. Volevo an- darmene subito da lì. Mi hanno detto che mi trovavo in una sala operatoria. Silenzio.

La sera del 15 giugno 1999 sono stato aggredito e picchiato in un taxi, su cui sono salito nel quar- tiere Condesa di Città del Messico. Mentre ci diri- gevamo verso casa mia, il taxi si è fermato all’im- provviso. In un attimo si sono avvicinati due indi- vidui armati. Mi hanno intimato di chiudere gli occhi e di spostarmi al centro del sedile. Il taxi è ripartito, il tassista era un complice. Dovevo ri- spondere solo se mi domandavano qualcosa. No- nostante non opponessi resistenza, sono stato in- sultato, preso a pugni, mi hanno ferito alle gambe con un rompighiaccio, mi hanno colpito al petto, sul viso e in testa con il calcio delle pistole. Hanno detto che mi avrebbero ucciso in un luogo isolato a sud della città. Una pattuglia di polizia con i lam- peggianti accesi che ci è passata molto vicino ha fatto cambiare idea agli aggressori. Mi hanno rila- sciato, coperto di sangue, in una strada del quartie-

re Narvarte. Ho sporto formale denuncia e il gior- no dopo sono andato dal medico. Mi ha prescritto solo di restare a riposo e di prendere un analgesi- co. Silenzio.

Otto settimane dopo l’accaduto, ho iniziato ad avere problemi a esprimermi verbalmente: quando tentavo di parlare mi si inceppava la lingua. Si so- no manifestati anche sintomi di difficoltà mnemo- nica. Il passato scompariva dietro un velo sottile. Poi ho iniziato ad avere difficoltà a ricordare i dati più insignificanti e recenti. L’11 agosto 1999 mi hanno diagnosticato una grave emorragia cerebra- le, causata dai traumi subiti durante l’aggressione. Mi hanno operato d’urgenza. Sono rimasto due mesi in convalescenza. Mi sono rimesso e sono tor- nato alle mie consuete attività nel mese di ottobre inoltrato. Allora ho deciso di riprendere l’inchiesta sui femminicidi a Ciudad Juárez. L’8 dicembre 1999 ho intervistato telefonicamente il magistrato Marcello López e il rettore dell’università di Ciu- dad Juárez, Juan del Valle, entrambi implicati nei fatti, secondo la testimonianza di Antonio Reyes. Sei ore dopo ho subito un’altra aggressione, di nuovo a bordo di un taxi coi documenti in regola. Stavolta due soggetti sono saliti sul veicolo durante una breve sosta. Sono stai diretti, non mi hanno picchiato, mi hanno detto: “Lei si è intromesso in una questione molto delicata, caro signore, e l’han- no messa in mezzo. Qualcuno l’ha messa in mez- zo. Faccia molta attenzione. Mi capisce? Il coman- dante ci ha ordinato di dirle questo”. Silenzio.

Il 10 gennaio 2000 ho pubblicato il reportage Los cuerpos perdidos. Nel testo documentavo che

la squadra narcotici cercava cadaveri sepolti e che durante gli anni ’90 erano state rinvenute decine di ragazzine e donne assassinate nella zona dei ‘ranch orgiastici’ dei narcotrafficanti. Silenzio. Il 10 lu- glio di quell’anno, mentre parlavo al cellulare con un’amica, ho sentito un’interferenza e una voce che ordinava: “Localizzatelo, localizzatelo!”. La posta elettronica funzionava in modo anomalo … soprattutto quando si trattava di messaggi su Ciu- dad Juárez. Ognuno di quegli strani segnali sem- bra inviarmi una specie di avviso preventivo o di minaccia. Ricominciava il teatrino dei fantasmi e delle finzioni, la ricerca di capri espiatori da incar- cerare, mentre i veri colpevoli si nascondevano dietro alla protezione inattaccabile delle dichiara- zioni ufficiali. Silenzio.

Una mattina del 1996 sono partito da Città del Messico diretto verso la frontiera settentrionale. E ho trovato una scia di sangue. Da allora l’ho segui- ta. A volte, quella scia si trasformava in un filo sot- tilissimo, quasi invisibile, e bisognava fare la mas- sima attenzione per distinguerlo. Poi diventava vistoso, da quanto era evidente. Una pozza di san- gue denso in cui affondano l’indignazione e la ver- gogna. Il mio paese ormai ospita un grande ossario infame, che abbaglia nonostrante la compiacenza delle autorità. Questi crimini avranno ricadute in ogni parte del mondo. Allora ricordare per me è diventato un imperativo. Una cosa abbastanza dif- ficile da portare avanti, perché ciascuno di noi ha dentro il suo demonio e trasformiamo il mondo nel nostro inferno personale e c’è sempre qualcu- no che vuole appropriarsene. Per questo devi ri-

cordare, mi sono detto. Ormai sei parte di queste donne morte. Ti inginocchi di fronte a loro. Ricor- da, sì. Per ora limitati a ricordare, anche se di que- sti tempi sembra eccessivo e persino inopportuno ricordare. Che altri sappiano cosa ricordi e possa- no leggere quello che è annotato in rosso per capi- re ciò che è scritto in nero. Ho una certezza: contro il nulla, la spunterà il destino. O la memoria.

Venti

La Llorona

Io: Maikel, l’autista di Juan del Valle, e sua figlia, una ragazzina di dodici anni dai tratti indigeni, attraversano il deserto di Ciudad Juárez su una Pilgrim nera. All’orizzonte, dal finestrino ab- bassato dell’auto, la ragazzina osserva in silen- zio la sottile pellicola di polvere che sembra separare la terra dal cielo più bello cha abbia mai visto in vita mia. La ragazzina a Maikel: La figlia di Maikel: Papà, ho paura.

Maikel: Che ti succede, tesoro?

La figlia di Maikel: Ho sognato il diavolo, ho paura.

Maikel: È stato solo un sogno.

La figlia di Maikel: Sì, ma non riesco a smettere di vederlo.

Maikel: Allora raccontami, com’è il diavolo? La figlia di Maikel: È bellissimo, come un attore

famoso della televisione, giovane, moro, con gli occhi grandi e con due corna enormi, come quelle di un montone.

Maikel: Se è così bello, perché hai tanta paura? La figlia di Maikel: Non puoi smettere di guar-

darlo e quando incroci i suoi occhi capisci che dietro non c’è nulla, solo due autostrade in mezzo al deserto che non finiscono mai, e una volta che le hai percorse non puoi mai più ripo- sare in pace …

Maikel: Ma è un bel sogno, tesoro.

La figlia di Maikel: Tu non l’hai visto, papà. Io: Una vecchia radio trasmette La Llorona1. Ini-

zio a sudare. I vetri scuri della Pilgrim nera si alzano lentamente e l’azzurro del cielo, per un momento, sembra diluirsi negli occhi della ra- gazzina …

Epilogo

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