L’arco cronologico prescelto in questa ricerca è compreso tra il 1954 e la metà degli anni Sessanta. Una simile ipotesi di lavoro si spiega abbastanza facilmente sulla base dello snodarsi degli eventi locali, ma la decisione è stata assunta anche per puntare un faro sul periodo in cui lo scudo crociato assistette al consolidamento e alla definitiva affermazione delle correnti interne61. Nel primo decennio postbellico, la Democrazia cristiana si era distinta per la presenza di «tendenze» – per alcuni storici vere e proprie correnti già alla fine degli anni Quaranta – capaci di offrire un’impostazione ideologico-culturale alternativa a quella del gruppo ex popolare coagulatosi attorno a De Gasperi. In quella fase, le responsabilità politiche e di governo, il collante dell’anticomunismo e l’obiettivo dichiarato di generare un’identificazione tra partito e paese sopravanzarono tuttavia lo spazio concesso al confronto interno: durante la gestione cattolico-liberale degasperiana, la maggioranza finì così per utilizzare quasi dogmaticamente il termine «unità», soprattutto davanti alle prese di posizione della sinistra dossettiana e gronchiana62. Soltanto l’uscita di scena del leader trentino e il superamento della prima stagione del centrismo, fornirono l’occasione per l’emergere di correnti configurate più decisamente come strutture organizzate, formalmente costituite, dotate di ragguardevole capacità contrattuale tanto all’interno quanto verso l’esterno, talvolta meno
61 Sul tema delle correnti, cfr. in particolare L. D’Amato, Correnti di partito e partito di correnti,
Giuffrè, Milano 1965; M. Sernini, Le correnti nel partito, Istituto editoriale cisalpino, Milano-Varese 1965; A. Panebianco, Modelli di partito, cit.; V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti
democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
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caratterizzate di prima nella linea ideologico-culturale e sempre più affini a raggruppamenti di potere, non di rado trasversali in quanto a proposta e composizione generazionale. L’esistenza di tale fenomeno – ben rappresentato ad esempio dall’esperienza di Iniziativa democratica e notevolmente rafforzatosi tra anni Sessanta e Settanta – si collegò ben presto a doppio filo alla colonizzazione dell’area del sottogoverno e degli apparati istituzionali ed economici del paese, che la DC realizzò a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con l’effetto di affrancarsi dall’influenza della Chiesa cattolica, ma anche di generare un vasto sistema clientelare.
Alla luce di quanto appena illustrato, è possibile ora spiegare il tipo di periodizzazione utilizzata per la raccolta e la presentazione dei dati relativi alle correnti triestine. Le scansioni temporali individuate sono tre: 1945-1955, 1955-1961 e 1955-1961-1969. La prima verrà sorvolata poiché esula dall’arco cronologico scelto nel presente studio e manca pertanto di un insieme sistematico di informazioni: in futuro sarà ad ogni modo agevole volgere lo sguardo al decennio fondativo, durante il quale il timone del partito fu retto dalla «vecchia guardia» degasperiana, cui si affiancarono diversi indipendenti e un numero assai esiguo di gronchiani e dossettiani, questi ultimi i soli a rappresentare una pur esile voce d’opposizione. Appare difficile parlare nel caso specifico di vere e proprie correnti, tanto più che le cosiddette tendenze si trovarono a operare in un momento delicatissimo della storia locale, che vide i democratici cristiani impegnarsi a fondo nella doppia battaglia dell’anticomunismo e della difesa nazionale, piuttosto che nell’approfondimento del dibattito politico.
Fu dalla metà degli anni Cinquanta che anche a Trieste prese corpo il fenomeno di correntizzazione, seppure con qualche pur comprensibile ritardo rispetto al panorama italiano. Questa seconda fase corrispose alla fine dell’età degasperiana, al frazionamento del gruppo dei fondatori, all’emergere della segreteria Fanfani e di Iniziativa democratica e ad un nuovo impulso organizzativo all’interno del partito63. La nascita della nuova corrente permise
63 Sulle ricadute organizzative cfr. in particolare L’organizzazione partitica del PCI e della DC, a c. di G.
Poggi, Il Mulino, Bologna 1968. L’autore individua la DC come un partito di «natura elettoralistica e di governo», caratterizzato da un’organizzazione molto meno rigida di quella del PCI. Ciò avvenne da una parte per il rilassamento dopo lo sforzo elettorale del 1948 e la conquista del potere esecutivo, dall’altra
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di riunire sotto un unico ombrello la minoranza più avanzata della «vecchia guardia», la piccola pattuglia dei giovani dossettiani e la gran parte dei trentenni che si affacciarono alla militanza dopo il ritorno della città all’Italia. Iniziativa non fu certo una riedizione del dossettismo, ma un raggruppamento del tutto nuovo, numericamente molto ampio e diversificato al proprio interno. Esso appoggiò dapprima la linea dell’ultimo De Gasperi e poi innovò la strategia, inaugurando la seconda stagione del centrismo e avviando quindi un lento avvicinamento al centro-sinistra, seppure da presupposti moderati64. Nel quadro di un confronto interno che sul piano locale si presentava come ben più semplificato rispetto allo scenario nazionale, la sola controparte di Iniziativa democratica fu l’area conservatrice di Centrismo popolare. La corrente di Scelba fu sostanzialmente l’unica voce d’opposizione, dal momento che la sinistra sindacale era inserita organicamente dentro Iniziativa e che i gronchiani assommavano al massimo a un paio di esponenti.
La nuova svolta avvenne infine nel 1961: la rottura di Iniziativa e l’ascesa dei doro-morotei risaliva in realtà a due anni prima, ma soltanto in occasione del nuovo congresso provinciale venne formalizzata l’esistenza di tre distinte correnti di centro-sinistra – doro-morotei, fanfaniani e aclisti – che a Trieste
per l’esistenza di una solida base organizzativa e di consenso garantita da forze esterne, quali l’associazionismo confessionale e le strutture ecclesiali. La nomina a segretario di Fanfani e il conseguente impulso sul fronte organizzativo ebbero diversi effetti: il tramonto del notabilato, l’ascesa di un nuovo gruppo dirigente e di una corrente come Iniziativa democratica, l’ingresso in consiglio nazionale dei rappresentanti delle associazioni collaterali, la creazione di uffici dedicati a problemi specifici, la spinta ad accrescere il tesseramento e a ricercare iscritti maggiormente qualificati. Il ripensamento delle alleanze ebbe infine ripercussioni politiche, che favorirono a propria volta il ricambio della leadership centrale e periferica. Un partito a «basso grado di consistenza organizzativa» assunse così compiutamente le caratteristiche dell’organizzazione di massa, così come teorizzata ad esempio da Duverger: la mobilitazione della base fu assicurata e stabilizzata non soltanto in occasione di elezioni e congressi, la struttura si rafforzò centralmente, diminuì l’influenza di forze esterne (Chiesa, potere economico e organizzazioni collaterali), fu attuato un più attento controllo e una più uniforme presenza in periferia, venne promosso il momento formativo. Ciò non impedì comunque che la DC denotasse una notevole frammentazione in gruppi e correnti, che «spaccarono» il partito in senso verticale (dal vertice alla base) e dimostrarono una consistenza organizzativa non di rado più solida di quella dello stesso partito, basata soprattutto sulla capacità di agganciarsi esternamente a interessi particolari, categorie economiche, gruppi sociali e associazioni. La segreteria Fanfani segnò probabilmente il prevalere dell’aspetto organizzativo su quello politico-ideologico, a cui si ritornò invece con l’avvento di Moro.
64 E. Landoni, Il laboratorio delle riforme. Milano dal centrismo al centro-sinistra (1956-1961), Piero
Laicata Editore, Manduria-Bari-Roma 2007. Iniziativa democratica fu l’asse centrale del partito nella seconda metà degli anni Cinquanta. Il suo ruolo fu tuttavia diverso a seconda dei contesti locali dove essa si trovò ad operare. Nel caso di Milano, ad esempio, Iniziativa finì per rappresentare la sensibilità moderata e di centro-destra di un partito, all’interno del quale la sinistra di Base e quella sindacale detenevano posizioni di forza. A Trieste la nuova corrente costituì invece innanzitutto un argine nei confronti del centrismo e incarnò probabilmente in quella fase l’unico strumento di innovazione possibile per un’organizzazione fortemente condizionata dalla battaglia nazionale appena conclusa.
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seppero peraltro rimanere coese fino alla fine degli anni Sessanta, conducendo la DC all’alleanza con socialisti e sloveni democratici, in contrapposizione alla linea della minoranza centrista e della piccola pattuglia «dorotea».
Prima di descrivere nello specifico le caratteristiche degli aderenti ai singoli gruppi interni (Tab. 4, Tab. 5, Tab. 6 e Tab. 7), è opportuno analizzare rapidamente il susseguirsi delle maggioranze che si posero alla testa della DC triestina e le eventuali difformità con il contesto nazionale, ricordando fin da subito che i singoli comitati provinciali avevano spesso assetti politici anche molto diversi rispetto a quello degli organi centrali del partito. La discrasia emerge già nel 1955: se il vertice della DC vedeva una maggioranza composta da Iniziativa e dalla Base, con centristi e gronchiani all’opposizione (Concentrazione democratica), lo scudo crociato giuliano invertiva diametralmente tali rapporti di forza (la Base sarebbe per di più comparsa solo anni dopo). Non si può dimenticare tuttavia che il recente ritorno all’Italia rendeva la situazione locale ancora molto ingarbugliata e che alcuni elementi della maggioranza si sarebbero poco dopo ricollocati, prima all’interno dell’area vicina ad Iniziativa democratica e poi nel centro-sinistra. Il ritardo si può probabilmente spiegare con il fatto che il partito, dopo dieci anni di battaglia nazionale, stava vivendo una fase di complesso riassetto: Iniziativa si era appena affermata come la chiave di volta del dopo De Gasperi, ma a Trieste faticò a trovare immediato spazio perché i cosiddetti notabili erano su posizioni conservatrici oppure si ritrovavano condizionati dalla compattezza che aveva contraddistinto la loro azione nel primo decennio postbellico. A impedire un più rapido e deciso rimescolamento c’erano allora la necessità di gestire il ritorno all’Italia e, probabilmente, la volontà di riconfermare in blocco il ceto dirigente più anziano, che fino a quel momento aveva trattato con Roma a livello sia politico che istituzionale. Trieste colmò il suo gap in occasione del congresso del 1957: Iniziativa ottenne la segreteria, lasciando all’opposizione i soli centristi. Si deve al proposito evidenziare l’assenza di una voce autonoma della sinistra, momentaneamente schierata senza alcun distinguo nel seno di Iniziativa stessa. Nuove differenze si verificarono già a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta: il gruppo triestino di Iniziativa democratica sopravvisse
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infatti compatto per circa due anni dopo la rottura della corrente a livello centrale. Dal punto di vista del ricambio di classe dirigente, tale spaccatura non ebbe particolari ricadute sul piano locale: se nel 1959 i fanfaniani e la sinistra sindacale erano schierati all’opposizione dei doro-morotei negli organismi centrali, a Trieste questi ultimi continuarono a essere alleati di Nuove cronache e Forze nuove per tutto il decennio e a dialogare con la minoranza centrista scelbiana e andreottiana. Un simile schema – prova evidente della capacità attrattiva dei doro-morotei giuliani – ricalcò d’altronde la situazione nazionale generatasi nel 1962, segnando un momentaneo riavvicinamento tra contesto centrale e periferico. Per quanto concerne Trieste, bisogna però notare una maggiore coesione delle correnti di centro-sinistra, che in più occasioni si presentarono al congresso provinciale con una lista unitaria, posta evidentemente in linea di continuità con l’esperienza di Iniziativa democratica. Le cose mutarono nuovamente nel 1965, quando a livello nazionale i centristi entrarono in maggioranza e la sinistra politica e sindacale passò nuovamente all’opposizione: la DC triestina continuò invece a perseguire il medesimo corso, con doro-morotei, fanfaniani e aclisti posti alla guida del partito e centristi in minoranza.
L’analisi della fisionomia delle correnti appare uno strumento funzionale non soltanto a dipingere i tratti principali dei componenti dei vari gruppi, ma anche a contribuire alla rappresentazione dei rapporti di forza vigenti nel partito. In questa fase della ricerca, l’aspetto che più interessa è infatti quello connesso alle caratteristiche e all’organizzazione del potere, più che la ricostruzione delle differenti sensibilità politiche. Le correnti triestine non sembrano peraltro distinguersi in modo rilevante dal dibattito nazionale ed erano anzi piuttosto appiattite sull’elaborazione che avveniva al centro. Una non secondaria dose di autonomia riguardò certamente l’ideazione dell’articolato progetto del centro-sinistra al confine orientale, ma esso venne comunque realizzato all’interno degli schemi prefigurati dalla segreteria Moro.
Prima di passare al commento dei dati, è doveroso fare ancora presente che esso terrà conto del doppio criterio utilizzato per la definizione del campione, costituito da una parte da tutte le persone attive negli anni
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considerati e dall’altra dal più ristretto gruppo di coloro i quali esercitarono realmente la propria influenza nel processo decisionale, in campo sia politico che amministrativo65. L’analisi condotta in tal modo permetterà di individuare l’esistenza di alcuni elementi – età, provenienza, condizione sociale, rapporti collaterali – capaci di incidere almeno parzialmente sul posizionamento correntizio e di conseguenza sulla linea sostenuta all’interno di questo o quel raggruppamento. Il paragone tra il campione complessivo e l’élite consentirà inoltre di mettere in luce le caratteristiche di coloro i quali avanzarono maggiormente nella carriera, cercando altresì di capire dove eventualmente si annidassero le differenze tra il vertice delle correnti e il personale di minor calibro66.
65 Nella fase 1955-1961, gli esponenti di Iniziativa democratica attivi nel complesso erano 64, di cui
34 appartenenti all’élite dirigente democristiana: Adovasio, Babille, Belci, Benni, Blasina, Bologna, Botteri, Ceschia, Chicco, Coloni, Coslovich, Dassovich, Decarli, Delconte, Delise, Franzil, Gallopin, Gasparo, Hlacia, Maly, Masutto, Mezzena, Ramani, Rinaldi, Rocco, Savona, Sciolis, Stopper, Tanasco, Tomizza, Vascotto, Venier, Vigini e Visintini.
I membri vicini a Centrismo popolare erano 47, di cui 16 inseriti ai vertici dell’organizzazione o del potere amministrativo: Colautti, Corberi, Faraguna, Feliciani in Faraguna, Gostissa, Gregoretti, Gridelli, Jaut, Lipossi, Pecorari, Romano, Sferco, Spaccini, Verza, Visintin e Zanetti.
Gli indipendenti erano 34, di cui 15 elementi di punta: Bartoli, Bastiani, Caidassi, Carra, Catolla-Cavalcanti, Cividin, Cristiani, Martinelli, Morgera, Novelli, Palutan, Puppi, Zacchi e Zoppolato.
Si conta invece un solo gronchiano – peraltro molto in vista: de Rinaldini – e ciò suggerisce di tralasciare l’analisi sociologica su questa corrente.
Nella terza fase, l’asse centrale fu occupato da 63 doro-morotei, di cui 26 collocati in posizione di massima influenza: Adovasio, Babille, Belci, Blasina, Botteri, Ceschia, Chicco, Coloni, Corberi, coslovich, Delise, de Rinaldini, Franzil, Gallopin, Hlacia, Maly, Mezzena, Rinaldi, Rocco, Savona, Sciolis, Spaccini, Stopper, Tomizza, Venier e Visintini.
I fanfaniani erano 15, con 5 elementi al vertice: Benni, Bologna, Ramani, Vascotto e Vigini. Gli aclisti erano 14, con 4 esponenti inseriti nell’élite: Decarli, Frantasia, Gasparo e Masutto.
Decisamente meno radicata era la Base, che contava 3 militanti ed un solo dirigente di rilievo: Dassovich.
I centristi continuarono a rappresentare un forza non secondaria, con 31 esponenti, ma soltanto 9 membri di peso: Bartoli, Colautti, Faraguna, Feliciani in Faraguna, Jaut, Pecorari, Romano, Verza e Visintin.
I «dorotei» erano 11 e tra questi 4 partecipavano a vario titolo alle decisioni: Degano, Gostissa, Sferco e Zanetti.
Gli indipendenti erano infine 35, tra cui 14 elementi di spicco: Bastiani, Caidassi, Carra, Catolla-Cavalcanti, Cividin, Delconte, Gregoretti, Martinelli, Morgera, Novelli, Puppi, Tanasco, Zacchi e Zoppolato.
Il rapporto tra i campioni complessivi e quelli relativi al solo gruppo di punta di ciascuna corrente, consente di notare con facilità come sia sempre la corrente maggioritaria a esprimere il maggior numero di esponenti dell’élite del momento. Nel caso di Iniziativa, ad esempio, è circa il 53% della corrente a occupare incarichi di rilievo, contro il 34% dei centristi. Lo stesso accade nella fase successiva, quando i doro-morotei al vertice erano circa il 41% della propria corrente, contro circa il 33% dei fanfaniani, il 28% degli aclisti e il 29% dei centristi. L’unica eccezione era costituita dall’area degli indipendenti, attestata circa al 44% nella seconda fase e circa al 40% nella terza. Ciò è facilmente spiegabile, dal momento che numerosi indipendenti erano inseriti al vertice di enti locali di secondo grado sulla base delle proprie conoscenze specifiche e non dell’appartenenza correntizia.
66 Bisogna avvisare il lettore che le personalità inserite nell’élite dirigente sono quelle che
ricoprirono determinati ruoli durante l’arco cronologico complessivo (1949-1966). È quindi possibile, ad esempio, che un militante di Iniziativa democratica prima e della corrente doro-morotea poi, pur avendo
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Il primo aspetto a cui si rivolge l’esame sociologico delle correnti è quello generazionale. Iniziativa democratica si presenta senza alcun dubbio come il crogiuolo dove la terza generazione riuscì a emergere ed esprimere il proprio potenziale politico e dove, in generale, i giovani ebbero più spazio: i nati nel 1921-1930 erano quasi il 44% della corrente, affiancati dal 14% di esponenti della quarta generazione. I fondatori occupavano in modo assai diseguale la parte rimanente: la prima generazione si attestava poco sotto il 5%, la seconda su un rilevante 36%, a testimonianza che non tutta la «vecchia guardia» aveva scelto la strada del centrismo. Le risultanze si fanno più nette se l’attenzione si concentra soltanto sul gruppo dei dirigenti di vertice: in questo caso terza e quarta generazione raccoglievano oltre il 71%, contro quasi il 29% dei più vecchi. I cosiddetti trentenni avevano spazio ben più limitato nelle altre correnti operanti nella seconda fase di vita del partito: solo il 17% tra i centristi e poco meno del 6% tra gli indipendenti. In entrambi i casi, le nuove leve non contavano nemmeno un’unità se si guarda soltanto all’élite. Centristi e indipendenti – tra i quali si annovera buona parte del gruppo dirigente del partito operante fino al congresso del 1957 – avevano quindi una fisionomia molto diversa rispetto a Iniziativa democratica, capace al contrario di offrire rappresentanza più o meno ampia a tutte le generazioni. Centrismo popolare era infatti animato per quasi l’80% dai fondatori: circa il 21% alla prima generazione e poco meno del 49% alla seconda, ma a queste percentuali si può aggiungere circa l’8% di dati mancanti che, con ogni probabilità, apparteneva a queste fasce anagrafiche. Gli anziani inseriti nell’area indipendente erano invece oltre l’85%. Le proporzioni si facevano ancora più schiaccianti nel gruppo di vertice: in questo caso le prime due generazioni si assicuravano il 100% tanto dell’area centrista quanto di quella indipendente.
Negli anni del centro-sinistra, gli indipendenti continuarono a mantenere inalterata la propria stratificazione: i più vecchi potevano contare su oltre il 91% dei posti (circa il 28% ai nati nell’Ottocento, circa il 63% ai nati nel 1900-1920) e sul 100% nel caso dell’élite. Per quanto riguarda invece la componente centrista
rivestito incarichi di rilievo soltanto negli anni Sessanta, venga comunque considerato esponente di punta anche ai tempi di Iniziativa. Questo genere di situazione non rappresenta un inconveniente per l’analisi, ma consente anzi di individuare fin da subito gli elementi che si sarebbero fatti strada negli anni seguenti.
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attiva dopo il 1961, si può notare come, analogamente alla fase precedente, la seconda generazione si assicurò il 100% del gruppo di vertice. Più variegata – probabilmente a causa di ingressi recenti – si presentava però la situazione del campione collettivo: circa il 13% alla prima generazione, poco più del 51% alla seconda (cui è forse possibile sommare però quasi per intero il 13% circa di dati mancanti) e poco più del 19% alla terza. La predominanza dei nati nel 1900-1920 è rilevabile anche nel vertice del piccolo gruppo «doroteo» (75%), che si mostrava più composito nel caso del campione intero (91% equamente spartito tra seconda e terza generazione). Dai dati appena presentati, emerge con chiarezza la netta supremazia della seconda generazione tra gli indipendenti e nell’area di centro-destra del partito anche dopo la svolta del 1961. I nati nel 1900-1920 ebbero peraltro un peso specifico importante anche all’interno di Iniziativa e, successivamente, tra i doro-morotei. Nel caso delle correnti di centro-sinistra è tuttavia la terza generazione a giocare la parte del leone. Se si limita l’analisi all’élite, emerge con evidenza il ruolo dei nati nel 1921-1930: 75% in Forze nuove, 100% tra i fanfaniani, 100% nella Base e circa il 38% tra i doro-morotei, cui si aggiungeva circa il 23% di esponenti della quarta generazione. La corrente cardine del centro-sinistra si componeva quindi per oltre il 61% di un gruppo dirigente di nuove leve, ma è doveroso rimarcare lo spazio notevole della seconda generazione (oltre il 38%), a dimostrazione della permanenza di quella parte dei fondatori che avevano scelto Iniziativa negli anni Cinquanta e quindi optato per seguire la prospettiva morotea nel decennio successivo. Altrettanto differenziato si presenta il campione complessivo dei doro-morotei: quasi il 35% alla seconda generazione, circa il 32% alla terza, poco meno del 24% alla quarta. Dal punto di vista della stratificazione generazionale, l’area doro-morotea sembra pertanto raccogliere il testimone di Iniziativa. La quarta generazione era praticamente assente dai gruppi di punta di tutte le altre