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Io: Il vuoto, quello che tutti noi intendiamo per vuoto, non è vuoto: ha una densità di energia oscura che domina l’universo su larga scala. Questo ci obbligherà a riconsiderare molte del- le leggi fisiche che finora abbiamo accettato in modo dogmatico. Basandoci sullo studio dell’e- splosione di stelle lontanissime, col gruppo di fisici teorici che coordino siamo arrivati a que- sta conclusione: l’espansione del l’universo è in fase di accelerazione e non di rallentamento, come ci si sarebbe aspettati per influsso della gravità. Per spiegare questa accelerazione il set- tantacinque per cento del l’energia dell’universo deve essere composto da qualcosa di strano, una sostanza che nessuno ha mai visto prima. Come potremo ricominciare?

FINE

Città del Messico, aprile 2008; Zahara de los Atunes,

Postfazione

di Veronica Orazi

Mi sono imbattuta nel teatro di José Manuel Mora nella primavera del 2011. Incuriosita, ho ini- ziato a documentarmi e ciò che è emerso si è rive- lato subito estremamente interessante, per il profi- lo di questo drammaturgo e per i temi che tratta nelle sue piezas, così come per le modalità perso- nali e innovative con cui lavora. Così, ho scelto una selezione delle sue opere per il corso di Tradu- zione letteraria che avrei tenuto nell’autunno dello stesso anno. Tra queste, figurava anche Los cuer- pos perdidos1 che – tra l’altro – meriterebbe anche uno studio di critica genetica: Mora, come altri autori, interviene sul testo originario dopo la pri- ma e dopo le repliche successive e nel caso de Los cuerpos perdidos la versione pubblicata nel 20112, si discosta dal copione e accoglie una serie di cam- biamenti e ritocchi rispetto alla redazione iniziale (soppressioni, integrazioni, dislocazioni, modifi- che, che coinvolgono singoli termini, frasi, battu- 1 Così, per il corso di Lingua e traduzione spagnola per la

laurea magistrale, quell’anno ho potuto lavorare sui copioni forniti dall’autore, che ringrazio ancora. Le opere che ho tra- dotto a lezione sono: Trevélez (me muero de amor) del 2006;

Mi alma en otra parte, Los cuerpos perdidos e Catorce kilóm-

etros del 2009.

2 José Manuel Mora, Los cuerpos perdidos, Madrid,

re, ma anche interi passi e parti). Si tratta di inter- venti diversi per estensione e peso contenutistico, stilistico, drammatico, che lasciano il segno sulla nuova veste testuale, che assume un profilo sensi- bilmente differente dopo la revisione. Sarebbe op- portuno studiare questi mutamenti, per delineare l’evoluzione dell’opera e dell’estetica dell’autore.

Mora affronta temi delicati e impegnati: l’omo- sessualità, la malattia, il contagio dell’aids, la pe- dofilia, l’immigrazione, la violenza e la violenza di genere, la manipolazione dell’individuo da par- te e attraverso il potere, le dipendenze – dal part- ner, dagli altri, dai condizionamenti e dai falsi mi- ti della società consumistica e dell’immagine – e altro ancora. Sperimenta creando teatro di parola, con un testo da recitare, ma è sensibile anche agli spunti performativi, fondendo testo teatrale e mu- sica, mimo, danza.

Il suo è un teatro dalla profonda valenza civile e politica ma non in senso ideologico, come lo stes- so drammaturgo ha sottolineato in varie occasioni, quanto piuttosto in senso di impegno e di profonda consapevolezza del ruolo sociale della dramma- turgia attuale.

Con i suoi temi scomodi, destabilizzanti, Mora intende sollecitare gli spettatori, spingerli ad ac- quisire consapevolezza e quindi a prendere posi- zione rispetto ad alcune tematiche scottanti, impe- dendo loro di voltare le spalle, di distogliere lo sguardo, persino quando vengono trattati argo- menti duri in modo crudo, quasi spietato, senza filtri edulcoranti. In un’epoca di crisi dei valori, etici prima ancora che politici, questo genere di impegno è più che mai prezioso: secondo questa

prospettiva, occorre responsabilizzare il pubblico coinvolgendolo, non indottrinarlo, spronandolo a interrogarsi su ciò che sta accadendo in scena, per poi riflettere sulle dinamiche reali riproposte dal- l’azione drammatica. I contenuti del teatro di Mo- ra sono a tal punto delicati da implicare prima di tutto che il drammaturgo sia disposto a mettere in discussione se stesso, senza limitarsi a rovesciare sugli spettatori accuse o responsabilità dalle quali l’autore – come ogni altro individuo – non è solle- vato. In questo senso, si potrebbe parlare di un tipo di produzione che coniuga in modo suggestivo te- atro intimista e teatro impegnato: il drammaturgo viene preso nello stesso vortice critico in cui tra- scina il pubblico, con cui condivide le inquietudini e le reazioni anche emotive che il messaggio del- l’opera intende suscitare.

Insomma, una drammaturgia destabilizzante ma anche e prima di tutto auto-destabilizzante, che non lascia vie di fuga per nessuno, neppure per l’autore3.

Allo stesso modo, l’attenuazione, l’annullamen- to della componente ideologica e ideologizzata viene realizzato anche attraverso il profondo radi- camento nella vita quotidiana dell’azione mostrata sulla scena e con il lavoro sul personaggio. Oltre ad agire sui meccanismi di identificazione e immede- simazione con la vittima, Mora lavora anche sulla figura del carnefice, del colpevole, che analizza per poi mostrarne in modo sottile i meccanismi interio- ri, le dinamiche razionali o emotive che ne determi- 3 Secondo la concezione di ‘teatro politico’ espressa a par-

tire dagli anni ’90 del secolo scorso dal drammaturgo e regista teatrale scozzese David Greig (Edimburgo 1969).

nano le azioni. Con questo genere di indagine, che non liquida fin dall’inizio in modo sbrigativo i ‘cat- tivi’ in quanto tali, il drammaturgo vuole suscitare una reazione forte: non propone piezas a tesi, non offre una condanna preconfezionata, ma obbliga i presenti a farsi un’idea e a scegliere da che parte stare. Si tratta di un meccanismo che si auto-attiva quasi automaticamente, proprio per l’assenza di una visione che sin dall’inizio già condanna o as- solve, distribuendo ruoli, colpe, responsabilità, cui ci si deve solo uniformare, comodamente seduti in platea, senza pensare troppo né mettersi in gioco più di tanto. La descrizione del carnefice, il fatto di metterne in scena i comportamenti negativi, persi- no efferati, attraverso uno studio all’apparenza asettico, colpisce chi osserva, facendogli avvertire in modo più o meno consapevole la mancanza di qualcosa, di una censura netta di quel carnefice. Come accennato, il drammaturgo non sta offrendo una condanna ‘predigerita’ ed è proprio in questo modo che spinge a reagire e a supplire all’apparen- te vuoto etico, suscitando prima una risposta emo- tiva e poi incoraggiando una presa di posizione decisa: è ineludibile, gli spettatori non sopportano di veder passare davanti ai loro occhi un malvagio impunito, per il quale allora esigono una punizione senza appello, per tutto ciò che ha compiuto sul palcoscenico o che si intuisce possa aver compiuto. Se così non fosse, il pubblico si sentirebbe solleva- to dall’incombenza di pronunciarsi, perché lo avrebbe già fatto l’autore al suo posto.

Così, secondo Mora il teatro impegnato è in- scindibilmente legato al concetto di impatto sullo spettatore e di radicamento nel reale, nella quoti-

dianità. Un teatro di denuncia, quindi, una strate- gia il cui punto di forza consiste nel tensionar lí- mites: si tratta di estremizzare la trasgressione, il cui punto algido è costituito dalla massima tensio- ne drammatica che l’autore può suscitare e dalla massima tensione che gli spettatori (ma anche gli attori e gli addetti ai lavori) possono sopportare, senza però eccedere e provocare una chiusura per auto-difesa, che finirebbe per vanificare lo sforzo costruttivo del drammaturgo e per interrompere la comunicazione col pubblico.

Il teatro diventa, dunque, il luogo privilegiato per forzare la situazione, per mettere in crisi se stessi e chi assiste allo spettacolo. Se il teatro, in- fatti, è il luogo in cui potenzialmente tutto può es- sere detto e mostrato per responsabilizzare pubbli- co, attori, autore, attraverso ciò che accade in sce- na, allora la costruzione del colpevole si rivela strategica: mentre l’identificazione e l’empatia con la vittima sono più facili da suscitare, solo profilando il carnefice in modo efficace (cioè sen- za attenuazioni ma anche senza un’interpretazione già scritta della vicenda) sarà possibile attivare il meccanismo di rifiuto da parte degli spettatori, an- che quando vengono toccati aspetti che in qualche modo fanno parte di noi, del nostro rimosso, per farlo emergere, per riconoscerlo e combatterlo a livello individuale e collettivo4. Si pensi a temi co-

4 Come Mora afferma nell’intervista rilasciata assieme a

Juan Mayorga (suo maestro alla RESAD) “El teatro debe ha- cernos reconocer al fascista que llevamos dentro”, El Público, 24 aprile, consultabile online all’indirizzo http://www.publi- co.es/culturas/372695/el-teatro-debe-hacernos-recono- cer-al-fascista-que-llevamos-dentro

me l’asservimento agli anti-modelli e agli anti-i- deali della società dei consumi e dell’immagine, ma anche alla violenza, alle perversioni. In questo caso il drammaturgo vuole costringerci a vedere ciò che è scomodo, inquietante, destabilizzante prima per noi stessi e in noi stessi e poi per il mon- do esterno cui nascondiamo le nostre manie, le nostre fissazioni, le ossessioni, le debolezze.

Insomma, un teatro complesso quello di Mora, fatto di sperimentazione che investe i contenuti ma anche la forma, come dimostra l’ibridazione di te- sto teatrale e dimensione performativa, persino coreutica e musicale.

Los cuerpos perdidos porta sulla scena una vi- cenda forte e terribilmente impattante per la sua drammaticità e per le mostruosità che denuncia. Si tratta delle centinaia di femminicidi perpetrati a partire dal 1993 ai danni di donne, giovani e ragaz- zine, persino bambine (le vittime più giovani ave- vano una decina di anni), nella città di Ciudad Juárez, nello stato messicano di Chihuahua. L’o- pera si rifà a un fatto di cronaca, di proporzioni tali che la definizione finisce per stare stretta a questo abisso di orrore. La diffusione mondiale della notizia, dovuta al peso terribile della vicen- da, della sua gravità ed efferatezza, la rende em- blematica, simbolicamente rappresentativa della malvagità umana, del baratro di irrazionalità cui può condurre il male, senza senso, senza perché, senza ragione, pura espressione della follia uma- na. Come accennato, l’opera tratta il tema della violenza di genere, prendendo spunto dai femmi- nicidi che da più di vent’anni continuano a insan- guinare il Messico. Le vittime presentano tratti

comuni: sono tutte di sesso femminile, di estrazio- ne sociale bassa, talvolta hanno anche tratti fisici simili. Le cifre sono controverse ma comunque elevatissime. La vicenda sembra ripetersi ogni volta secondo un copione tragico: la scomparsa, il ritrovamento del cadavere con evidenti segni di se- vizie e di violenze anche sessuali. Ancora un tema forte, impegnato, cui Mora offre con la sua opera un’ulteriore cassa di risonanza.

Il testo presenta alcuni elementi tipici e special- mente suggestivi della sperimentazione dramma- turgica dell’autore, come la costruzione e l’uso peculiare del monologo, della dimensione spa- zio-temporale, del linguaggio e dell’espressività.

La pieza è suddivisa in quadri. Nella versione pubblicata compaiono venti quadri e un Epilogo, mentre la struttura del copione originario era di- versa, come si diceva. Oltre alle soppressioni, inte- grazioni, dislocazioni di porzioni più o meno este- se di testo all’interno dei singoli quadri, l’articola- zione complessiva viene modificata nel passaggio dal copione alla versione pubblicata. La tabella che segue sintetizza i cambiamenti strutturali in- trodotti da Mora.

Copione Edizione

Uno. Chistes Uno. Prólogo Dos. El árbol sin nombre de

flores violetas

Dos. El árbol sin nombre de flores violetas

Tres. El corazón delator Tres. Chistes (5 dei 10 chis-

tes sono cambiati) Cuatro. La señora Flor Ra-

mírez Navarro

Copione Edizione

Cinco. En Las Mañanitas Cinco. La señora Flor Ra- mírez Navarro

Seis. El desierto o el cuerpo de Rosa

Seis. En Las Mañanitas Siete. Las manos que dieron

a luz a Antonio Reyes

Siete. El desierto o el cuerpo de Rosa

Ocho. El judicial Marcello López

Ocho. Las manos que dieron a luz a Antonio Reyes Nueve. El sueño de Beatriz Nueve. El judicial Marcello

López

Diez. Yo (I) Diez. El sueño de Beatriz Once. Estrellas Once. Yo (I)

Doce. Un hombre que coge como un niño

Doce. Estrellas

Trece. Canción Mátalas Trece. Un hombre que coge como un niño

Catorce. El tamaño del in- fierno

Catorce. El tamaño del in- fierno

Quince. Yo (II) Quince. Canción Mátalas Dieciséis. Juan del Valle y

los desayunos a Michoacán

Dieciséis. Yo (II)

Diecisiete. Ni modo Diecisiete. Juan del Valle y los desayunos a Michoacán Dieciocho. Los cuerpos per-

didos

Dieciocho. Ni modo Diecinieve. La Llorona Diecinueve. Los cuerpos

perdidos El misterioso universo ace-

lerado

Veinte. La Llorona Epílogo. El misterioso uni- verso acelerado

La versione del copione non presenta il Prologo e inizia col quadro “Barzellette” (Chistes), che di- venta il quadro tre nell’edizione, all’interno del quale cinque delle dieci barzellette sono state so- stituite da altre diverse. Dal quadro quattro, dun- que, si produce una sfasatura nel testo stampato rispetto al copione; le due versioni tornano a coin- cidere nel quadro quattordici (“Le dimensioni del- l’inferno”), per la posposizione del quadro tredici del copione, che conteneva il testo della canzone Mátalas (2001) del cantautore messicano Alejan- dro Fernández, che diventa il quadro quindici del- la versione a stampa. Da questo quadro la sfasatu- ra riprende e progegue fino all’Epilogo.

Nel testo, alcuni quadri si susseguono senza so- luzione di continuità, senza che vi sia un’effettiva pausa, risultando così connessi. In questi casi, il cambiamento di quadro si apprezza sostanzial- mente nel leggere la versione stampata, perché nel corso della rappresentazione, durante la recitazio- ne, non si percepisce alcuna separazione, se non quella indicata dal primo personaggio che entra in scena (o che vi è già e dà inizio alla nuova sequen- za) e pronuncia una serie di indicazioni sceniche come se si trattasse di una battuta. È ciò che avvie- ne, ad esempio, nel passaggio dal primo al secon- do quadro, come si vedrà meglio più oltre, che si chiude con Io che conlcude la sua battuta: “Dice:” cui segue direttamente l’inizio del secondo quadro con l’inizio della battuta del rettore Juan del Valle. Qui persino la punteggiatura contribuisce a sottoli- neare l’assenza di una cesura netta tra i due quadri. Nella versione data alle stampe il primo quadro contiene un “Prologo”, la cui parte iniziale verrà ri-

proposta in modo quasi identico alla fine, come “Epilogo”. Un dettaglio importante, che rispetto alla redazione originaria introduce un elemento che si configura come doppia parentesi, esordiale e conclu- siva, cui è affidata la trasmissione di un messaggio preciso: inizio e fine coincidono, gli estremi si tocca- no e tutto sembra prefigurare un inquietante ciclo continuo. Il contenuto del passo conferma questa impressione, che riemergerà alla fine dell’opera, col ripetersi nell’epilogo dello stesso micro-monologo:

Uno. Prologo

Io: Il vuoto, quello che tutti noi intendiamo per vuo- to, non è vuoto: ha una densità di energia oscura che domina l’universo su larga scala. Questo ci obbli- gherà a riconsiderare molte delle leggi fisiche che finora abbiamo accettato in modo dogmatico. Basan- doci sull’esplosione di stelle lontanissime siamo ar- rivati a questa conclusione: l’espansione dell’univer- so è in fase di accelerazione non di rallentamento, come ci si sarebbe aspettati per influsso della gravità. Per spiegare questa accelerazione il settantacinque per cento dell’energia dell’universo deve essere composto da qualcosa di strano, una sostanza che nessuno ha mai visto prima. (…)

(…)

Epilogo. Il misterioso universo accelerato

Io: Il vuoto, quello che tutti noi intendiamo per vuo- to, non è vuoto: ha una densità di energia oscura che domina l’universo su larga scala. Questo ci obbli- gherà a riconsiderare molte delle leggi fisiche che finora abbiamo accettato in modo dogmatico. Basan- doci sullo studio dell’esplosione di stelle lontanissi- me, col gruppo di fisici teorici che coordino siamo arrivati a questa conclusione: l’espansione dell’uni-

verso è in fase di accelerazione e non di rallentamen- to, come ci si sarebbe aspettati per influsso della gra- vità. Per spiegare questa accelerazione il settantacin- que per cento dell’energia dell’universo deve essere composto da qualcosa di strano, una sostanza che nessuno ha mai visto prima.

Come potremo ricominciare?

Come potremo ricominciare, infatti, se l’inizio e la fine dell’opera riaffermano che siamo prigionie- ri di un circolo vizioso? Come potremo disinnesca- re questa nefasta coazione a ripetere? Prologo ed Epilogo si congiungono e delineano la spirale di violenza che sembra attrarci con una forza centri- peta senza lasciare scampo, come in un gorgo dal quale dubitiamo di poter uscire, per poterci salvare infrangendo un automatismo che non comprendia- mo del tutto ma che ci trattiene nostro malgrado.

L’energia oscura che viene presentata in apertu- ra si concretizza in modo più chiaro, banalmente e terribilmente chiaro, nella parte successiva di que- sta prima lunga battuta del protagonista – un mo- nologo –, in cui il personaggio contestualizza la vicenda – o meglio l’antefatto della vicenda – e crea un orizzonte d’attesa angosciante: una scena di sesso e poi il ricordo di questo giovane profes- sore di fisica all’improvviso abbandonato dalla moglie, che si vede precipitare addosso l’intero universo, quell’universo fatto per il 75% di una so- stanza oscura, e che come stordito dagli eventi ac- cetta un posto all’università di Ciudad Juárez, la- scia le due figlie dai nonni come se dovesse torna- re alla sera e se ne va, per sempre.

Ci troviamo di fronte a un personaggio destabi- lizzato, disorientato e capiamo di poterci aspettare

qualunque cosa da lui. La stranezza di quest’uomo viene confermata dalla struttura del monologo, in- terrotto da momenti in cui l’io narrante abbatte la quarta parete e si rivolge al pubblico, come faranno significativamente, verso la fine dell’opera, altri due personaggi: il rettore Juan del Valle, che con- fesserà al pubblico presente in sala – un pubblico ogni volta diverso a ogni nuova rappresentazione – la sua mania, la sua ossessione, la sua perversione, che potrebbe essere condivisa da chi lo sta ascol- tando; e il giornalista Sergio Hernández, che offre un resoconto delle sue indagini sul caso. Un mono- logo che diventa a tratti dialogo, con gli spettatori, con un interlocutore extra-scenico e diverso a ogni replica, che influirà sull’azione drammatica, con la propria tensione, con la propria reazione di fronte a quanto vedrà accadere in scena. L’uso sperimen- tale e suggestivo dell’elemento monologico verrà confermato da un’altra figura, la madre di Antonio Reyes, presunto colpevole dei femminicidi – in re- altà un capro espiatorio –, come si vedrà più oltre. Anche la sintassi di questo flusso di coscienza e il suo articolarsi su piani temporali diversi contribui- sce a produrre un andamento ondivago: il presente e il recupero del passato attraverso il ricordo, il fu- turo che nella prospettiva attuale è già alle spalle del protagonista. Insomma, strutturazione cronolo- gica, linguaggio e stile, oscillare dell’interlocutore (l’io narrante sdoppiato, il dialogo con l’ex-moglie e con l’attuale amante, l’apostrofe all’uditorio) concorrono nel suscitare un senso di destabilizza- zione, che non lascia presagire nulla di buono e concretizza al contempo l’audace, efficace e origi- nale sperimentalismo del drammaturgo.

Ma non è tutto. L’Io narrante, che appare appe- na si alza il sipario e che riconosciamo come il protagonista dell’opera, con le sue batture fornisce anche le indicazioni di scena, è una sorta di dida- scalia viva e parlante. In misura minore, lo stesso ruolo, la stessa funzione verrà svolta nel corso

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