• Non ci sono risultati.

UOMINI NUOVI: «NORMALIZZAZIONE» ED EGEMONIA DEMOCRISTIANA

La cessazione del GMA e il definitivo inserimento nel nesso statale italiano aprirono una nuova stagione: chiamarono la classe dirigente triestina a superare la fase della «difesa nazionale» e ad assumere più articolate responsabilità nei rispettivi campi d’azione, al fine di mettere alle spalle la provvisorietà e le aspre tensioni del primo decennio postbellico. Molti nodi restavano irrisolti: bisognava disporre il trapasso dall’ordinamento creato dagli anglo-americani a quello italiano90, recuperare al confronto democratico quei cittadini che vi erano ancora estranei e rinnovare le priorità e i protagonisti dell’élite giuliana alla guida dei partiti e dell’economia giuliana. A ciò si sommava la necessità di giungere a una serena convivenza tra italiani e sloveni, facilitare sul piano locale l’inizio del dialogo fra Italia e Jugoslavia e assorbire infine l’ulteriore imminente afflusso degli esuli istriani.

Nella DC si fece strada la consapevolezza dell’urgenza di una «normalizzazione», che trasportasse fuori dalla logica dell’emergenza una realtà investita dall’onda lunga della guerra91. Le linee guida di tale processo non

90 Dopo il 1954, il territorio fu posto sotto il controllo del Commissariato generale del governo –

l’incarico di traghettatore fu affidato al prefetto Giovanni Palamara, dotato della facoltà di promulgare leggi valide per l’ex Zona A – che si sostituì all’Ufficio zone di confine, procedendo al riassetto amministrativo, al ripristino delle cariche ufficiali e all’estensione della legislazione italiana. Alcuni provvedimenti di Palamara non contribuirono tuttavia ad alleggerire il clima politico a Trieste. Cfr. al proposito P. Purini, Trieste 1954-1963, cit., pp. 51-53. L’autore cita ad esempio il ripristino della legge del 1939 che vietava di dare ai propri figli nomi stranieri; l’attenta opera di schedatura delle organizzazioni comuniste, indipendentiste e slovene; la cancellazione di qualche centinaio di nominativi dalle liste elettorali, sulla base di reati compiuti durante l’amministrazione austriaca; la creazione di seggi elettorali all’interno dei centri di raccolta profughi; il divieto di tenere un comizio in sloveno in piazza Unità, durante la campagna per le elezioni politiche del 1958.

91 Già nel settembre 1954, il governo Scelba s’impegnò a favore dell’assorbimento dei circa 8.000

dipendenti del GMA e nel trasferimento dei profughi balcanici presenti a Trieste, i quali vennero ben

furono però individuate immediatamente: il periodo compreso tra 1954 e 1958 – anno in cui Trieste elesse per la prima volta i suoi parlamentari – fu vissuto infatti con notevole disorientamento, dallo scudo crociato e dall’intero arco dei partiti. Tante questioni investirono contemporaneamente chi aveva l’onere di condurre la vita politica, amministrativa ed economica: trovare il bandolo della matassa si dimostrò impresa ardua. Era d’altro canto improbabile che il decennio appena trascorso potesse essere superato in un batter d’occhi. Da una parte, la classe politica faticava a passare a forme d’espressione meno passionali e più mature dal punto di vista democratico, a causa della formazione avvenuta generalmente sotto il fascismo e del successivo adagiarsi – per le esigenze della battaglia nazionale, per la supplenza del GMA e per una certa mancanza di dinamismo – su una dialettica sostanzialmente sterile, improntata alla negazione dell’avversario e lontana dall’elaborazione di ipotesi innovative per Trieste. Dall’altra, i ceti dirigenti economici – rimasti in sella dopo aver stretto affari indistintamente con fascisti, tedeschi e jugoslavi – si erano assuefatti a loro volta all’assistenzialismo italiano e anglo-americano e non sembravano in grado di delineare un percorso credibile e autonomo di sviluppo92.

Si generò così un’impasse, che sembrò paralizzare una città che faceva ben poco per non sembrare incontentabile, priva spirito d’impresa, oziosa e pronta soltanto a chiedere. La situazione destava fortissime preoccupazioni: i sussidi e le misure straordinarie si erano ridotti, si erano da tempo interrotti i traffici con il retroterra finito oltre la cortina di ferro e interi comparti produttivi versavano

presto sostituiti dagli esuli della Zona B. Il 26 ottobre, il sindaco Bartoli accolse l’ingresso delle truppe italiane in piazza Unità. Nel suo discorso, tenuto davanti a una grande folla, auspicò una seconda redenzione dell’Istria nel contesto dell’Europa unita e della pace adriatica: «Occorre dimostrare non con le parole ma con i fatti, che il regime delle vendette e dei rancori è caduto, e veramente una nuova era di comprensione e tolleranza, e domani di amicizia, si apre nella vita dei due popoli confinanti». Il 2 e 3 novembre, la DC convocò il suo consiglio nazionale a Trieste. Il 4 novembre, la celebrazione della vittoria della Grande si tenne nel capoluogo giuliano e non a Roma. In quell’occasione, il primo ministro Scelba venne anche fischiato, quando giustificò la firma del Memorandum davanti alla constatazione che la diplomazia italiana non avrebbe potuto ottenere migliori risultati e quando assicurò il rispetto dei diritti della minoranza slovena. La piazza contestò vivacemente soprattutto il passaggio in cui Scelba si augurò la collaborazione fra Italia e Jugoslavia, da lui definiti paesi vicini geograficamente e complementari dal punto di vista economico.

92 Per una ricostruzione di alcuni aspetti connessi alla transizione e al disorientamento politico

seguiti al 1954, all’atteggiamento della classe dirigente economica triestina e alle proposte avanzate per risolvere il cosiddetto declino relativo cfr. S. Balestra, La questione della Zona Franca nel dibattito politico a

Trieste fra il 1954 e il 1958, in «Quaderni del Centro studi economico-politici Ezio Vanoni», n. 1-2,

gennaio-giugno 2001; Id, La Camera di commercio di Trieste tra Governo militare alleato e ritorno all’Italia, in Trieste tra

ricostruzione e ritorno all’Italia (1945-1954), cit., pp. 50-75; Id., Il ruolo della Camera di commercio di Trieste come riferimento per l’economia locale e soggetto politico, in Dopoguerra di confine, cit., pp. 389-395.

in condizioni critiche. La disoccupazione era sensibilmente più alta rispetto alla media italiana: l’incertezza del futuro assetto statuale aveva tenuto lontano gli investimenti e impedito d’agganciare il ciclo favorevole, a cui era invece andata incontro l’economia nazionale. Il porto aveva raggiunto i livelli di traffico prebellici solo alla metà degli anni Cinquanta, mentre gli aiuti ERP avevano penalizzato la piccola impresa, essendo stati indirizzati quasi esclusivamente verso i grandi stabilimenti e impiegati secondo una visione di corto respiro, tendente ad alimentare artificialmente le commesse e non a garantire una solida quanto durevole prospettiva. Diminuivano le linee di navigazione e le dimensioni delle flotte armatoriali, mancavano infrastrutture e collegamenti con il resto del paese e con l’area centroeuropea, numerosi lavoratori specializzati stavano emigrando (in particolare verso l’Australia) e la loro espulsione corrispose all’ingresso di manodopera non specializzata, giunta con l’Esodo istriano. Il ritorno all’Italia poneva insomma allo scoperto il «dualismo freudiano» di un’area prosperata ai tempi dell’Austria, grazie alla sua collocazione geografica, ma soprattutto sulla base di una decisione politica che ne aveva fatto un emporio fiorente e uno dei più importanti sbocchi sul mare dell’Europa centrale93.Le fortune economiche non avevano impedito a Trieste di sentirsi schiettamente italiana, ma il coronamento dell’irredentismo aveva significato l’ingresso in uno Stato in cui spesso prevalevano interessi opposti a quelli giuliani e che, dopo il 1954, venne sentito dalla maggioranza della popolazione come inesorabilmente lontano e noncurante nel rilanciare la città e lenirne le ferite.

93 La nozione di «dualismo freudiano» fu coniata da Carlo Schiffrer e ripresa con efficacia in G.

Sapelli, Trieste italiana. Mito e destino economico, Franco Angeli, Milano 1990. Il passaggio all’Italia nel 1918 corrispose alla «riconversione nazionale» di assicurazioni, banche e industrie e alla trasformazione di numerose attività esistenti in imprese di Stato, come accadde ad esempio per il Lloyd triestino e la cantieristica. Il fascismo s’impegnò nella transizione da un’economia emporiale – che richiedeva un collegamento con altri paesi europei – a un sistema di tipo industriale. L’irredentismo e il nazionalismo avevano tuttavia sottovalutato il ruolo economico dell’Austria e creato di riflesso un vero mito, che voleva Trieste già strettamente connessa al destino economico italiano. La classe dirigente legata al nuovo Stato si affiancò a quella mitteleuropea e a quella triestina, ma non poté bilanciare la fine del regime speciale asburgico, la concorrenza degli altri porti italiani, le conseguenze della fine dell’impero e la frammentazione dell’hinterland in unità statali più piccole. Il tentativo di creare un polo industriale privato fallì e i nuovi ceti economici si legarono alle istituzioni pubbliche, in particolare con l’IRI. Da non sottovalutare, infine, è anche l’esito della persecuzione antiebraica, che scompaginò l’assetto dell’economia giuliana.

La fase seguita al ritorno dell’Italia si caratterizzò quindi per la manifesta difficoltà, tanto sedi decisionali nazionali quanto di quelle locali, nell’individuare con prontezza i provvedimenti più efficaci per un effettivo inserimento della città nella vita del paese e per fare fronte alla necessità di un rinnovamento complessivo delle strategie politiche ed economiche. Le ragioni dello spaesamento vanno cercate in direzioni diverse: l’eccezionalità dei dieci anni precedenti; le difficoltà a superare l’impostazione emergenziale della difesa dell’italianità, da parte di una classe dirigente sclerotizzata sulle parole d’ordine della contrapposizione nazionale e della specialità a tutti i costi; la continua tentazione di richiedere indennizzi allo Stato, per quanto avvenuto nei territori di frontiera come conseguenza del conflitto; il parallelo immobilismo dell’imprenditoria privata; la sostanziale mancanza di rappresentanti triestini a Roma fino al 1958. Un certo fermento s’innescò comunque, ma esso non fu alieno da nostalgie, vittimismi e proposte mai realizzate e solo apparentemente salvifiche, come ad esempio la Zona franca94. La prima vera misura concreta fu l’avvio del Fondo di rotazione per le iniziative economiche, pensato per sostituire gli aiuti ERP attraverso l’erogazione di mutui agevolati95: esso non si discostava però da un’impostazione assistenzialista e basata in primo luogo sulla partecipazione statale. Non si può tuttavia negare che nuove tendenze

94 Pupo, Tempi nuovi uomini nuovi, cit., p. 273. «L’iniziale, larghissima adesione all’ipotesi

«zonafranchista» da parte di pressoché tutti i partiti, esprimeva soltanto il diffuso, quanto confuso, desiderio di intervento del governo italiano che, a fronte dell’eccezionalità della situazione triestina, si concretizzasse in provvedimenti altrettanto eccezionali. In questo senso, la rivendicazione della zona franca, che non arrivò mai a una definizione operativa, costituiva una sorta di grande contenitore che poteva riempirsi di significati variabili a seconda di chi l’avanzava e si prestava benissimo a venir usato come strumento negoziale per ottenere vantaggi particolaristici». La questione fu ampiamente strumentalizzata dalle forze politiche, consapevoli del grande richiamo che il mito zonafranchista era in grado di suscitare: apertamente contrari furono soltanto liberali e missini. La compattezza sul progetto fu solo apparente: grande e piccola imprenditoria avevano idee e bisogni molto diversi e lo stesso può essere detto delle varie categorie economiche e dei partiti. Se le piccole imprese sostenevano la proposta per affrancarsi dai circoli economici legati all’industria di Stato (ad esempio la cantieristica), quest’ultima preferiva assecondare la contrarietà del governo perché la Zona franca avrebbe significato dazi per vendere i propri prodotti in Italia. L’iniziativa fu portata avanti in particolare da piccoli industriali e commercianti, sebbene Associazione degli industriali e Camera di commercio optarono per chiamarsi fuori dalla discussione. Le posizioni differivano anche all’interno della Democrazia cristiana, dove sono ad esempio registrabili la contrarietà di Belci, il favore di Bologna e Rocco, i dubbi di Bartoli e Romano. Diversi iscritti alla DC parteciparono al comitato promotore della Zona franca, ma la linea ufficiale del partito non poteva certo sostenere ufficialmente una proposta che contrariava il governo. A questo proposito cfr. anche i lavori di S. Balestra già citati nella nota 90.

95 Il FRIE fu finanziato con un prestito di 30 miliardi, lanciato nell’ottobre 1954 e sottoscrivibile

dagli investitori di tutto il paese. Il fondo, utilizzato fino a pochi anni fa, concedeva mutui – non superiori al 50% delle spese – per la costruzione, la riattivazione e l’ammodernamento di impianti industriali, aziende agricole, alloggi popolari e per dare respiro al settore turistico e a quello delle costruzioni navali.

emersero proprio in quegli anni, all’interno sia dei partiti di governo che di quelli d’opposizione, con lo scopo di mutare impostazione e obiettivi: dentro le singole organizzazioni, si sviluppò così un intenso dibattito, che determinò a volte significativi avvicendamenti tra élites dirigenti fautrici di idee e soluzioni alternative, come alternative erano le visioni riguardanti Trieste e il suo futuro.

Se il 1954 aveva generato ripercussioni in tutto il mondo politico giuliano, fu in particolare lo scudo crociato a dover innestare rapidamente una nuova marcia, cominciando a liberarsi dai molti e pesanti condizionamenti del passato. Dopo il successo del 1949, il seguito elettorale democristiano era andato incontro a un graduale ridimensionamento, corrispondente alla parallela crescita della destra. La DC pagò con ogni probabilità il ruolo egemone detenuto nei governi, che avevano dato l’assenso al Memorandum e che l’opinione pubblica riteneva evidentemente colpevoli di non saper risolvere i problemi locali con un colpo di bacchetta magica. L’alleanza centrista cominciò ad arrancare, come d’altronde stava avvenendo anche a livello nazionale: ne derivò una forte instabilità e la sostanziale paralisi amministrativa del Comune, proprio quando esso si era appena liberato dalla tutela del GMA. I margini del quadripartito si restrinsero dopo le elezioni amministrative del 1956 e Bartoli dovette prima varare una scricchiolante giunta di minoranza, poi un monocolore e infine a capitolare, con il conseguente commissariamento del municipio nell’anno successivo96. Lo stallo presentò la possibilità di ricercare equilibri alternativi, anche su stimolo del dibattito che si stava sviluppando negli organi centrali del partito. Il primo passo fu segnato dal rinnovamento dei vertici provinciali della DC, ancora in mano alla componente di seconda

96 Il problema delle «giunte difficili» si era presentato in molte province dopo le elezioni del 1956: il

centrismo aveva ormai margini ridotti e la DC era ancora lontana da rompere definitivamente gli indugi nei confronti dei socialisti. Soltanto a Venezia venne avviato un esecutivo di centro-sinistra, in contrasto con le direttive di Roma: l’esperienza venne interrotta quasi immediatamente e la città passò ad un’amministrazione basata sull’alleanza fra PSI e PCI. In svariate realtà locali, in determinati frangenti, la Democrazia cristiana finì per accettare i voti di missini e monarchici: ciò accadde ad esempio a Roma, Milano, Genova, Palermo, Pescara, Brindisi, Foggia, Latina, Messina, Caserta, Imperia e Como. A Trieste, venne formata una giunta di minoranza composta da DC, PRI e PSDI: essa entrò tuttavia in crisi per la spinta dei socialdemocratici a trovare un accordo politico con il PSI, che escludesse con certezza i condizionamenti che il PLI avrebbe potuto avanzare attraverso un appoggio esterno. Bartoli preferì a quel punto varare un esecutivo monocolore, che però cadde durante l’approvazione del bilancio di previsione nel 1957. Il sindaco dovette rifiutare il sostegno del MSI, su pressione della nuova maggioranza interna di Iniziativa democratica. Bartoli si dimise il 27 agosto 1957, dopo otto anni trascorsi alla guida del municipio.

generazione. Nel maggio 1957, una nuova maggioranza si impose dentro lo scudo crociato triestino, portando alla ribalta i sostenitori di Iniziativa democratica, la corrente capeggiata da Fanfani, nella quale erano confluite la tendenza dossettiana e l’area degasperiana più avanzata97. Il segretario Romano cedette il posto a Belci e, solo pochi mesi dopo, uscì di scena anche Bartoli, il quale dovette constatare la mancanza dei numeri sufficienti a continuare la propria parabola in municipio98: da un lato, i tempi non erano considerati ancora maturi per un allargamento a sinistra che comprendesse i socialisti; dall’altro l’avvento di Iniziativa scongiurò l’opzione di un sostegno esterno del MSI, che il primo cittadino e una parte consistente del movimento cattolico avrebbero pur accettato per rimanere in sella, confortati apertamente in questa ipotesi dallo stesso vescovo Santin. Un nuovo ciclo si stava aprendo: il cambio alla guida della Democrazia cristiana venne immediatamente consolidato con l’inedito inserimento di propri uomini in alcuni importanti enti locali economici99 e, nel 1958, con l’elezione dei primi parlamentari e del sindaco Franzil.

Il presente contributo intende concentrare la sua analisi soprattutto su quest’ultima fase, ovvero quella in cui lo scudo crociato poté dar il via alla costruzione di un’egemonia politica e amministrativa – coronata sul piano locale dall’istituzione della Regione a statuto speciale – protrattasi fino alla fine

97 Le nuove leve poterono imporsi anche sfruttando le incomprensioni fra il segretario Romano e il

sindaco Bartoli. In un primo momento, i «trentenni» avevano appoggiato le posizioni di Romano, il quale riteneva che la DC fosse eccessivamente schiacciata dalla preminenza di Bartoli e non riuscisse quindi a dettare la linea amministrativa, subendo al contrario l’iniziativa del Comune. Da questo punto di vista, l’approccio di Bartoli può in qualche modo ricordare quello di De Gasperi, che tendeva a interpretare il partito come funzionale all’azione di governo. Nel 1957 il rapporto tuttavia si invertì: Iniziativa democratica puntava alla segreteria e, per battere Romano, strinse una momentanea alleanza con il sindaco, che fu addirittura candidato nella lista degli «aperturisti», nonostante le sue posizioni fossero certo più vicine a quelle del centrismo. Il patto stretto fu probabilmente reputato strumentale da ambo le parti: da un lato, le nuove leve cercarono il maggior numero di appoggi possibile per avviare il ricambio; dall’altro Bartoli riteneva forse che i giovani al vertice del partito sarebbero stati più controllabili del segretario uscente.

98 Bartoli venne in seguito candidato al Senato nel 1963. La campagna elettorale fu impostata

insistendo sul fatto che Bartoli era l’unico esponente triestino non comunista ad avere speranza di essere eletto. L’ex sindaco attirò sul proprio nome oltre 35.000 preferenze, più del 34% dei voti. Il risultato non fu tuttavia sufficiente, dal momento che diversi candidati friulani avevano superato il 40% dei suffragi. Trieste mandò così al Senato il comunista Vittorio Vidali, che aveva raccolto meno voti di Bartoli.

99 Nel 1957, il democristiano Romano Caidassi sostituì Pierpaolo Luzzato Fegiz alla guida della

Camera di commercio, mentre Tanasco fu nominato ai Magazzini generali, ovvero alla gestione del porto. Da questo momento, partito ed enti economici cominciarono a intrecciarsi, avviando un processo che si sarebbe consolidato con tutta evidenza nel decennio successivo e che avrebbe condotto la DC a controllare settori della vita triestina tradizionalmente in mano alle élites liberali.

degli anni Settanta. La scelta non è dovuta alla sottovalutazione dell’importanza del primo decennio postbellico, ma alla necessità di lavorare sulle fonti finora disponibili e alla volontà di cominciare a esaminare un periodo ancora poco trattato dalla storiografia, durante il quale la DC e gli alleati che di volta in volta la affiancarono dovettero misurarsi con la responsabilità dell’ordinaria amministrazione e delineare un programma articolato, mirante a portare Trieste fuori dalle paludi dell’eccezionalità, dell’assistenzialismo economico e della contrapposizione fra gruppi nazionali. Se da tale punto di vista il 1954 è data periodizzante per ovvie ragioni, la metà degli anni Sessanta lo diventa perché fu in questo torno di tempo che giunsero a compimento alcune novità di grande rilevanza per il prosieguo del processo di «normalizzazione». La svolta che il partito impresse a sé stesso – a cominciare dal rinnovamento del suo ceto dirigente – condusse al raggiungimento di alcuni frutti di indubbio rilievo, come il varo della Regione autonoma (1964)100 e l’alleanza di centro-sinistra con il Partito socialista e l’Unione slovena (1965), che fu la prima prova tangibile dell’intenzione di instaurare un rapporto nuovo con la minoranza. Il 1966 segnò inoltre il tentativo – sulla cui efficacia gli storici sono tuttora chiamati a indagare – di procedere alla ristrutturazione dell’economia giuliana, intrecciandone più saldamente le sorti con quelle dell’intero paese e provando a invertire un sempre più evidente declino produttivo, attraverso il piano di razionalizzazione e di intervento statale, elaborato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica, dall’Istituto per la ricostruzione industriale e dai partiti di governo.

Dopo essere stata protagonista della cosiddetta difesa nazionale, la Democrazia cristiana si trovò ad amministrare la città in un passaggio decisivo, che ne segnò la storia futura e che vide compiersi importanti novità all’interno dello stesso mondo cattolico. Fu una fase cruciale, durante la quale il partito