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IL PROGETTO DELLA TERZA GENERAZIONE

I fautori del «cambio della guardia» e le segreterie che si susseguirono fino agli anni Settanta perseguirono una linea cattolico-democratica, contrapposta a quella della generazione democristiana precedente, che le nuove leve definivano «cattolico-liberale» o «cattolico-nazionale». Secondo il ceto dirigente affermatosi nella DC dopo il 1957, la stagione della difesa dell’italianità era stata un passaggio ineluttabile, che aveva tuttavia forzatamente bloccato lo sviluppo di Trieste: quella fase andava pertanto superata, attraverso la proposta di una strategia alternativa e composita. Questa si basava su elementi portanti quali la «normalizzazione» politica, amministrativa ed economica; l’anticomunismo, l’antifascismo, il patriottismo democratico e l’instaurazione di un rapporto diverso con la minoranza slovena; il radicamento culturale del cattolicesimo democratico; la lotta al municipalismo e il rifiuto dell’assistenzialismo, della specialità e della propaganda dell’emergenza131.

Il progetto venne gradualmente elaborato a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, trovando nel centro-sinistra la possibilità di essere concretamente applicato. Esso si caratterizzò in special modo per una nuova concezione dell’italianità di confine e per la ferma volontà di separare definitivamente e con nettezza l’elemento patriottico dalle influenze liberal-nazionali, che gli assertori

131 C. Belci, Memorie di trent’anni, cit., p. 84. «Sentivamo che, da quel giorno [4 novembre 1954],

erano passati non solo alcuni anni, ma un vero e proprio «tempo politico» e il cambiamento veniva ritenuto necessario dalla segreteria democristiana, perché corrispondente alla conclusione di un «ciclo storico» e all’apertura di un altro […]. Si pensava che in quel passaggio si aprisse la fase concreta dei problemi economici ed amministrativi della vita cittadina, insomma, come si dice, dalla poesia alla prosa. Prima si trattava di difendere l’italianità, ora che questo risultato era acquisito veniva il momento «delle cose»».

del rinnovamento credevano essere invece state alimentate anche dalla Democrazia cristiana, durante il suo primo decennio di vita. Secondo la propria autorappresentazione, i «trentenni» cercarono di invertire una tradizione consolidata, capace di condizionare in qualche modo gli stessi notabili dello scudo crociato. L’obiettivo divenne allora quello di rettificare la direzione di marcia, per evitare che la DC finisse per conservare «non il volto cristiano di Trieste che è ancora da conseguire, ma il volto nazionalista, capitalistico, laicista»132.

Il nuovo corso si propose di mettere alle spalle l’ultimo mezzo secolo di storia triestina e spezzare così alcune linee di continuità, che la «vecchia guardia» non aveva reciso a causa delle urgenze della battaglia nazionale. Da questo punto di vista, si può affermare che l’ascesa di Iniziativa democratica rappresentò la fase di transizione di un processo che avrebbe avuto ricadute concrete a partire dagli anni Sessanta. Nel corso delle segreterie di Belci e Botteri, l’esperienza italiana al confine orientale venne ripensata criticamente133: le parole d’ordine del periodo liberal-nazionale e del fascismo furono condannate in modo esplicito, mentre si procedette alla parallela rivalutazione dell’esperienza resistenziale, rimasta invece sullo sfondo nel dopoguerra. Il gruppo dirigente più giovane s’interrogò in particolare sulle responsabilità del regime e sulle cause della «morte della nazione», davanti alla quale il mondo cattolico era divenuto improvvisamente il primo attore della difesa dell’italianità, a partire dall’8 settembre 1943. L’élite liberal-nazionale divenne il bersaglio principale di tale riflessione: colpevole di aver asservito i valori nazionali agli interessi di casta, pronta a sostenere le più becere posizioni nazionaliste e l’ascesa del fascismo, rea quindi dell’entrata in guerra (con le mutilazioni territoriali che ne conseguirono) e infine prona davanti all’occupazione tedesca. Secondo i «trentenni», la visione oligarchica dei liberali – cui si era abbinata la completa subalternità del movimento cattolico – aveva avuto sulla città pesanti conseguenze politiche, economiche e sociali: aveva

132 G. Botteri, Il centro-sinistra a Trieste, cit., pp. 131-132.

133 Le ricadute politiche della riflessione sono riscontrabili nelle relazioni congressuali che i due

segretari provinciali tennero nel corso dei rispettivi mandati. Cfr. al proposito C. Belci, La DC per Trieste, cit.; G. Botteri, Trieste, città italiana al servizio dell’Europa e della pace, cit.

estremizzato i contenuti della contrapposizione fra italiani e sloveni, aveva spianato la strada alla dittatura e al suo programma di aggressiva assimilazione degli alloglotti e conteneva in sé una dimensione municipalista, che aveva continuato a influenzare una parte della classe dirigente e dell’opinione pubblica anche dopo il conflitto. Le dure ferite inflitte a Trieste erano ritenute figlie di questa parabola, le cui conseguenze andavano sorpassate per ripensare il ruolo della città e garantirne il futuro: il ritorno all’Italia e gli anni di decantazione seguiti al 1954 consentivano di guardare ai problemi da un’altra prospettiva, che nutriva un certo ottimismo davanti alle possibilità profilate da un pur lentissimo processo di unificazione europea.

Gli anni del centro-sinistra e la stagione in cui esso venne preparato sortirono il tentativo di sciogliere i molti nodi lasciati irrisolti dopo la ricostruzione: la parola d’ordine divenne «normalizzazione». Si trattava innanzitutto di stringere con Roma relazioni stabili dal punto di vista politico e istituzionale, attraverso l’elezione dei primi parlamentari, la realizzazione della Regione autonoma, l’adeguamento alle evoluzioni politiche italiane e la costruzione di rapporti saldi con i vertici della Democrazia cristiana. Bisognava inoltre offrire una prospettiva credibile di rilancio economico a un’area che stava inesorabilmente declinando per molte ragioni. Il particolare contesto giuliano richiese infine di ricercare una nuova logica di sviluppo e di convivenza, mirante a cancellare i lunghi decenni di antagonismo, di enfatizzazione dei rispettivi valori nazionali e di emarginazione della minoranza slovena: la difesa dell’italianità doveva cedere il passo alla pacificazione, l’inimicizia alla convivenza fra democrazia e nazione. Come ebbe modo di dichiarare il segretario Botteri,

la DC di Trieste ha maturato con grande serenità e compostezza le sue scelte e le ha compiute cercando di chiarire, a se stessa, e a tutto l’elettorato, le funzioni e le responsabilità che ad un partito d’ispirazione cristiana, di fedeltà democratica, e quindi antifascista ed anticomunista, di larga base popolare, di specchiata tradizione nazionale, spettano in questo momento. Scopo fondamentale […] dei partiti democratici del nostro Paese è quello di «servire l’Italia» […]. Sul «come» servire l’Italia a Trieste il dibattito può essere aperto, ma è certo che in questo dibattito non possono aver diritto alla parola coloro che propongono soluzioni storicamente bruciate. […] Perché quando si parla di «unità degli italiani» si fa

evidentemente riferimento all’unità degli spiriti e, quindi bisogna convenire che da questa unità spirituale si sono autoesclusi, perché aberranti, i negatori delle libertà civili e democratiche, i sostenitori di teorie razziste, gli apologeti della violenza come metodo di lotta politica e nazionale. […] L’Italia a Trieste non può essere oggi difesa e servita come ai tempi in cui la città era soggetta allo straniero, con autorità centrali e locali avverse, fossero austro-ungariche, naziste, jugoslave o anglo-americane: oggi l’Italia è (cioè è presente, esiste come fatto oggettivo e definitivo) a Trieste e sarebbe indice di estrema sfiducia nell’Italia – come realtà statuale e come comunità unitaria – mantenere una posizione difensiva, di chiusura, anziché passare alla conquista più larga, operando con tutti i mezzi e gli strumenti che la presenza statuale comporta. Per la DC quindi «servire l’Italia» significa contribuire a questo sforzo perché a Trieste i valori nazionali e democratici trovino espressioni qualitativamente sempre più valide […]. Anche nei confronti dei cittadini italiani di lingua slovena lo Stato democratico italiano, mentre deve condurre l’azione responsabile del riconoscimento dei loro diritti, deve contemporaneamente pretendere un atteggiamento di sempre più compiuto lealismo verso l’Italia. Con queste prospettive e per questo la DC ha proposto, anche a Trieste, assieme ai social-democratici ed ai repubblicani, l’indirizzo di

centro-sinistra134.

Il centro-sinistra aveva come sue connaturate finalità l’allargamento dell’area democratica e il rafforzamento della coesione sociale. Secondo Giampaolo Valdevit, essi furono perseguiti dalla DC triestina attraverso una serie di «inglobamenti». Se la battaglia nazionale aveva permesso di avvicinare alla democrazia una parte del ceto medio rimasto orfano del fascismo, il nuovo gruppo dirigente procedette all’assorbimento degli esuli istriani e, in seguito, dei socialisti e degli sloveni democratici. Sloveni e profughi divennero «cittadini», mentre PSI e US cessarono di essere forze nemiche e antisistema: ciò contribuì a ridurre le insicurezze della società locale e mise a disposizione dello scudo crociato nuovi interlocutori, con i quali dialogare e dai quali pretendere lealtà verso le istituzioni. Se si considera il radicamento che aveva contraddistinto la tradizione liberal-nazionale e il suo successivo confluire nel nazionalismo e nel cosiddetto fascismo di confine, si può allora identificare la nuova linea – proprio in contrapposizione a quella precedente – con la formula di «cattolicesimo di frontiera», accettando così la definizione ideata da Raoul Pupo come parafrasi e ribaltamento del «fascismo di frontiera» di Elio Apih. Il cattolicesimo di confine si dispiegò dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta.

134 L’intervento fu pubblicato su «Il Piccolo» del 22 ottobre 1963.

Dapprima esso assunse l’onere della difesa dell’italianità e della democrazia, dando l’assoluta precedenza alle ragioni dell’anticomunismo e del contenimento della minoranza slovena, in un contesto che non permetteva di occuparsi dell’amministrazione quotidiana a causa della presenza del GMA e della contrapposizione ideologica e statuale in atto. Successivamente mutò rotta, puntò alla «normalizzazione» del territorio e, parallelamente, consolidò l’egemonia democristiana sul piano politico-amministrativo.

Il tentativo di integrazione di settori nuovi e diversi della società locale procedette di pari passo all’inserimento di ciò che rimaneva della Venezia Giulia all’interno del nesso statale. La DC ritenne assolutamente prioritario l’innesto di Trieste nel tessuto nazionale: lo richiedevano le necessità dell’amministrazione e della ripresa economica, ma anche ragioni di opportunità politica, dal momento che lo scudo crociato giudicò fondamentale fin dall’immediato dopoguerra il contenimento delle tendenze municipaliste e indipendentiste, che traevano alimento dalla tradizione della città e dalla protesta di chi accusava Roma di essere incapace di porre mano ai suoi problemi. L’allineamento si produsse sia sotto il profilo politico che sotto quello istituzionale: da una parte, l’avvicinamento e il definitivo accordo tra DC e PSI ricalcarono la formula dei governi vigenti in Italia negli anni Sessanta; dall’altra, il capoluogo giuliano venne più saldamente collegato allo Stato, attraverso la strumento della Regione, che andò a sostituire l’unicum del Commissariato di governo. Il nuovo organismo a Statuto speciale era stato individuato da tempo come il più efficace mezzo per rompere definitivamente l’isolamento e rafforzare le relazioni col resto del paese135. Nelle intenzioni dei suoi promotori, l’autonomia regionale avrebbe garantito l’affievolirsi dell’indipendentismo, grazie a più strette relazioni con le istituzioni nazionali e anche per merito dei risultati economici che si credeva sarebbero stati raggiunti dalla programmazione su scala locale. La congiunzione con il Friuli avrebbe permesso di intrecciare la realtà triestina con una rete in rapido sviluppo –

135 Il primo esponente democristiano triestino a esprimersi sull’istituto regionale fu Pecorari:

durante le sedute dell’Assemblea costituente, questi avanzò la richiesta della creazione di una regione Venezia Giulia e Zara. La proposta venne tuttavia scartata e sostituita dalla costituzione del Friuli Venezia Giulia, come quinta regione a Statuto speciale.

esattamente il contrario di quanto prevedeva ad esempio la Zona franca – e inoltre caratterizzato da una radicata «subcultura» cattolico-popolare, che si sperava potesse rafforzare la tendenza politica in atto in città.

La creazione dell’organismo regionale trovò concordi tanto i fondatori del partito, quanto la terza generazione. Il tema era d’altra parte stato esplicitamente toccato dal sindaco Bartoli, in occasione del discorso tenuto per il ritorno dell’Italia:

Non è questo [...] il momento di parlare e trattare di ordinamenti speciali, ma mi sia consentito di esprimere già fin d’ora il voto perché un giorno, soddisfacendo alle norme sancite dalla Costituzione della nostra Repubblica, si possano pure soddisfare le esigenze delle terre di confine, giungendo alla costituzione della Regione Venezia Giulia-Friuli, e cogliendo così i già maturi frutti di un’esperienza che la Nazione ha fatto e sta maturando

con l’attuazione delle Regioni Sicilia, Sardegna e Trentino-Alto Adige136.

Diverse proposte di legge erano state presentate nel corso della seconda legislatura, ma fu dopo il 1958 che il dibattito entrò realmente nel vivo, consentendo la creazione dell’ente nel 1963 e la sua entrata in funzione nell’anno successivo137.

Sul piano politico-amministrativo, la nascita della Regione permise la definitiva affermazione di una classe dirigente allineata alle posizioni del governo, facilitando quindi per certi versi il dialogo fra centro e periferia. Dal punto di vista economico, l’ente divenne uno dei principali fulcri dell’iniziativa sul piano locale. Gli uomini della DC poterono assumere il ruolo di

136 C. Belci, Gianni Bartoli, cit., pp. 13-14.

137 La Commissione affari costituzionali passò in esame le proposte fra il 1959 e il 1962. Molti dei

testi pervenuti erano stati avanzati da deputati friulani, che rivendicavano per Udine un ruolo preminente. La DC giuliana si impegnò in una difficile opera di mediazione, volta a ottenere il riconoscimento di Trieste capoluogo. L’iter parlamentare si concluse il 30 giugno 1963. La lentezza dell’approvazione si spiega con il complesso confronto avvenuto sul piano locale – tutto all’interno della Democrazia cristiana di Trieste, Udine e Gorizia, le cui federazioni provinciali furono le effettive ideatrici dello Statuto – e con le non poche perplessità espresse sull’ordinamento regionale da importanti esponenti del partito, come ad esempio il primo ministro Segni e una parte dell’area centrista e dorotea. La componente triestina temeva lo sbilanciamento del consiglio regionale, nel quale il Friuli aveva un maggior numero di rappresentanti. Per ottenere qualche forma di compensazione, non mancò chi chiese la concessione di un’ampia autonomia provinciale: simile proposta giunse ad esempio da Bologna, il quale era stato peraltro sostenitore di una regione corrispondente alla sola area triestina. Il compromesso venne infine raggiunto, riconoscendo alla città il ruolo di capoluogo regionale, la permanenza del Fondo di rotazione e la creazione dell’Ente autonomo del porto, arrivata a destinazione nel 1967.

«imprenditore politico»138 e si rapportarono con maggiore efficacia a Roma, grazie anche alla presenza di quei parlamentari che erano sostanzialmente mancati fino alla fine degli anni Cinquanta139. L’azione dei primi deputati democristiani triestini, Bologna e Sciolis, si concentrò inizialmente sulle pendenze lasciate in eredità dal primo decennio postbellico: sistemazione dei dipendenti pubblici che avevano dovuto abbandonare l’Istria; trattamenti pensionistici di chi aveva lavorato sotto l’Austria o in Zona B; ricollocamento delle persone assunte dal GMA, come impiegati o personale di pubblica sicurezza; indennizzo dei beni abbandonati e assistenza agli esuli (centri di raccolta profughi, sussidi, assunzioni preferenziali, edilizia popolare). L’impegno in direzione dello sviluppo si rivolse quasi esclusivamente alla creazione della Regione e alle continue pressioni esercitate per garantire risorse al Fondo di rotazione. Le priorità furono aggiornate nella legislatura successiva: le questioni appena elencate non persero centralità, ma vennero affiancate da una maggiore attenzione al nodo della crescita economica. Belci e Bologna si distinsero ad esempio sulla nascita dell’Ente porto, sui tentativi di ottenere la riduzione delle imposte su Trieste, sul finanziamento delle opere previste dal «piano CIPE» e sull’azione di stimolo all’avanzamento della loro realizzazione140.

Il primo provvedimento incisivo venne comunque assunto in precedenza all’elezione dei parlamentari giuliani e con molti anni d’anticipo sull’entrata in funzione della Regione. Nel marzo 1958 fu approvata la cosiddetta legge dei 45 miliardi: la tempistica fu probabilmente dovuta anche alla necessità di costruire consenso su scala locale, dimostrando l’impegno del centro a favore di Trieste: la promulgazione avvenne a soli due mesi dalle consultazioni che avrebbero

138 G. Sapelli, Trieste italiana. Mito e destino economico, cit.

139 Alcuni parlamentari triestini erano stati eletti anche in precedenza in altri collegi. La DC poté ad

esempio contare sulla presenza di Pecorari all’Assemblea costituente e di Tanasco nella parte finale della prima legislatura. Nessun rappresentante venne tuttavia designato dallo scudo crociato giuliano in occasione delle elezioni del 1953. Il definitivo collegamento avvenne a partire dalla terza legislatura, con la nomina di Bologna e Sciolis nel 1958.

140 Belci e Bologna si differenziarono invece sulle questioni legate al rapporto con il mondo sloveno:

il primo si adoperò ad esempio a favore delle scuole e degli istituti culturali della minoranza, schierandosi successivamente a sostegno della distensione italo-jugoslava, parte integrante della strategia morotea; il secondo continuò a distinguersi come uno dei principali referenti del mondo dei profughi, occupandosi della legislazione in loro favore e interrogando più volte il governo sui passi diplomatici che segnarono l’avvicinamento al trattato di Osimo, con la formale cessione della Zona B.

permesso alla città di designare per la prima volta i propri deputati141. Si trattava ad ogni modo di una misura di sviluppo, legata alla realizzazione di importanti quanto inderogabili infrastrutture riguardanti l’intero Friuli Venezia Giulia. Il processo fu gestito tutto attraverso la leva politica: le proposte e le decisioni furono elaborate quasi completamente all’interno del partito, che costituì in sostanza l’unico canale di mediazione, data anche la vistosa assenza dell’imprenditoria privata142. Accantonate alcune ipotesi di esenzione fiscale – come ad esempio la concessione di carburante a prezzi agevolati ed agevolazioni tariffarie a favore del porto – e l’idea di inserire Trieste negli interventi straordinari pensati per il Mezzogiorno, si optò per finanziare una serie di opere pubbliche: il raddoppio della ferrovia Pontebbana verso l’Austria e quello della linea Trieste-Mestre, il rinnovo del parco ferroviario, l’allacciamento autostradale del capoluogo giuliano con Venezia e la costruzione della diramazione per Udine, l’ampliamento del porto con la realizzazione del Molo settimo e la creazione di una galleria ferroviaria di circonvallazione per migliorare i traffici dello scalo.

L’effettiva messa in cantiere di questi collegamenti – volti a rafforzare la connessione con l’Italia e il retroterra tradizionale – fu attuata negli anni del centro-sinistra. In quella fase, la legge dei 45 miliardi fu rafforzata da un’ulteriore serie di interventi a partecipazione statale, mirati a garantire lavoro e rilancio in un contesto, dove l’isolamento geopolitico e l’immobilismo della classe dirigente economica avevano generato una stagnazione solo parzialmente mitigata da aiuti finanziari e provvidenze. L’assistenzialismo del periodo dell’emergenza aveva alimentato artificialmente il settore della cantieristica e creato un pubblico impiego elefantiaco e sostanzialmente improduttivo, che cominciò a essere gradualmente ridimensionato, pur

141 Una tempistica simile fu quella delle leggi a favore dei profughi, anch’esse varate alla fine della

legislatura. I provvedimenti riguardavano l’indennizzo dei beni italiani in Zona B, l’assunzione obbligatoria degli esuli, la concessione di mutui agevolati per artigiani e professionisti, la proroga dell’assistenza, con particolare riguardo alla questione degli alloggi popolari.

142 Le proposte vennero avanzate dal comitato provinciale della DC, sulla base di un piano di

intervento elaborato in particolare da Franzil, Delise, Caidassi e Visintin, probabilmente le personalità del partito più competenti sul fronte economico. La trattativa con Roma venne gestita dal segretario Belci e dal prefetto Palamara, in un serrato confronto con Rumor, Fanfani e con il presidente del consiglio Zoli.

continuando a costituire per i triestini una delle più rilevanti opportunità occupazionali143. Come scrive Raoul Pupo,

la politica del centro-sinistra punta in una direzione completamente diversa: l’abbandono di ogni illusoria speranza in provvedimenti taumaturgici si accompagna al rifiuto, almeno in teoria, dell’assistenzialismo indiscriminato, agli incentivi offerti preferenzialmente allo sviluppo industriale – che si ritiene suscettibile di maggiori prospettive di crescita rispetto ad un’emporialità ormai in irreversibile declino – e alla delineazione di un nuovo ruolo per Trieste, quello della «città di frontiera», che della sua scomoda posizione di confine non solo fra due stati ma fra due mondi, tenta di fare l’occasione per nuove forme di collaborazione e

di scambi144.

Furono tali logiche a condurre al secondo provvedimento economico che caratterizzò la stagione del centro-sinistra. Nel 1966, il cosiddetto piano CIPE razionalizzò la cantieristica statale: Trieste ne pagò lo scotto con la chiusura dei