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José Manuel Mora, Corpi perduti, traduzione, note e postfazione (pp. 73-106) a cura di V. Orazi

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corponovecento

collana di teatro contemporaneo

diretta da Alfonso Amendola Pasquale De Cristofaro sezione scrittura drammatica di area ispanica diretta da Paola Ambrosi

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Ho sempre amato molto il teatro, ep-pure non ci vado quasi più. È un vol-tafaccia che insospettisce anche me. Cosa è accaduto? Quando è accaduto? Sono cambiato io o è cambiato il tea-tro? Non lo amo più o lo amo troppo? Roland Barthes

Corpo e Novecento due parole chiave per compren-dere la nostra sfaccettata contemporaneità e il nostro ingresso nel XXI secolo… partendo, però, da una vi-suale decisamente insolita: la drammaturgia (sguar do obliquo, atemporale, complesso, alle volte voluta-mente marginale, selettivo, aristocratico e popolare, attento alla minuzia della forma e al contempo incli-ne a disegnare ampie gestualità espressive e compo-sitive). corponovecento è il “progetto editoriale” del l’omonima “rassegna di teatro, musica, danza e video” nata nel 2001 e diretta da Pasquale De Cristo-faro; la collana della rassegna vuole mantenerne – nella sua dimensione scrittoria – le scelte di gusto, gli attraversamenti generazionali e linguistici, le ten-sioni visionarie e la passione per la ricerca. Moltepli-ci sono gli obiettivi di corponovecento: marcare i territori (inevitabilmente disomogenei) dell’attuale drammaturgia italiana; cogliere gli spazi espressivi più vivi e pulsanti; ascoltare le voci più inquiete e voraci; sottolineare le scritture più attente ed aperte alla diversificazione stilistica. Ma soprattutto valo-rizzare quelle scelte drammaturgiche (tradizionali e/o sperimentali) che sappiano dialogare da un lato con lo stretto impianto letterario e dall’altro verso la necessaria vocazione alla scena… alla rappresenta-zione… al teatro…

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José Manuel Mora Ortiz

Corpi perduti

presentazione di Antonio Rojano traduzione e postfazione di Veronica Orazi

Plectica

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© 2014 by Plectica editrice s.a.s. Via Medaglie d’oro, 32 - 84132 Salerno info@plectica.it

www.plectica.it

Riservati tutti i diritti, anche la traduzione, in Italia e all’estero

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Presentazione

di Antonio Rojano

Il deserto è l’unica cosa che sopravviverà dopo di noi.

Ho conosciuto José Manuel Mora un pomerig-gio di novembre del 2012. Eravamo stati invitati da Giullermo de Heras alla Muestra de Autores Contemporáneos di Alicante per partecipare a una tavola rotonda sul futuro di quella che alcuni defi-niscono ‘drammaturgia emergente’. L’incontro, in un certo senso, è stato singolare. Avevo letto alcu-ne delle sue opere precedenti, proposte poetiche, formalmente audaci e dalla scrittura meticolosa, ma in quel momento – ora posso ammetterlo – ne ignoravo i testi più ambiziosi. José Manuel ed io siamo entrambi andalusi. Lui è nato a Siviglia. Io a un centinario di chilometri di distanza, a Cordo-va. Apparteniamo alla stessa generazione e dicia-mo che la nostra percezione del dicia-mondo si basa su categorie di riferimento molto simili. Durante quell’incontro, mentre pranzavamo e parlavamo di qualunque cosa tranne di teatro, gli ho domandato: “In che modo essere andaluso influisce sulla tua scrittira?”. Appena formulata la domanda, ne ho percepito l’aspetto un po’ ridicolo. Come se la Grande Opera Teatrale Andalusa si potesse para-gonare in qualche modo al Grande Romanzo Americano. Come se si trattasse di un genere a sé,

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una chiesa di cui García Lorca fosse uno degli ar-cangeli. “In alcun modo” mi rispose.

Ammetto di aver letto poco dopo Los cuerpos perdidos e di aver capito la sua risposta. Mora non è un autore che possa essere ricondotto a un luogo segnato su una carta geografica, perché la sua scrittura supera le frontiere. Scrive per il suo tem-po ma anche per il passato e per il futuro. I critici lo definirebbero un autore universale, come quan-do citano un romanzo di Tolstoi o un dramma di Strindberg. All’interno del mondo teatrale, la sua è una strana ambizione, perché non tende a mostrare ciò che si può rappresentare – come avviene di so-lito – ma ciò che è duraturo. Il suo interesse per l’individuo e per i grandi temi erano lì, tra quelle pagine. E io mi sentivo in qualche modo colpevo-le. Erano passati tre anni da quando aveva ricevuto il Premio SGAE di Teatro (2009) e avevo impiega-to troppo a scoprirlo. Oggi, dopo aver riletimpiega-to varie volte l’opera, credo che sarei ingeneroso – ripen-sando al discorso sulle frontiere – se considerassi questo testo soltanto come una delle opere fonda-mentali della drammaturgia spagnola degli inizi del XXI secolo. Credo sia molto più di questo.

Da Poe a Bolaño, figure cui l’autore dell’opera che state per leggere rende omaggio, molti hanno cercato di cogliere nei loro scritti la natura del ma-le. I crimini irrisolti di Ciudad Juárez sono un chiaro esempio di questa oscurità che attanaglia gli uomini. “Perché alcuni corpi godano, altri de-vono scomparire” scrive Mora. L’oscurità è come l’acido che sgorga con le lacrime di un cadavere nel deserto, pronta a corrompere tutto, ad assorbi-re tutto. Come un buco nero. Addentrarsi ne Los

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cuerpos perdidos è come spalancare una finestra e trovarsi di fronte un deserto il cui sole vendicativo e crepuscolare ci acceca. Non si tratta, però, di un deserto qualunque, ma di un deserto in cui sono sepolti centinaia di crimini con i rispettivi dossier della polizia. Un deserto che sopravviverà dopo di noi. Un deserto di silenzio. Non sapremo mai nul-la. O, almeno, nient’altro tranne la visione imma-ginifica dei racconti in cui delle belle giovani so-gnano il diavolo. Questa è stata e sarà sempre la storia più antica del mondo: la lotta feroce e mor-tale, la guerra della luce contro l’oscurità.

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La mente è la sua propria dimora, e in se stessa può fare un Paradiso dell’Inferno, e un Inferno del Paradiso. John Milton, Paradise Lost Disperati come eravamo, avremmo voluto chiedere aiuto ma non c’era un cane che ci potesse dare una mano. Petronio, Satyricon Popolo, nulla è proibito, secondo la mia fede. / Si ama e si beve. / E si guarda il sole quanto si vuole. / E questo dio non vi proibisce nulla. Radovan Karadzic (leader serbo-bosniaco responsabile della pulizia etnica nella ex-Jugoslavia)

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Dolore e memoria

Per alcune donne, Ciudad Juárez è diventata uno dei luoghi più pericolosi del mondo durante gli anni ’90. Una città in cui si era liberi di stupra-re, torturare e uccidere. Una città in cui la polizia copriva gli assassini e incriminava falsi colpevoli, mentre il Governo sembrava chiudere un occhio. Secondo Amnesty International, a Ciudad Juárez il tasso di impunità era tra i più elevati del pianeta in materia di femminicidi. Questa impunità era specialmente vergognosa perché proteggeva colo-ro che flirtavano con le alte sfere o avevano un po-tere d’acquisto tale da potersi permetpo-tere di com-prare qualunque tipo di esperienza sessuale. Un caro amico messicano mi diceva che nel suo paese potevi fare davvero qualunque cosa, se disponevi del denaro sufficiente. Non ho mai potuto fare a meno di pensare che, in qualche modo, le trecento morte di Ciudad Juárez fossero il risultato di que-sta libertà assoluta, comprata a suon di assegni.

Quando ho iniziato a sondare il tema (grazie a una borsa di studio del programma IBERESCENA di supporto alla creazione drammatica del Ministe-rio de Cultura spagnolo) mi sono reso conto che, al di là della complessa analisi dei fattori sociali, eco-nomici e storici che rappresentavano la causa di tanta brutalità, Ciudad Juárez si presentava davanti ai miei occhi come un mondo del tutto sconosciuto

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e questo mi permetteva – come drammaturgo – di lavorare sul rapporto tra l’essere umano e il Male, specie sugli aspetti che la ragione non consente di vedere. Quando ho deciso di scrivere su questo te-ma non ho potuto ignorare un aspetto: fino a che punto è legittimo usare – e quindi manipolare – la barbarie e il dolore altrui come spunto creativo? Al contempo, non volevo scrivere un’opera semplice-mente documentale sull’argomento: di fronte al-l’eloquenza dell’orrore che trasudava dai rapporti di Amnesty International e dalla lucida cronaca di Sergio González Rodríguez contenuta nel libro Huesos en el desierto [Ossa nel deserto], il mio lavoro avrebbe avuto poco da offrire.

Una volta arrivato in Messico, quando mi sono messo a scrivere, mi sono imbattuto in due parole chiave: dolore e memoria. Avevo sempre conside-rato il dolore come un’esperienza personale, inti-ma e non trasmissibile. Al contrario, in Messico ho percepito la memoria (non domandatemi perché) come un’esperienza trasmissibile e collettiva. Così, mi sono riproposto – assumendo il rischio implici-to in un compiimplici-to tanimplici-to pretenzioso – di raccogliere il dolore dell’Altro, un dolore prolungato, sponta-neo, che si impone sempre e cercare di farlo mio e trasformarlo in memoria personale, che invece è breve, artificiale e sempre sul punto di dissolversi, per creare un’opera ispirata alla realtà, sulla barba-rie, sul male, sull’ingiustizia e sulla follia.

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Personaggi

(in ordine di apparizione)

Io

Juan del Valle, rettore dell’Università Gabrialita1, segretaria di Juan del Valle Marcello López, magistrato e docente di storia Maikel, autista di Juan del Valle

Sergio Hernández, giornalista Antonio Reyes, presunto colpevole

Flor Ramírez Navarro2, proprietaria del risto-rante La Flor

Rosa, una ragazza

Silvia Elena, una ragazza la madre di Antonio Reyes Beatriz, maestra

il mio amante il medico legale

la figlia di Maikel3, una ragazzina di dodici anni 1 Suggerisco che la stessa attrice interpreti Gabrielita e

Sil-via Elena.

2 Suggerisco che un attore intepreti il personaggio di Flor

e Maikel.

3 Suggerisco che lo stesso attore interpreti la figlia di

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Uno

Prologo

Io: Il vuoto, quello che tutti noi intendiamo per vuoto, non è vuoto: ha una densità di energia oscura che domina l’universo su larga scala. Questo ci obbligherà a riconsiderare molte del-le del-leggi fisiche che finora abbiamo accettato in modo dogmatico. Basandoci sull’esplosione di stelle lontanissime siamo arrivati a questa con-clusione: l’espansione dell’universo è in fase di accelerazione non di rallentamento, come ci si sarebbe aspettati per influsso della gravità. Per spiegare questa accelerazione il settantacinque per cento dell’energia dell’universo deve essere composto da qualcosa di strano, una sostanza che nessuno ha mai visto prima. Silenzio. Il giorno in cui ho presentato questi risultati ho chiesto a mia moglie di fare l’amore. Mi ha do-mandato se ricordavo il giorno in cui ci erava-mo conosciuti. Le ho detto di sì, che mi ricorda-vo tutto alla perfezione. Poi si è spogliata e … (non so se devo raccontarlo) è salita sul letto appoggiandosi sulle ginocchia e mi ha chiesto di farlo da dietro, di tapparle la bocca con una mano per soffocare le grida e con l’altra pizzi-carle i capezzoli … mi è sembrato tutto così triste. In qualche modo intuivo che lei, la donna che avevo conosciuto dieci anni prima all’uni-versità Complutense di Madrid e con cui avevo

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avuto due figlie, stava per lasciarmi. Ma l’ho fatto lo stesso. L’ho fatto senza parlare. Come mi aveva chiesto. L’ho fatto con tristezza ma anche godendo nel possedere un corpo che sta-va per sparire. Ha avuto tre orgasmi. L’ho ab-bracciata. Mi ha detto: ti amo. E io: sei la cosa più importante che mi sia successa nella vita. E lei: prenditi cura delle bambine. Ana, la picco-la, è molto fragile. E si è messa a piangere. L’ho abbracciata e le ho detto: che ti succede, e lei: me ne vado, domattina uscirò di casa molto presto per non svegliare le bambine e non tor-nerò più. Non sono riuscito ad aprire bocca e tutto ha iniziato ad accelerare. Ho bevuto mez-za bottiglia di whisky e ascoltato non so più quante volte Una furtiva lagrima dell’Elisir d’Amore e sono rimasto per un po’ senza dire nulla, senza fare nulla, calmo, svuotato. E poi mi è caduto tutto addosso: le grandi distanze del l’universo, i milioni di anni luce, la teoria della relatività, la possibile coesistenza di uni-versi paralleli, la costante sull’espansione del-l’uni verso, gli uomini che sono più avanti del loro tempo, la frase che Thomas – il mio attuale compagno – mi ha detto il giorno in cui ci sia-mo conosciuti: le prove teoriche le capisco sempre con la ragione, ma a proposito dell’e-nergia oscura lo stomaco mi dice che qualcosa non quadra, mia moglie, le mie figlie, le mie figlie che nuotano in piscina, le mie figlie con l’accappatoio appena uscite dall’acqua, le mie mani che le asciugano, la mia professione e l’offerta di Thomas di trasferirmi all’università di Ciudad Juárez. Silenzio. All’alba, prima di

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andarsene di casa, mia moglie mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: non dimenticarti di svegliare le bam bine, rimani un po’ a letto con loro, perché non si accorgano della mia assen-za, smetti di bere, fatti una doccia e non dimen-ticare di portarle a scuola. Prima di svegliarle, ho chiamato Thomas e gli ho detto che accetta-vo il posto. Silenzio. Vi chiederete perché vi racconto tutto questo invece di lasciare che gli attori interpretino la loro parte. Per essere sin-cero, devo ammettere che non lo so …, ma lo stomaco mi dice che tutto questo ha a che vede-re con qualcosa di strano …, qualcosa che nes-suno ha mai visto prima …, con un’energia oscura che farà precipitare le nostre azioni in modo convulso e irrazionale …, almeno questo pensavo mentre svegliavo le mie figlie, avvolto dal calore delle lenzuola mentre calmavo Ana, la minore, che aveva avuto un incubo. Silenzio. Due settimane più tardi, dopo averle lasciate dai nonni e averle salutate come se dovessi ri-vederle la sera stessa, il rettore dell’università di Ciudad Juárez, Juan del Valle Martínez, mi riceve nel suo studio, in un bell’edificio colo-niale. Dice:

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Due

L’albero senza nome dai fiori viola

Juan del Valle: Gabrielita. Io: E Gabrielita:

Gabrielita: Eccomi, mi dica. Juan del Valle: Dell’acqua.

Io: E Gabrielita porta due bicchieri d’acqua. Il ret-tore Juan del Valle mi mostra orgoglioso la sua collezione di edizioni del Chisciotte e mi invita a conoscere la città: il plastico di uno scenografo manierista sulle pieghe di un sesso femminile. Juan del Valle: Ciudad Juárez.

Gabrielita: Silenzio.

Io: Saliamo sulla torre che sovrasta la città dal punto più alto del mercato …, visitiamo i mura-les del Municipio …, ritratti di bambini morti vestiti da angeli e donne indigene col volto co-lor seppia accompagnate dai mariti … e mi of-fre un choco-milk.

Juan del Valle: Non hai mai assaggiato un cho-co-milk? Non puoi andartene dal Messico sen-za assaggiarlo.

Io: Questa è l’immagine: io e il rettore che cammi-niamo per le strade lastricate di Ciudad Juárez. Io col mio chico-milk mentre il rettore saluta le persone che incrociamo.

Juan del Valle: Vi presento il mio amico spa-gnolo. Docente universitario. È venuto dalla madrepatria per insegnare ai nostri indigeni.

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Io: Il rettore Juan del Valle mi invita a pranzo al ristorante La Flor gestito dalla signora Flor Ramírez Navarro. Il rettore Juan del Valle dice: Juan del Valle: Gabrielita, di’ a Maikel di

pas-sare a prenderci tra cinque minuti.

Io: Suona il clacson. Scendiamo. All’ingresso in-contriamo Marcello López, un tipo tracagnotto dai tratti indigeni, magistrato e docente di Sto-ria e Antropologia all’università di Ciudad Juá-rez. Il rettore Juan del Valle dice:

Juan del Valle: Ti diamo un passaggio. Dove vai?

Marcello López: A prendere mia figlia a scuola. Juan del Valle: Dai, gli diamo un passaggio. Io: Maikel, l’autista, non guarda nessuno dei

pre-senti. Il magistrato al rettore:

Marcello López: Si vede che l’hai graziato, que-sto brutto bastardo. Guarda come cammina con le gambe aperte, questo figlio di puttana! Juan del Valle: Sì, l’ho graziato.

Io: Saliamo in macchina.

Juan del Valle: Perché è bagnato, il sedile? Marcello López: Non hai ancora detto a questo

bastardo che il preservativo non bisogna to-glierselo fino alla fine?

Juan del Valle: Questi non hanno ancora capito quanto sono fortunati!

Marcello López: Guarda che potresti andare a lastricare le strade!

Io: Maikel va avanti, senza staccare gli occhi dal volante.

Juan del Valle: Passiamo prima a scuola e la-sciamo il professore e poi andiamo a La Flor a far conoscere al nostro illustrissimo spagnolo la

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cucina messicana. Come si chiama quell’albero coi fiori viola?

Io: Maikel continua a guardare il volante.

Juan del Valle: Allora, come si chiama l’albero coi fiori viola?

Io: Maikel continua a tenere gli occhi fissi sul vo-lante.

Juan del Valle: Ti ho chiesto se sai come si chia-ma quell’albero coi fiori viola!

Io: Il rettore lo colpisce sul collo. Arriviamo alla scuola. Il magistrato scende e mi dice:

Marcello López: Molto piacere. A sua disposi-zione e a disposidisposi-zione della madrepatria. Io: Proseguiamo. Deserto. Cactus. Venti minuti sul

sedile posteriore di una Pilgrim nera con i vetri dei finestrini oscurati. Una vecchia radio tra-smette La Llorona1. Juan del Valle fa cenno a Maikel di lasciare la strada principale. I finestri-ni si alzano. Comincio a sudare. Cerco di inta-1 La Llorona è una canzone popolare di tema amoroso

(in-terpretata in modo sublime da Chavela Vargas), in seguito adattata nella Llorona de los estudiantes, canto di protesta contro la guerra. Rimanda a una figura immaginaria, protago-nista di una leggenda messicana: all’epoca della conquista un’indigena si lega a un hidalgo spagnolo e dall’unione na-scono tre figli. Quando la donna scopre che l’amante tornerà in Spagna per sposare una dama del suo rango, in preda alla disperazione, affoga i tre figli. Resasi conto di ciò che ha fat-to, muore di dolore. Da allora il suo fantasma vaga di notte per le strade di Città del Messico, piangendo e invocando i figli assassinati. Alcune versioni della leggenda dicono che, giunta alla porta del Paradiso, la Llorona viene invitata a ri-presentarsi coi tre figli uccisi; nell’impossibilità di ritrovarne i corpi, il fantasma rapisce i bambini che incontra nottetempo per presentarsi con loro in Paradiso nella speranza di poter entrare.

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volare una conversazione banale. Un apprezza-mento sulla bellezza del paesaggio arido che contrasta con il colore della città. Mi tremano le mani. So cosa succederà: l’orrore diventa reale come i fiori viola degli alberi che Maikel non conosce. Juan del Valle dice:

Juan del Valle: Sabato non sto mai a casa. Se mia figlia mi dice che vuole pranzare su una spiaggia di Michoacán, prendiamo l’auto e via, a Micho-acán. Quanto costa il biglietto aereo per la Spa-gna? Mi piacerebbe tornarci e mangiare i cala-mari nella Plaza Mayor di Madrid. Sarebbe bello. Io: Un cane morto si sta putrefacendo sull’asfalto.

All’orizzonte si intravede solo una sottile pelli-cola di polvere sul più bel cielo azzurro che ab-bia visto in vita mia. Maikel ferma l’auto. Si guardano. L’autista si spoglia, si stende sulla sabbia del deserto, supino. Juan del Valle mi guarda negli occhi e dice:

Juan del Valle: Dai! Fa’ quello che vuoi. Maikel: Non essere vigliacco, dai, colpiscimi;

pri-ma finisce tutto questo e meglio è.

Io: Il primo mi costa. Il secondo un po’ meno. Il terzo va da sé. E da quel momento sono coin-volto. Cerco. Agevolo. Inganno. Passo informa-zioni. Taccio. Ricevo. Dò. Occulto. Chiudo un occhio. Faccio in modo che altri chiudano un occhio. Gioco. Collaboro. Perché alcuni corpi godano altri devono sparire.

Juan del Valle: Quando sarà pronta tua figlia? Io: Gli dice. L’autista si riveste, come se non fosse

successo nulla.

Juan del Valle: Cosa ne sarebbe stato di noi sen-za la conquista!

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Io: Pranziamo a La Flor sotto il cielo azzurro. Il viaggio di ritorno è insulso rispetto all’andata. Il rettore Juan del Valle a Maikel:

Juan del Valle: Lascia il nostro ospite spagnolo in hotel.

Io: Mentre rientriamo in hotel chiedo a Maikel di farsi baciare. Mi permetti di baciarti?

Maikel: Prego?

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Tre

Barzellette

1/ Cosa hanno in comune le donne e le formiche? Se gli chiudi il buco impazziscono.

2/ Cosa fa una donna con un foglio bianco? Recla-ma i suoi diritti.

3/ Cosa fa una donna dopo aver fatto l’amore? Di-sturba.

4/ Che differenza c’è tra una donna e una bambi-na? La bambina, la porti a letto e le racconti una favola. Alla donna racconti una favola e te la porti a letto.

5/ Perché le donne hanno quattro neuroni? Uno per ogni fornello della cucina.

6/ Com’è la donna perfetta? Alta mezzo metro, con le orecchie grandi, la testa piatta, sdentata e bruttissima. Perché? Alta mezzo metro per arri-varti giusto alla vita, con le orecchie grandi per maneggiarla con facilità, con la testa piatta per appoggiarci la birra, sdentata per non farti male al cazzo e bruttissima perché nessun figlio di puttana te la porti via.

7/ Datemi una definizione di donna: un insieme di cellule organizzate attorno a una vagina. 8/ In quante parti è diviso il cervello di una donna?

Dipende da quanto forte la picchi!

9/ Perché le donne non possono contare fino a set-tanta? Perché quando arrivano a sessantanove hanno già la bocca piena.

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10/ Quanto ci mette una donna a morire se le spa-rano alla testa? Sette o otto ore, dipende da quanto ci mette il proiettile a trovare il cervello.

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Quattro

Il cuore rivelatore

1

Io: Il giornalista Sergio Hernández e Antonio Reyes nel carcere di Ciudad Juárez.

Sergio Hernández: Il presunto colpevole dei fem-minicidi, Antonio Reyes, in conferenza stampa. Continua a dichiararsi innocente e insiste che farà i nomi dei veri colpevoli del l’omicidio di più di quattrocento donne a Ciu dad Juárez. Il detenuto si fa aspettare quasi un quarto d’ora in un ufficio vicino alla direzione del carcere, af-follato di giornalisti, operatori e fotografi. Alla fine arriva un uomo alto un metro e novanta con lo sguardo da rapace. Nelle mani da gigante ha un quaderno a spirale, con le pagine gialle, e dichiara che prima di rivelare i nomi racconterà ai presenti una storia.

Antonio Reyes: C’era una volta un uomo che po-teva sentire tutto quello che si può sentire in cielo e in terra. Si era innamorato dello sguardo di una bambina dei bassifondi della città. Del colore dei suoi occhi. Un celeste che gelava il sangue. Un giorno non lo sopportò più e decise di ucciderla e liberarsi per sempre di quello sguardo. Tutte le notti, attorno a mezzanotte, quando la città dormiva, apriva la porta della stanza con la massima cautela, per non svegliar-1 Cfr. nota 5 della Postfazione.

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la, e puntava il fascio di luce di una torcia con-tro i suoi occhi celesti. L’uomo che sentiva tutto quello che si poteva sentire continuò così per otto giorni e sette notti. L’ottava notte all’im-provviso sentì la bambina muoversi nel letto, come se si fosse spaventata … la stanza era di-ventata un buco nero … e l’uomo sapeva che una volta entrato da quella porta le leggi che determinavano le sue azioni sarebbero cambia-te. Stava per accendere la torcia quando la bam-bina si sedette sul letto e gridò: chi c’è? L’uomo resta immobile.

Per un’ora intera non muove neanche un mu-scolo.

La bambina è ancora seduta sul letto.

L’uomo accende di nuovo la torcia e la punta contro i suoi occhi celesti. In quel momento perce-pisce un suono ovattato, come un orologio avvolto nel cotone.

È il battito del cuore della bambina. Che accelera sempre più, forsennato.

Il cuore della bambina sembra sul punto di scoppiare.

L’uomo agisce come previsto.

Per alcuni minuti il cuore continua a battere con un rumore soffocato.

Il celeste degli occhi si diluisce. La bambina muore.

Un tenue ronzio di ape.

Il ronzio diventa sempre più forte.

E ora inizia la storia vera: Ciudad Juárez na-sconde uno dei più grandi segreti del mondo. Nes-suna delle persone che conosce la verità però – e la

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verità è una sola – potrà pronunciarla ad alta voce e rimanere incolume. La cosa peggiore è che quan-do uno è coinvolto e vede tutto quello che non si può vedere si eccita e quando uno si è eccitato non può più fare marcia indietro. Cosa si può fare, al-lora? Cosa può fare uno quando ha già visto tutto quello che non si può vedere?

Sergio: Un giornalista lo interrompe e gli chiede di fare i nomi.

Antonio: Il rettore Juan del Valle e il magistrato Marcello López. Dietro di loro ci sono dei pezzi grossi.

Sergio: Alcuni giornalisti si guardano delusi. Altri scherzano. Le mani di Antonio tradiscono la sua ansia. Si dichiara di nuovo innocente. La-scia i giornalisti. Lo terrorizza l’idea di passare il resto della vita nel carcere di Ciudad Juárez a guardare il deserto messicano.

Antonio: Il mio mondo è il deserto e tutti dobbia-mo abituarci a questa idea: il deserto è l’unica cosa che sopravviverà dopo di noi.

Sergio: Un leggero ronzio di api. Io: Buio.

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Cinque

La signora Flor Ramírez Navarro

Io: La signora Flor Ramírez Navarro nel ristorante La Flor. Scritto a caratteri rossi molto grandi si legge “Calle Miguel Hidalgo n. 29, quartiere La Sauceda. Ciudad Juárez”. E in basso, a caratteri piccolissimi: “Servizio per eventi speciali”. Flor: Questo è il biglietto da visita che dò al

si-gnore spagnolo arrivato assieme al rettore Juan del Valle. Al vostro servizio ripeto, mentre mi allontano sulla sedia a rotelle, spingendo con forza – più che con forza, con coraggio – sulle ruote che mi accompagnano da quando Dio ha voluto che mi amputassero le gambe; e così mi allontano senza dare mai le spalle, pensando ai miei passi con una nostalgia bruciante, all’ele-ganza con cui le mie gambe camminavano e mi sostenevano; e co sì, senza gambe, con una pro-tesi mentre risparmio per comprare l’altra, mi allontano dopo avergli augurato un felice sog-giorno a Ciudad Juárez e buon pranzo. Una bel-la città, vero signore? Il rettore non mi toglie gli occhi di dosso, fissa lo sguardo qui, tra i se-ni, e lo sento scendere, umido, appiccicoso, co-me gli avanzi di fagioli che mia figlia Rosa to-glie ogni giorno, alla sera, dalle padelle e dalle pentole. Il rettore dice qualcosa al suo ospite, che sembra pallido, stordito, come se ancora non si fosse abituato alle leggi di questo angolo

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del mondo, mentre io mi allontano lentamente … Ma un attimo prima di girarmi e di scompa-rire … mi faccio coraggio, mi spuntano due gambe e proprio lì, nel ristorante La Flor, sulla terrazza del mio ristorante, sferzata dal vento del deserto, circondata da messicani che marci-scono ma che fanno anche quello – marcire – con amore, torno indietro e gli urlo in faccia: fi-gli di puttana, maiali, codardi, fottetevi vostra madre o vostra sorella o vostra figlia, fottetevela fino a farla a pezzi se avete le palle, froci, siete tutti froci, perché come cazzo si spiega che in un paese pieno di maschi ce l’abbiano messo in cu-lo tante volte, froci, fottetevi tra di voi e rompe-tevi il culo, succhiatevi il cazzo tra di voi e av-velenatevi. Ogni volta che mia figlia – Rosa – esce, mi chiudo in bagno e vomito, vomito ogni giorno da quando la mia Rosa esce con quei ragazzini, sì, invece di dormire vomito, a volte nel water, a volte fuori, e questa paura che mi divora da dentro, vi esalta, non è così? La no-stra paura vi eccita, violentate i nostri buchi uno per uno, ci tagliate i capezzoli con le tena-glie, ci date centinaia di coltellate, ci rompete il collo come se fossimo conigli appena nati, ci fate a pezzi, ci chiudete in un sacco della spaz-zatura e ci buttate nel deserto! Un giorno io stessa – ah! se avessi il coraggio di farlo, Dio mio! – vi infilerò una mano nel culo e vi strap-però le budella – come quando pulisco gli agnelli che sacrifico ogni anno, con la stessa decisione e lo stesso amore, lo stesso amore con cui tutti noi messicani marciamo in silenzio. Si-lenzio. Questo è quello che avrei voluto dire,

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ma non l’ho fatto, è successo solo nella mia mente. Comandi, maestro? Sì, lo tratterò bene, come si addice a un suo ospite. Sì, lo includo nel prezzo. No, non la deluderò. I clienti come lei non vanno delusi. L’aspetto nel solito posto. Dietro al ristorante. Nel capanno.

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Sei

A Las Mañanitas

Io: Rosa e Silvia Elena a Las Mañanitas.

Rosa: Appena mi vede mi invita a ballare. Mi pun-ta appena entro, con un’aria che dice “ti invito a ballare”.

Silvia Elena: E tu balli? Rosa: Certo, cosa dovevo fare? Silvia Elena: Com’è?

Rosa: Un bel tipo. Ti piacerebbe. Alto. Atletico. Occhi chiari. Parla inglese e si intende di com-puter e di deserti.

Silvia Elena: E perché ti ha notata?

Rosa: Dice che ho i capelli più belli del mondo. Gli ricordano la criniera di un cavallo che aveva da piccolo, nel suo ranch.

Silvia Elena: Ha un ranch?

Rosa: No, non uno solo. Ne ha almeno tre o quattro. Silvia Elena: E tu di cosa gli hai parlato? Rosa: Di me.

Silvia Elena: Ma cosa gli hai detto?

Rosa: Che anch’io me ne intendo di computer. Che ora lavoro nel ristorante di mia madre ma è una cosa provvisoria, perché mi piace fare la parrucchiera e appena metto da parte un po’ di soldi apro un negozio in centro, a Ciudad Juárez, beh se non proprio in centro, in periferia … E oltre a tagliare i capelli farò anche la puli-zia del viso, inclusa nel prezzo, e quando la

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co-sa co-sarà avviata voglio spoco-sarmi, mettere su fa-miglia, ma le mie figlie non dovranno andare a lavorare a quattordici anni e andranno in una buona scuola, avrò una segretaria – perché arri-verà il momento in cui non potrò più mandare avanti il negozio di parrucchiera da sola e avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti e che si inten-da anche di computer, ovviamente, ti piacereb-be essere la mia segretaria? –, e vivremo in una casa con quattro camere da letto: una per le bambine – nel caso ne avessimo due – una per il bambino, un’altra per noi con un letto matrimo-niale grande e un quadro della Vergine di Gua-dalupe a grandezza naturale sopra la testiera del letto e un’altra stanza per mia madre, perché – certo – dovrò occuparmi di lei … Per questo gli ho spiegato che la casa dovrà essere su un solo piano …, perché mia madre possa spostar-si facilmente, oppure, se la casa dovesse essere su due piani, allora bisognerà mettere una di quelle scale meccaniche che hanno le invalide ricche … Come si chiama quel film con Katha-rine Hepburn in cui lei è molto ricca e ha una di quelle scale?

Silvia Elena: Io di vecchi film ne ho visti pochi. Rosa: Ma se lo fanno spesso in televisione …,

qualcosa sull’estate. Silvia Elena: Laguna blu! Rosa: Ma che c’entra con l’estate!

Silvia Elena: In quel film è sempre estate. Rosa: No, quello che dico io è un classico. Silvia Elena: Non mi viene in mente.

Rosa: Beh, se la casa è su due piani deve esserci una scala meccanica, lo sai che la situazione di

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mia madre peggiorerà, non c’è rimedio. Se mo-risse sarebbe un sollievo per me!

Silvia Elena: Ma cosa dici! Rosa: La verità.

Silvia Elena: E come sei rimasta con quel ra-gazzo?

Rosa: Quale ragazzo?

Silvia Elena: Quello che ha tre o quattro ranch. Rosa: Beh, dopo che abbiamo ballato mi ha

ac-compagnata a casa in macchina. A quel punto ha cercato di farlo, ma niente da fare. Gli ho detto che avevo bisogno di tempo e che era me-glio andarci piano invece di fare tutto subito. Perché poi non è più bello. Allora mi ha portata a casa e mi ha dato un bacio sulle labbra. Silvia Elena: Sulle labbra?

Rosa: Non proprio sulle labbra. Silvia Elena: E dove allora? Rosa: Qui, tra le labbra e la guancia. Silvia Elena: Con la lingua? Rosa: Solo con la punta.

Silvia Elena: Cosa hai provato? Rosa: Solletico.

Silvia Elena: Dove? Rosa: Qui.

Silvia Elena: E non hai avuto paura? Rosa: Paura? Perché dovevo avere paura? Silvia Elena: Non lo conosci neanche un po’. Rosa: Beh, piano piano lo conoscerò. E poi

sem-bra un sem-bravo ragazzo, mi paga da bere e vuole portarmi al cinema.

Silvia Elena: Hai ragione. Quando lo rivedi? Rosa: Eh, non è facile. Non è facile perché in

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Silvia Elena: Anche lui è invalido?

Rosa: No, no, non è invalido per niente. È in pri-gione. Ma è solo una cosa momentanea. Non è nulla di grave. Dice che ha picchiato la ex-moglie quando l’ha vista parlare con un altro.

Silvia Elena: Allora è sposato?

Rosa: Sì, è questo il problema. Ma dice che quan-do uscirà vuole cambiare vita e che il matrimo-nio può essere annullato con non so che docu-mento della Chiesa … tutti si meritano una se-conda possibilità, no? E io, quando mi sposo, voglio vestirmi di bianco! Per ora possiamo solo scriverci delle lettere.

Silvia Elena: Posso leggerle?

Rosa: No. Mi ha chiesto di bruciarle dopo averle lette. Non vuole che nessuno sappia di noi. Ah, mi è venuto in mente.

Silvia Elena: Cosa?

Rosa: Il film con Katharine Hepburn. Improvvisa-mente l’estate scorsa. A mia madre piace tantis-simo, ovviamente, si identifica con la protago-nista.

Silvia Elena: Magari ce l’hanno al videonoleg-gio …

Rosa: È un film molto bello e molto triste. La pro-tagonista è innamorata di un ragazzo mezzo frocio e molto più giovane di lei e non riesce a toglierselo dalla testa. È molto più complicato di come te lo racconto, ma più o meno è così: lei non riesce a dimenticarlo.

Silvia Elena: E perché è invalida?

Rosa: E che ne so … avrà avuto un incidente quan-do era ubriaca. Questa parte non me la ricorquan-do

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molto bene. Nei film che sono un classico la gente è triste, beve e ha un incidente.

Silvia Elena: Come Las Mañanitas1. Rosa: È vero, come Las Mañanitas. Silvia Elena: La gente è triste. Rosa: La gente beve.

Silvia Elena: E poi c’è sempre qualche incidente. Io: Buio.

1 Film del 1948, diretto dal regista Juan Bustillo Oro e

in-terpretato da Esther Fernández e Antonio Badu. La trama con-siste in un intreccio amoroso, ambientanto in un rancho mes-sicano.

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Sette

Il deserto o il corpo di Rosa

Io: Io e Antonio Reyes nel parlatorio del carcere di Ciudad Juárez, che dà sul deserto; Rosa, nella sua stanza. Così?

Antonio Reyes: Con quella calligrafia no, non la capisce. Una cosa più romantica, come nelle partecipazioni di nozze.

Io: Così?

Antonio Reyes: Con le lettere un po’ più allunga-te e sottili.

Io: Cosa vuoi raccontarle in questa lettera? Antonio Reyes: Voglio parlarle del deserto e dei

miei progetti per il futuro. Io ti dò le idee e poi tu le scrivi bene e non dimenticarti di ricordarle che nessun altro può leggere quello che le scri-vo. E che dopo aver letto la lettera deve bruciar-la. Ecco:

Rosa: Il deserto, Rosa, mi ricorda il tuo corpo. Il deserto, Rosa, anche se è vivo, sembra esistere al margine di tutto. La pelle di entrambi è dora-ta e si stanca, Rosa, la pelle del deserto si stan-ca, si stanca come il tuo corpo quando facciamo l’amore per ore. Quello che vedo dalla finestra, Rosa, è il deserto. Il mio mondo è il deserto e tutti dobbiamo abituarci a questa idea: il deser-to è l’unica cosa che sopravviverà dopo di noi. Io: Cosa vuoi dire con il deserto è l’unica cosa che

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Antonio Reyes: Rosa lo capirà e tu scrivi, ché la visita non durerà molto. Continuo:

Rosa: Ecco, è uguale. Il mondo funziona allo stes-so modo. Se piove le piante fioriscono. Se non piove si seccano. Gli insetti sono divorati dalle lucertole e le lucertole dagli uccelli. Tutti alla fine sono destinati a morire. E quando sono morti si seccano. Alla fine resta solo il deserto. Il deserto è l’unica cosa che vive davvero. E quando ti resta solo il deserto, ti immagini ogni tipo di creatura strana che spunta da lì, pur di sentire che c’è qualcuno al mondo che ti ama davvero e si preoccupa per te. Quando ti ho co-nosciuta, Rosa, ho scambiato il deserto con la tua pelle; non ci crederai, ma da allora, quando guardo dalla finestra, quello che vedo, Rosa, è la tua pelle.

Antonio Reyes: Scrivi in fretta, prima che me lo dimentichi:

Rosa: Senti, Rosa, io non ho nulla a che fare con tutto quello che sta succedendo, io voglio solo farti felice e invecchiare con te e portarti in un posto che conosco, pieno di palme, di cactus e di poltrone comodissime, dove la gente beve mojito e sembra felice, mentre i figli giocano in giardino. Nessuno, Rosa, può fermare quello che sta succedendo, nessuno, Rosa; per questo ti chiedo di stare sempre con tua madre, di usci-re solo quando posso venirti a prendere in mac-china e restare nascosta per non farti intrappo-lare in quello che sta succedendo.

Antonio Reyes: Perché non scrivi? Io: Non continuare.

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Io: Non dire cose di cui non dovresti parlare. Antonio Reyes: Parlo del futuro, dei miei

proget-ti per il futuro.

Io: È meglio che non sappia nulla. Antonio Reyes: Scrivi.

Io: Finirai per coinvolgerla.

Antonio Reyes: Rosa, sono innocente. Io: Nessuno è innocente.

Antonio Reyes: Rosa, mi manchi.

Io: Nemmeno io, che scrivo le tue parole, sono in-nocente.

Antonio Reyes: Rosa, ti amo.

Io: L’amore non ha niente a che fare con quello che sta succedendo.

Antonio Reyes: Scrivi! Io: Ti posso aiutare.

Antonio Reyes: Come? Tu sei nel giro. Cerchi. Agevoli. Inganni. Passi informazioni. Taci. Ri-cevi. Dai. Nascondi. Chiudi un occhio. Fai in modo che altri chiudano un occhio. E una volta che sei entrato nel giro sei coinvolto. Giochi. Contribuisci. Perché i vostri corpi godano, altri corpi devono sparire. Come puoi aiutarmi? Io: Posso salvare Rosa.

Antonio Reyes: Rosa? Io: Posso tenerla al sicuro. Antonio Reyes: Al sicuro?

Io: Sappiamo tutti e due come funziona, no? Antonio Reyes: Lascia questo paese, torna in

Spagna e da lì diffondi la lista nera. Dichiara la mia innocenza. Avvisa chi devi avvisare. Muovi cielo e terra. Salvami.

Io: Ci siamo tutti, in qualche modo, nella lista nera.

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Antonio Reyes: Allora che ognuno si assuma la sua parte di colpa.

Io: Mi ucciderebbero.

Antonio Reyes: Una volta fuori sarà tutto diver-so. Ti proteggeranno.

Io: Chi?

Antonio Reyes: Il governo.

Io: Chi comanda non protegge mai nessuno. Antonio Reyes: Scrivi.

Io: Farò quello che posso. Antonio Reyes: Vado avanti:

Rosa: Rosa, guardare il deserto, ricordare il tuo corpo stanco dopo che abbiamo fatto l’amore per ore, la pelle del deserto, Rosa, la tua pelle, mi protegge.

Antonio Reyes: Punto. Io: Buio.

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Otto

Le mani che hanno fatto nascere

Antonio Reyes

Io: La madre di Antonio Reyes nell’ufficio del ma-gistrato Marcello López.

La madre: Guardi le mie mani, signor giudice, le guardi, sono le mani che hanno fatto nascere Antonio Reyes, le prime mani che lo hanno pre-so in braccio, ancora sporco di sangue e di pla-centa, mentre piangeva per la prima volta … io stessa l’ho lavato nel catino con l’acqua calda che avevano preparato alcune compagne della fabbrica di bambole di carta; la fabbrica dove ho passato metà della vita a lavorare, signor giudice, perché i figli dei turisti potessero gio-care con bambole col viso da indigena … No-nostante tutto, però, anche noi abbiamo passato dei bei momenti mentre cucivamo occhi e di-pingevamo bocche … quanto abbiamo riso con Juana! Poveretta, ha un cancro che la sta divo-rando! È così, non siamo niente, signor giudice, quando una se la passa bene le capita qualcosa di brutto e niente da fare … Beh, proprio quella di cui le sto parlando ha preparato il catino dove ho lavato per la prima volta Antonio Reyes ap-pena nato, non so quanto ci ho messo … non deve essere durato molto, ma a me è sembrato un’eternità, signor giudice; lo stavo lavando che era ancora legato alla mia pancia col cordone ombelicale, non le sembra strano, signor

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giudi-ce, che tutti gli esseri umani vengano al mondo già legati a qualcun altro? E mentre siamo rima-sti legati è successa una cosa molto strana …, di giorno, in piena luce …, sotto gli occhi di tutte le compagne … Cristina mi asciugava il sudore dalla fronte … Cristina, che ora è in una casa di cura con un Alzheimer che fa impazzire i figli, perché non c’è nessuno che riesca a tenerla a bada … come sono gli esseri umani, signor giu-dice, vengono al mondo legati e a una certa età devono legarli di nuovo …, chi si occuperà di tutti quelli che non servono più, signor giudice? … È in quel momento che è successo tutto: nel poco tempo – un’eternità per me – che sono ri-masta legata a lui, sono entrata nel suo corpo e da allora, signor giudice, vedo i suoi sogni, co-nosco i suoi pensieri più vergognosi, sono in ogni fremito, in ogni spasimo della sua anima, ascolto la sua voce interiore, i suoi impulsi irra-zionali, le sue emozioni inesprimibili, e tutto questo lo faccio, signor giudice, senza fatica, spinta solo dall’affetto e dal l’amore che provo per mio figlio. Silenzio. Guardi le mie mani, si-gnor giudice, le guardi, crede che queste mani abbiano potuto far nascere un mostro come quello che state cercando? Qualcuno dovrà as-sumersi la responsabilità di tutto questo, non è così? Quanto mi darete per usare mio figlio co-me capro espiatorio? Lei crede davvero – guar-di le mie mani – che mio figlio abbia potuto fare tutto questo? Silenzio. Signor giudice, non ha notato nulla di strano nella mia mano destra? Mi mancano tre dita. Centomila pesos per ogni dito. Quanto pagherete per un figlio? Quanto

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vale un figlio, signor giudice? Quanto vale un figlio che si faccia carico di quattrocento donne morte e più di mille donne scomparse? Tutto quello che vede Antonio Reyes io lo vedo in an-ticipo, prima che qualcosa succeda io ne ho avuto il presentimento. La settimana prossima uccideranno altre due ragazze, i cadaveri saran-no ritrovati nella discarica El Chile e nessusaran-no farà nulla. Silenzio. Signor giudice, lei ha stu-diato molto per arrivare dove è arrivato, imma-gino … ma i libri non rendono più giusti, oppu-re sì? E se è così, signor giudice, immagino che lei sarà capace di mettere un freno a tutto que-sto, no? Per metterci un freno però bisogna es-serne fuori, perché se uno è coinvolto, si eccita, e quando uno si è eccitato non può più fare mar-cia indietro … Lei però può vedere tutto quello che succede con gli occhi di chi osserva e non crede a quello che vede … non è così, signor giudice? Lei: la misura, la giustizia, la bilan-cia, l’ordine, il progresso, la ragione, la razio-nalità, deve fare qualcosa. Faccia qualcosa per mio figlio. Faccia qualcosa per le vecchie mani – guardi le mie mani, signor giudice – che per un momento, che per me è durato un’eternità, hanno tenuto in braccio il corpo su cui avete ro-vesciato i vostri mostri. Si calmi, signor giudi-ce, guardi le mie mani e si calmi. Non crede che con queste mani sarei potuta diventare come minimo pianista?

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Nove

Il magistrato Marcello López

Marcello López: A volte – soprattutto nei giorni liberi – ho voglia di uscire a passeggiare con la maestra, lo sa signora? di farmi vedere in pub-blico con lei, di andare a mangiare in un risto-rante del centro, dove di sicuro incontrerei dei conoscenti a cui presenterei la maestra: “Questa è la mia fidanzata, Beatriz, maestra elementa-re”. Dopo aver mangiato magari potremmo an-dare nel suo appartamento pieno di libri a fare l’amore e poi un pisolino e poi al cinema e poi a prendere qualcosa, un gelato o una bibita o una birra ghiacciata. La felicità perfetta, signo-ra; ma pensi: con tutto quello che ci sta succe-dendo, io vado a innamorarmi … Beatriz però non vuole neanche sentir parlare di avere una relazione. Vedersi un volta a settimana è suffi-ciente. È tutto. Mentre riposiamo nudi nella sua stanza piena di libri mi confessa che a volte so-gna di andarsene da Ciudad Juárez e mollare tutto in modo radicale. Quando pronuncia la parola radicale, le brillano gli occhi.

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Dieci

Il sogno di Beatriz

Io: Nella camera da letto della maestra, lei è tra le braccia del magistrato.

Beatriz: Sogno di fare l’amore in mille posizioni diverse, fino a crollare addormentati e poi mol-lare tutto in modo radicale.

Marcello López: Tu non devi mollare nulla per-ché mi piaci come sei.

Beatriz: Ti piaccio?

Marcello López: Moltissimo.

Beatriz: È la prima volta che faccio l’amore con un uomo.

Marcello López: È la prima volta? Beatriz: Sì.

Marcello López: Figurati!

Beatriz: Sul serio, è la prima volta. Marcello López: Sono stato bravo? Beatriz: Questo non te lo saprei dire. Marcello López: Perché?

Beatriz: Beh, perché non ho provato con altri. Marcello López: Perché proprio io?

Beatriz: Non avevo molto tempo. Marcello López: Come?

Beatriz: Non esco di solito.

Marcello López: E cosa facevi allora a Las Mañanitas?

Beatriz: Volevo fare sesso con un uomo prima di mollare tutto in modo radicale.

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Marcello López: Per andare dove?

Beatriz: Dove possa esserci una nuova vita senza Messico e senza messicani.

Marcello López: E se qualcuno ti proponesse di andare a vivere con lui?

Beatriz: Fuori dal Messico e senza messicani? Marcello López: Con me e con mia figlia. Ho

bisogno di una donna e lei di una madre, sai? A volte non so come trattarla, non so come gioca-re con lei, che storie raccontarle. È proprio in quei momenti che penso che certe cose non sa-prò mai spiegargliele. Non so … pensavo … la bambina è educata … passa troppo tempo da sola … e a me piacerebbe mettere su famiglia di nuovo.

Beatriz: Non mi conosci neanche un po’. Marcello López: Però sei buona. Beatriz: Come lo sai?

Marcello López: Hai molti libri e la tua stanza è ordinata.

Beatriz: Non lo sopporto più. Marcello López: Cosa? Beatriz: Questo.

Marcello López: La tua stanza? Beatriz:Tutto.

Marcello López: Vivere a Ciudad Juárez? Beatriz: Morire a Ciudad Juárez.

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Undici

Io (I)

Io: Oggi mi alzo molto presto. Saranno le 4 del mattino. Non posso dormire. Cerco di non far rumore. O quel minimo di rumore che fai quan-do ti alzi. Scivolo maldestramente tra le lenzuo-la. Le lenzuola che hanno un odore agrodolce. Un intenso odore di seme sprecato. Tutto quello che non ha un fine marcisce tra le lenzuola di due persone che si amano. Il mio amante dorme raggomitolato. Guardo il cielo attraverso i vetri. Manca ancora un po’ prima dell’alba. Mi siedo sul bordo del letto. Stiro la punta delle dita dei piedi e penso: “la prossima settimana, due”. Preparo il caffè. Guardo le sei rose arancioni che il mio amante compra ogni lunedì. Bevo due tazze di caffè amaro. Inspiro a fondo. Sento un forte dolore al plesso solare mentre ripasso mentalmente tutti i dettagli del piano stabilito.

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Dodici

Stelle

Io: Il mio amante e Silvia Elena a Las Mañanitas. Suonano Los Tigres del Norte1.

Il mio amante: Sai che su alcune stelle la forza di gravità è così forte da impedire alla luce di irra-diarsi all’esterno?

Silvia Elena: E cos’è la forza di gravità?

Il mio amante: È quello che ci permette di restare coi piedi per terra.

Silvia Elena: Se non ci fosse la gravità noi due fluttueremmo nell’aria?

Il mio amante: Sì.

Silvia Elena: Come quelli che vivono nello spazio. Il mio amante: Sì.

Silvia Elena: E cosa succede alle stelle se la luce non può uscire fuori?

Il mio amante: Diventano buchi neri.

Silvia Elena: Tu credi che le persone abbiano una luce?

Il mio amante: Alcune sì. Altre no. Silvia Elena: Io ho una luce?

Il mio amante: Sì, tu hai la luce dell’alba. Silvia Elena: E tu perché sai tutte queste cose

sulle stelle?

1 Gruppo musicale ancora attivo, fondato da Juan

Her-nández nel 1968 a Sinaloa in Messico e poi trasferitosi a San José in California.

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Il mio amante: Sono professore di fisica all’uni-versità.

Silvia Elena: Di fisica?

Il mio amante: Lo sapevi che la storia delle stelle nasconde i grandi segreti del mondo?

Silvia Elena: No, io mi intendo solo un po’ di computer ma quello che mi riesce meglio è fare i capelli e la pulizia del viso. A modo mio an-ch’io me ne intendo di punti neri. Dai, è una battuta. Sto risparmiando per aprire un istituto di bellezza.

Il mio amante: Cosa chiederesti a una persona se potesse esaudire un tuo desiderio?

Silvia Elena: Non ho desideri. È una cosa che non va bene.

Il mio amante: Esprimine uno.

Silvia Elena: Beh, sì, uno ce l’ho: avere un sabato pomeriggio libero e che qualcuno mi porti al cinema.

Il mio amante: Sarà fatto.

Silvia Elena: Tu non sei di qui, vero? Il mio amante: No.

Silvia Elena: Come ti chiami?

Il mio amante: Thomas, ma tutti mi chiamo “Il biondo”. E tu?

Silvia Elena: Silvia Elena.

Il mio amante: Dai, Silvia Elena, sali in macchi-na che ti porto a casa.

Silvia Elena: Senti, e se la luce che abbiamo den-tro non esce cosa succede?

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Tredici

Un uomo che scopa come un ragazzino

Io: Io e Rosa su una Pilgrim nera che attraversa il deserto nei dintorni di Ciudad Juárez; Antonio Reyes nel carcere di Ciudad Juárez guarda il deserto dalla finestra della cella. Mi ha detto che dovevi bruciare la lettera dopo averla letta. Rosa: Fammi gustare le sue parole ancora per un

po’.

Io: È pericoloso. Nessun altro può leggere quella lettera.

Rosa: Perché?

Io: Lo sapevi che il tuo fidanzato è il presunto col-pevole dei femminicidi?

Rosa: Antonio non è capace di fare del male a una donna.

Io: Come fai a esserne tanto sicura?

Rosa: Per come mi tocca. Scopa come un ragazzino. Io: E come scopa un ragazzino?

Rosa: Con delicatezza.

Io: Hai scopato con molti ragazzini?

Rosa: Ho scopato con ragazzini che sono uo mini, ma mai con un uomo che fosse un ragazzino. Io: E qual è la differenza?

Rosa: Dopo averlo fatto, piange. Io: Scopa bene?

Rosa: Questa è la cosa meno importante quando sono con lui.

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Rosa: Quello che succede prima e dopo aver sco-pato.

Io: E cosa succede prima e dopo aver scopato? Rosa: Questo non voglio raccontartelo. Io: E perché no?

Rosa: Sono cose intime. Io: Che tipo di cose intime?

Rosa: Cose …, le cose che succedono tra un uomo e una donna quando sono soli.

Io: Bene, e cosa succede tra un uomo e una donna quando sono soli?

Rosa: Senti, mi stai scocciando e se quello che vuoi è scopare, questa non è una buona tattica, posso solo dirti che quello che succede tra un uomo e una donna quando sono soli ha a che fare con la speranza. Almeno per me.

Io: Lo sapevi che sono io che l’aiuto a scrivere le lettere d’amore?

Rosa: Tu?

Io: Antonio non sa scrivere.

Antonio: Rosa, guardare il deserto, ricordare il tuo corpo stanco dopo che abbiamo fatto l’a-more per ore, la pelle del deserto, Rosa, la tua pelle, mi protegge.

Io: È vero, hai una bella pelle, Rosa. Rosa: Quanto manca per arrivare? Io: Un po’.

Rosa: Non ci stiamo mettendo troppo? Io: No, il giusto.

Rosa: Conosco la strada per la prigione. Dove mi stai portando?

Io: Non essere impaziente. Devo passare a fare una commissione.

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Io: Tu lo sai come si chiama quell’albero coi fiori viola?

Rosa: Dove stiamo andando?

Io: Come si chiama quell’albero coi fiori viola? Rosa: Che commissione?

Io: Fermo la Pilgrim nera in mezzo al deserto. Scendi.

Rosa: Per favore, cosa succede? Cosa mi vuoi fa-re? Perché piangi?

Io: Scendi. Rosa, per favore scendi dalla macchina e spogliati.

Rosa: No, per favore, non farmi del male.

Io: No, Rosa, non ti farò del male, tesoro. Scendi. Ascoltami bene: spogliati. Togliti i vestiti. Bru-cia la lettera. E corri finché non scompari, Rosa; sì, corri finché non scompari.

Rosa: Fammi leggere la lettera per l’ultima volta. Io: Rosa scende. Si spoglia. Brucio i suoi vestiti in

mezzo al deserto.

Rosa: Se piove le piante fioriscono. Antonio: Se non piove si seccano.

Rosa: Gli insetti sono divorati dalle lucertole e le lucertole dagli uccelli. Tutti alla fine sono desti-nati a morire. E quando sono morti si seccano. Alla fine resta solo il deserto.

Antonio: Il deserto è l’unica cosa che vive davve-ro. E quando ti resta solo il deserto, immagini ogni tipo di strana creatura che spunta da lì pur di sentire che c’è qualcuno al mondo che ti ama davvero e si preoccupa per te.

Io: Posso baciarti? Bacio le guance di una ragazzi-na di quindici anni. Abbandono il suo corpo nu-do in mezzo al deserto. Rosa corre tra i cactus portando con sé l’ultima lettera d’amore di An-tonio Reyes. Una Pilgrim nera si avvicina.

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Quattordici

Le dimensioni dell’inferno

Io: Silvia Elena e il mio amante alla periferia di Ciudad Juárez, nella discarica El Chile.

Silvia Elena: Che ci facciamo qui? Il mio amante: Guardiamo il cielo.

Silvia Elena: E per questo mi porti in una discarica? Il mio amante: Da qui si vedono le stelle più

bel-le di tutto il Messico.

Silvia Elena: Ma la puzza è insopportabile! Il mio amante: Ci penso io.

Io: Il mio amante copre il naso e la bocca di Silvia Elena con la mano.

Silvia Elena: Così è meglio. Puoi premere un po’ di più? Preferisco l’odore della tua mano a quello dei rifiuti.

Il mio amante: Di cosa odora?

Silvia Elena: Di cuoio. Come se portassi i guanti. Il mio amante: Vedi quella stella?

Silvia Elena: Quale?

Il mio amante: Quella, quella piccola, che brilla più intensamente.

Silvia Elena: Quella che sembra che stia per spa-rire?

Il mio amante: Proprio quella. Immagina un pun-to nero al suo interno. Immagina un buco in quel punto. Immagina che, una volta dentro, la gravità cambi e non puoi più fare nulla come prima, perché questa nuova gravità annulla qua-lunque altra forza.

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Silvia Elena: Tu sei ossessionato da questa cosa della gravità.

Il mio amante: Immagina di poter far solo ciò che quella forza ti obbliga a fare.

Silvia Elena: Mi porti al cinema domani? Il mio amante: Che film vuoi vedere?

Silvia Elena: Improvvisamente l’estate scorsa. Il mio amante: È un classico.

Silvia Elena: Lo dice anche la mia amica Rosa. Il mio amante: Non credo che lo diano al ci nema. Silvia Elena: Possiamo noleggiarlo e vederlo

in-sieme.

Il mio amante: Perché proprio quello?

Silvia Elena: Rosa dice che parla di una donna che non riesce a dimenticare il passato.

Il mio amante: E allora?

Silvia Elena: Mi sembra interessante. Il mio amante: Il passato?

Silvia Elena: No, no, il passato non piace per niente, a me interessa il futuro, sai? Sognare quello che ancora non è successo ma che un giorno o l’altro potrebbe succedere. È molto più interessante. Ma non è facile, perché a volte non si può dimenticare il passato, non credi? Neppure io a volte posso dimenticare il passato, come succede a te con la gravità. Uguale. Il mio amante: E questo ti piace?

Silvia Elena: No, mi fa paura. Il mio amante: Hai paura?

Silvia Elena: A volte penso che l’inferno abbia un po’ a che vedere con questo.

Il mio amante: Con il passato?

Silvia Elena: No, con l’impossibilità di dimenti-care il passato e accumulare tutto, finché i ricor-di ricor-diventano sempre più granricor-di, come se fossero

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l’impasto di un dolce in cui metti il lievito, co-me se succedesse nella tua testa. Tu sei un fisico no? Credi che l’inferno si possa misurare? Il mio amante: Silvia.

Silvia Elena: Silvia Elena.

Il mio amante: Silvia Elena, non ti ha mai detto nessuno quanto sei bella?

Silvia Elena: No, bella, proprio bella, non me l’ha mai detto nessuno. Ma mi hanno detto altre cose: belloccia, fatta bene, pezzo di gnocca, gnocca e basta, tettona, cavallona, super, con un caratteraccio quando mi feriscono, una volta mi hanno detto carina …; simpatica, qualche volta – soprattutto quando esco con Rosa, Rosa è la mia amica –; divertente e attraente – a seconda di cosa mi metto –, e lavoratrice, questo me l’hanno detto molte volte; però bella, proprio bella, non me l’aveva mai detto nessuno prima. Il mio amante: Cosa ti piacerebbe fare ora? Silvia Elena: Addormentarmi qui, in piedi,

men-tre guardo le stelle e tu mi sostieni con questa mano grande.

Il mio amante: Silvia. Silvia Elena: Silvia Elena.

Il mio amante: Silvia Elena, guarda.

Silvia Elena: Non avevo mai visto una stella ca-dente.

Io: La stella cade. La ragazza sorride. La discarica comincia a riempirsi di Pilgrim nere. I fari illu-minano tonnellate di spazzatura. Si sente suo-nare una ranchera1 a tutto volume.

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Quindici

Mátalas

1

(canzone)

Amigo, ¿qué te pasa? ¿Estas llorando? Seguro es por cuestiones de mujeres. No hay golpe más mortal para los hombres Que el llanto y el desprecio de esos seres. Amigo, voy a darte un buen consejo, Si quieres disfrutar de sus placeres, Consigue una pistola si es que quieres, O cómprate una daga si prefieres, Y vuélvete asesino de mujeres. Mátalas

Con una sobredosis de ternura. Asfíxialas

Con besos y dulzuras.

Contágialas de todas tus locuras. Mátalas con flores,

Con canciones no les falles,

Que no hay una mujer en este mundo que pueda resistirse a los detalles.

1 Testo del cantautore messicano Alejandro Fernández,

del 2001. Traduzione: Amico, che succede? Stai piangendo? Di sicuro è per una donna. Non c’è colpo più duro per un uo-mo del pianto e del disprezzo di quegli esseri. Amico, ti darò un buon consiglio, se da loro vuoi avere del piacere, procurati – se vuoi – una pistola o comprati – se credi – un coltello e di-venta un assassino di donne. Uccidile con un’overdose di tene-rezza. Soffocale con baci e con dolcezze. Contagiale con le tue pazzie. Uccidile coi fiori, non far mancare loro le canzoni, per-ché al mondo non vi è donna che possa resistere ai dettagli.

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Sedici

Io (II)

Io: Oggi ho fatto tre lavatrici. Ho steso il bucato e ho stirato le magliette, le gonne e i jeans. Gli dico che voglio fare sesso.

Il mio amante: Puoi fare quello che vuoi ma non abbassarmi i pantaloni.

Io: Scopiamo vestiti. Gli vengo in bocca mentre gli pizzico i capezzoli. Da un po’ di tempo a questa parte non vengo finché non gli faccio male ai capezzoli. Gli chiedo scusa. Mi dice: Il mio amante: Non ti preoccupare, mi piace. Io: Mi chiede se ho qualcosa.

Il mio amante: Cos’hai?

Io: Nulla. Mi dice che da qualche giorno sono molto strano, non faccio altro che fare il bucato. Il mio amante: Da qualche giorno sei molto

stra-no, non fai altro che fare il bucato.

Io: Mi calma passare il tempo davanti alla lavatri-ce. Che tristezza infinita.

Il mio amante: Cos’è che ti provoca tutta questa tristezza?

Io: Non ci succede mai niente. Nonostante quello che facciamo, non succede mai niente.

Il mio amante: E cosa ci deve succedere? Io: Pagare per la verità che ci marcisce in bocca. Il mio amante: E cosa ci puoi fare se dopo aver

visto tanto orrore continui a vivere? Cosa ci puoi fare se alla fine ti ci abitui?

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Io: In questo paese finisci per abituarti a tutto. Per questo non succederà mai nulla, perché qui tutti si abituano a qualunque cosa.

Il mio amante: Siamo solo un altro anello della catena. Se non lo facessimo noi, lo farebbero altri. E se lo facessero altri, io e te verremmo eliminati. Lo capisci? C’è un accordo. Un tacito accordo. Le tracce di sperma spariscono nel tra-gitto di andata. Di questo ci occupiamo noi. Io: Ti rendi conto di tutto quello che sta

succeden-do attorno a noi?

Il mio amante: Siamo coinvolti. Ci siamo dentro. In qualche modo ne ricaviamo dei vantaggi. Io: E se ce ne andassimo da questo paese?

Il mio amante: Non possiamo. Appena sposti una pedina le altre cominciano a cadere una dopo l’altra. Ci tengono per le palle. Non permette-ranno mai che il sistema crolli. È una logica inesorabile. In questo paese governato dai cor-rotti il vero potere è nelle mani di una classe alta marcia fino al midollo, che può fare quello che vuole e quello che vuole può essere ‘tutto’, semplicemente perché può pagare ‘tutto’. Loro pagano la campagna elettorale dei governi e questi tacciono di fronte al l’orrore che cresce. E ogni tanto si fanno un regalo. È così semplice. Io: E cosa c’entriamo noi in tutto questo?

Il mio amante: Facilitiamo i passaggi. O pensi che siamo più colpevoli di chi vede tutto e tace? Davvero siamo più colpevoli di tutti quelli che non sono coinvolti ma vedono e non parlano, di chi accetta denaro per restare in silenzio per tut-ta la vitut-ta dopo che gli hanno violentut-tato e ucciso la figlia? Credi davvero che per il fatto di

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por-tarle in un posto isolato e spogliarle siamo più colpevoli di milioni di messicani che picchiano la moglie come un animale?

Io: Sì. Siamo colpevoli. Loro non possono sceglie-re. Altri scelgono per loro. Noi invece scegliamo. Il mio amante: Sei proprio sicuro?

Io: Noi sappiamo la verità, sappiamo quello che succede eppure ci facciamo coinvolgere in que-sta barbarie. A noi non fanno del male. Che ma-le può farci una ragazzina di quindici anni? Od-dio, non sopporto la vista di quei corpi perduti che corrono nudi in mezzo al deserto. Gli dico di scappare, di pregare, di nascondersi, di non dire nulla, di andarsene, di sparire da questa cit-tà, di lasciare il lavoro, di cancellare il loro viso, di imbruttirsi, di ingrassare, di cambiare sesso, di non uscire di casa fino a sessant’anni, di non aprire bocca, di non andare a letto coi ragazzi; cioè, di smettere di esistere, gli dico di smettere di esistere … Sarebbe l’unica soluzione, che in questa città non esistessero donne e che gli uo-mini scopassero tra loro e si ingravidassero e avessero solo figli maschi che, a loro volta, sco-passero tra di loro … Sì, un mondo senza don-ne. Oddio. Poi raccolgo i loro vestiti e li conser-vo in una busta di plastica. Le magliette, le gon-ne e i jeans. Non riesco a lasciarli lì, in mezzo al deserto. Li conservo. Li lavo e li stiro, ancora e ancora, fino a consumarli. Spero che un giorno scompaiano. Non riesco a disfarmene. Oddio. Il mio amante: Ricordi come e dove ci siamo

co-nosciuti? Ricordi la festa che il rettore Juan del Valle ha dato per il tuo arrivo? Ricordi come ci ha ossequiati? Ricordi tutto quello che è

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succes-so? Ricordi il momento in cui io e te ci siamo guardati?

Io: Per favore.

Il mio amante: Ricordi cosa abbiamo pensato in quel momento, quello che avremmo fatto, dove andavamo, come mi guardavi, come ci siamo avvicinati, come Juan del Valle ha sussurrato qualcosa all’orecchio di una ragazza di diciotto anni e al suo ragazzo, come quella ragazza di diciotto anni ci si è avvicinata e ci ha detto. Io: Basta.

Il mio amante: “Sono qui per voi”. Sì, era lì per noi. La vita è strana, non credi? E non saremmo stati insieme se non fosse stato per …

Io: L’hanno fatta a pezzi.

Il mio amante: L’abbiamo fatta a pezzi. Abbiamo visto quello che hanno fatto.

Io: Se potessi cancellare dalla memoria … Il mio amante: Impossibile.

Io: Che tristezza infinita.

Il mio amante: Beh, dobbiamo conviverci. Io: Dimmi la verità, perché credi che facciamo

tut-to questut-to?

Il mio amante: Quando ci sei cascato una volta – basta una volta sola – ti ecciti e quando sei entrato nel giro è impossibile uscirne.

Io: Ti piace?

Il mio amante: Il male è solo un punto di vista. Io: E ti piace?

Il mio amante: Silenzio. Io: Ti piace?

Il mio amante: Silenzio.

Io: Pensi che tutto quello che facciamo abbia senso?

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Il mio amante: Silenzio. Io: E ti senti Dio … Il mio amante: Silenzio.

Io: … Semplicemente perché sei capace di … Il mio amante: Silenzio.

Io: Perché hai il potere di … Il mio amante: Silenzio.

Io: … decidere della vita di qualcuno. Il mio amante: Silenzio.

Io: E questo ti esalta. Il mio amante: Silenzio.

Io: E questo ti permette di sopportare la tristezza … Il mio amante: Silenzio.

Io: Che tristezza infinita. Il mio amante: Silenzio. Io: Infinita.

Il mio amante: Sai che faccio sempre di tutto per farle sorridere prima che salgano sulla Pilgrim nera?

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Diciassette

Juan del Valle e il pranzo a Michoacán

Io: Juan del Valle, rettore dell’università di Ciudad Juárez, nel teatro in cui sta andando in scena l’opera.

Juan del Valle: È da tempo ormai che ho deciso di evitare le abitudini dannose. Ho smesso di fumare. Ora mi dà la nausea. Bevo pochissimo. Una birra ogni tanto o un bicchiere di vino nelle occasioni speciali. Da quando sono arrivato a Ciudad Juárez come rettore dell’università non ho più avuto bisogno di pastiglie per dormire. Quella del mattino ho smesso di prenderla gra-dualmente, limitandomi a mezza pastiglia un giorno sì e uno no. Cammino molto. Mi manca-no i boschi dello stato di Città del Messico. La domenica la passavo nei boschi di Chapultepec. Nuoto tre volte a settimana. Una vita sana. Ho una figlia che è la luce dei miei occhi. Il sabato, per prima cosa dopo essermi alzato, le chiedo dove vuole pranzare e se mi dice sulla spiaggia di Michoacán prendiamo la macchina e andia-mo a Michoacán. Mio padre è in affari, si occu-pa di alcuni ranch del nord e di tanto in tanto mi fa un bel regalo. Tra i suoi regali e lo stipendio guadagno abbastanza per mantenere mia mo-glie, mia figlia e per concedermi uno sfizio qualche volta. Mi ci è voluto un po’ per accet-tarlo ma mi piacciono le ragazzine. Per il resto

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sono una persona normalissima. L’unica diffe-renza che c’è tra me e voi è cosa mi dà piacere. E questo è un argomento privato. E le cose pri-vate prima o poi finiscono sempre per diventare pericolose. Così pericolose che se ognuno di noi, se ognuno dei presenti, confessasse cosa gli dà piacere l’intero teatro salterebbe in aria.

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Diciotto

Niente da fare

Io: Sul luogo del delitto, il giornalista Sergio Her-nández, il magistrato Marcello López, il medi-co legale e i cadaveri di Rosa e Silvia Elena; Antonio Reyes nella cella del carcere che dà sul deserto e sua madre nell’ufficio del magistrato. Sergio Hernández: Tre giorni dopo, Marcello

López si rende conto che l’agente incaricato di identificare l’auto nera usata per il sequestro di una giovane si era volatilizzato.

Marcello López: Quando sono andato a chiedere spiegazioni, mi hanno risposto che l’ordine ve-niva dall’alto. A quanto pare, la maggior parte delle Pilgrim nere …

Cadavere di Silvia Elena: Un’auto di moda. Marcello: … appartiene ai figli di alcuni pezzi

grossi di Ciudad Juárez. Il giorno dopo, una te-lefonata anonima avvisa la polizia che sono sta-ti udista-ti alcuni spari all’interno di una casa di calle García Herrero. La pattuglia arriva sul po-sto. Suonano il campanello più volte. Nessuno risponde. Un bambino dice di aver sentito degli spari mentre andava in bicicletta. Uno dei vicini dice di aver visto una Pilgrim nera parcheggiata vicino alla casa.

Cadavere di Silvia Elena: Arriva il magistrato Marcello López.

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