Alla fine del conflitto, Trieste non riuscì a trovare la pace52: fu infatti occupata per quaranta giorni dall’esercito jugoslavo e dovette sopportare il carico di violenze e deportazioni perpetrate ai danni non soltanto del collaborazionismo, ma anche degli antifascisti democratici italiani, costretti a tornare in clandestinità per salvarsi la vita. L’assetto definitivo della Venezia Giulia rimase un’incognita fino al 1954, dopo la divisione in Zona A e Zona B sancita dal trattato del 1947 e la non breve fase di tutela del Governo militare alleato. Il dopoguerra si allungò a dismisura e la città fu pesantemente solcata dallo scontro di natura ideologica e nazionale, che monopolizzò il dibattito e divenne da subito fonte primaria di consenso e identificazione per partiti e associazioni. In assenza di un momento «costituente» unitario, paragonabile a quello che aveva accompagnato i primi passi della neonata democrazia italiana, nemmeno le impellenti necessità della ricostruzione materiale, civile e morale poterono affievolire il clima da guerra fredda e la contrapposizione frontale tra fautori di soluzioni ideologiche e statuali in stridente alternativa53. La dialettica non fu solo politica – i partiti fra loro avversari e i rispettivi vertici – ma coinvolse in prima persona le istituzioni italiane e jugoslave, che scesero in campo cercando di esercitare un controllo sul terreno e foraggiando
52 Per una ricostruzione dell’immediato dopoguerra triestino cfr. N. Troha, Chi avrà Trieste?, cit.; R.
Pupo, Trieste ’45, cit.
53 R. Pupo, L’Italia e la presa del potere jugoslava, cit., p. 106. «La coincidenza della linee di frattura
legate alla volontà di appartenenza statuale con quelle di ordine ideologico, sociale e religioso, avrebbe proposto con largo anticipo una logica di divisione fra blocchi contrapposti, portatori ciascuno di una risposta globale e non negoziabile alle aspettative della società locale, che il sistema politico italiano avrebbe conosciuto solo in anni successivi. Nell’estate del 1945 per i giuliani la guerra fredda era già una realtà».
copiosamente le organizzazioni amiche e ogni strumento di propaganda a disposizione54.
Il ripristino delle prime forme di democrazia fu garantito dalla presenza – a volte decisamente ingombrante – dei militari anglo-americani, che subentrarono ai poteri popolari jugoslavi, optando per porre sotto il proprio controllo tutte le competenze del governo: amministrazione, economia e impiego dei fondi del Piano Marshall. Il GMA – un organismo esterno e difficilmente influenzabile – si caratterizzò per una gestione complessa del dialogo con le forze locali: difficile e improntato a reciproca diffidenza rispetto allo schieramento italiano, assolutamente conflittuale con il Partito comunista, che aveva scelto comunque con i fatti di autoemarginarsi dalla ricostruzione, ma verso cui fu ad ogni modo applicata la strategia del contenimento. Il «governo diretto» impose nella sostanza una situazione di sovranità limitata: la priorità era quella di mantenere l’ordine pubblico e scongiurare una possibile
escalation verso la guerra civile, tanto più che molte armi erano ancora in
circolazione e i comunisti perseguivano il proprio progetto di destabilizzazione, mobilitando di continuo i lavoratori attraverso il sindacato. La prassi democratica non rappresentava certo il primo punto nell’agenda del GMA, cui interessava invece salvaguardare anzitutto la legalità: il timore di un’affermazione delle sinistre fece sì che i partiti fossero privati della possibilità di misurare il proprio seguito tramite libere consultazioni e i rappresentanti negli enti locali furono nominati dall’alto fino al 1949, data in cui si tennero le prime elezioni comunali. Successivamente, pur davanti a una progressiva quanto relativa attenuazione del direct rule, essi ebbero in sorte competenze marginali e non poterono manovrare in proprio le leve fondamentali dell’autogoverno fino al 1954: persero così l’opportunità di garantirsi visibilità e
54 Il governo italiano attivò ad esempio l’Ufficio zone di confine, sottoposto al controllo politico di
Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. L’UZC rimase in attività fino al 1954, con la finalità di coordinare l’azione dello Stato nella Venezia Giulia e nell’Alto Adige. Per quanto riguarda il confine orientale, l’Ufficio servì essenzialmente a monitorare capillarmente la situazione, elaborare strategie complessive per le forze politiche pro Italia presenti sul territorio e finanziare le organizzazioni e le forme di propaganda tese in direzione della difesa dell’italianità. L’archivio dell’UZC è stato aperto agli studiosi in tempi recentissimi e rappresenta senza dubbio una fonte di grande rilevanza per lo studio del primo decennio postbellico. Le possibilità aperte dalla ricerca sono presentate in UZC.
Ufficio per le zone di confine, a c. di R. Pupo, in «Qualestoria», n. 2, dicembre 2010.
radicamento e, per evitare di venire completamente delegittimati, cercarono nella piazza la ragione principale del consenso.
Il futuro incerto e il deficit democratico che lo accompagnò anche dopo il ritorno all’Italia – le elezioni politiche si tennero soltanto nel 1958 per la Camera e cinque anni più tardi per il Senato – non poterono non avere riflessi sul movimento cattolico giuliano. Quest’ultimo, il partito che ne era espressione, la gerarchia ecclesiastica e il settimanale diocesano «Vita Nuova»55 si presentarono così fin dal primo momento come alfieri della difesa nazionale. Mons. Santin e la Curia seguitarono a giocare un ruolo centrale e, sebbene in un clima mutato, il vescovo continuò per certi versi a incarnare il ruolo del defensor civitatis ben oltre gli anni della guerra, consolidando ulteriormente il «rovesciamento nel rapporto fra la società locale e la Chiesa», la quale si pose inequivocabilmente come effettivo baluardo dell’italianità e dell’anticomunismo, vedendosi riconosciuta in questa funzione dalla stessa opinione pubblica56.
La Democrazia cristiana dovette adattarsi alle peculiarità di tale scenario: si mosse in una città sganciata dallo Stato italiano e fece fronte all’assenza di tradizione e di un reticolo organizzativo consolidato. Lo scudo crociato assunse forzatamente una fisionomia specifica, che ne marcò la diversità non soltanto rispetto alle esperienze compiute in altre aree del paese, ma anche al vicino Friuli57. La supplenza e la legittimazione esterna giocate dalla gerarchia ecclesiastica durante gli anni più bui del conflitto furono centrali nel processo, che consentì alla DC di diventare la pietra di volta del sistema politico triestino postbellico. I democratici cristiani raccolsero il testimone di Santin e ne fecero il primo strumento per la costruzione del proprio seguito, ponendosi come stabile punto di riferimento di larghi strati di cittadini: dai ceti popolari di sentimenti
55 Sull’attività editoriale di «Vita Nuova» nel dopoguerra cfr. A. Dessardo, Giornalismo e politica:
cattolici democratici, Chiesa e Democrazia cristiana a Trieste attraverso le pagine di «Vita Nuova» (1945-1965), in
«Qualestoria», n. 2, dicembre 2009; Id., «Vita Nuova» 1945-1965. Trieste nelle pagine del settimanale diocesano, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel FVG, Trieste 2010.
56 R. Pupo, Il «Partito italiano». La DC di Trieste, cit, p. 47. Cfr. inoltre C. Belci, Gli uomini di De Gasperi
a Trieste, cit., p. 19. L’autore scrive che i fondatori della DC si dimostrarono pienamente capaci di
conciliare «l’antico dilemma della fedeltà alla Chiesa e della fedeltà alla Patria».
57 R. Pupo, Il «Partito italiano». La DC di Trieste, cit., p. 45. La DC costruì la propria egemonia sulla
questione nazionale, grazie cioè alla capacità «di diventare il partito nazionale italiano per eccellenza, vale a dire il più credibile difensore dell’italianità di Trieste in quegli anni turbolenti». L’autore definisce una «specifica anomalia democristiana» il successo in una realtà priva di tradizioni di impegno politico dei cattolici e in cui la Chiesa aveva avuto un’influenza marginale.
italiani a una piccola e media «borghesia patriottica» tendenzialmente laica58, che in molti casi trovò i nuovi interpreti dell’italianità al confine orientale nella Chiesa e nel suo vescovo, dopo essere stata sottoposta a decenni di propaganda liberal-nazionale e fascista59.
La capacità di offrire credibili garanzie nell’ambito della difesa nazionale era affiancata dalla pressoché completa estraneità del nuovo ceto dirigente alla dittatura: il volto «pulito» contò forse più della partecipazione vera e propria alla Resistenza. Questa fu certamente banco di prova e prima occasione di esposizione pubblica, ma il suo peso nel garantire favore è in verità tutto da dimostrare. Non si dimentichi al riguardo che l’antifascismo italiano rimase a Trieste un fenomeno elitario e relativamente isolato, costretto a una funzione di prevalente testimonianza politica, la cui visibilità all’esterno è piuttosto difficile da valutare. La milizia cospirativa riguardò la maggioranza dei fondatori più conosciuti della Democrazia cristiana, ma non ebbe certo carattere di massa e costituì forse più l’ultimo passo della formazione politica della futura classe dirigente, che l’essenziale motivo del riconoscimento che l’elettorato avrebbe di lì a poco tributato al cattolicesimo politico giuliano. Bisogna infine evidenziare che nei ranghi della DC triestina mancò praticamente del tutto la presenza di uomini emersi attraverso la Resistenza, che fossero al contempo autonomi dall’Azione cattolica: coloro i quali si impegnarono nel CLN erano nella stragrande maggioranza dei casi espressione dell’associazionismo ecclesiale, prima fonte di reclutamento del ceto dello scudo crociato.
I democristiani si presentarono quindi come una forza non compromessa con il passato ed ereditarono il ruolo svolto dalla gerarchia nel vorticoso finale del conflitto. Il medesimo fenomeno aveva d’altronde riguardato la classe dirigente nazionale. Da una parte, l’antifascismo dei rappresentanti centrali e
58 R. Pupo, Una città di frontiera. Profilo storico del dopoguerra triestino, in Id. Guerra e dopoguerra al
confine orientale, cit., p. 241.
59 In un appunto dattiloscritto (fotocopia in mio possesso), Botteri scrive che nel dopoguerra Santin
«aveva puntato, per i vertici delle strutture del laicato cattolico, su esponenti della società triestina (e istriana) della borghesia medio-alta, spesso erede di tradizioni e posizioni nazionalistico-conservatrici», perfino legata ad ambienti massonici e compromessa col fascismo. Si trattava evidentemente del tentativo di inserire nell’ACI elementi riconosciuti in ambienti tradizionalmente lontani dal movimento cattolico, che peraltro condividevano le posizioni del vescovo per quanto riguardava la chiusura a sinistra e la questione della Zona B e dei profughi. Secondo Botteri, in quest’ottica va letta la nomina dell’avvocato Sardos Albertini alla presidenza dell’ACI e la presenza di esponenti della società civile come gli avvocati Morgera e Vinciguerra.
periferici era generalmente riconosciuto e difficilmente messo in discussione, così come le repressioni subite da numerosi ex popolari e la dignità politica e civile mantenuta dalla maggioranza di essi durante il Ventennio. Dall’altra, gli uomini della DC si posero rapidamente alla testa della battaglia anticomunista, avviata dalla Chiesa già nell’ultima fase del conflitto. Nel caso locale, l’ascesa della nuova élite e le sue scelte politico-programmatiche affiancarono questo fondamentale punto alla lotta per l’italianità di Trieste, due aspetti uniti da un filo doppio, data la collocazione geopolitica della Venezia Giulia. Fu appunto su tali elementi che si forgiò la specifica identità della DC. I meriti accumulati a cominciare dal 1943 e l’evidente vuoto di potere generato dalla caduta del fascismo fecero sì che il simbolo dello scudo crociato divenisse quello del «partito italiano», il collegamento più efficace con i governi De Gasperi e, almeno negli anni di più acuta emergenza, esso venne percepito da vasti strati dell’opinione pubblica come l’assicurazione delle maggiori tutele e della miglior mediazione possibile rispetto agli interessi di una città dal futuro sospeso e incerto60. La Democrazia cristiana si collegò rapidamente agli organismi centrali e alle personalità del partito presenti nelle istituzioni: instaurò fondamentali relazioni con i vertici politici e con il governo, diventò interlocutrice privilegiata dell’Ufficio zone di confine e inserì i propri esponenti nelle articolazioni del governo del territorio, come nel caso della Presidenza di zona, affidata a Palutan e finalizzata a costruire uno snodo nel confronto con l’Italia e il Governo militare.
Tradizioni politiche alternative a quella cattolica avrebbero potuto difficilmente affermarsi nella compagine italiana. I cosiddetti partiti laici minori non avevano alle proprie spalle un seguito importante e organizzazioni collaterali sufficientemente ramificate per generare ampio consenso. Il socialismo aveva visto la propria base aderire in gran maggioranza alle tesi del comunismo, sostenitore della soluzione jugoslava fino al 1948 e poi dell’ipotesi del TLT. L’indipendentismo, collettore di variegate posizioni protestatarie, si mostrava a sua volta una forza apertamente avversa al collegamento con
60 R. Pupo, Il «Partito italiano». La DC di Trieste, cit. Cfr. inoltre G. Valdevit, Dalla crisi del dopoguerra
alla stabilizzazione politica e istituzionale, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi, cit., pp. 581-661; A.
Verrocchio, La costruzione del sistema politico a Trieste, cit.
l’Italia61. La destra ultranazionale – monarchica, missina e liberal-nazionale – era dotata di un radicamento consistente, ma rappresentava un’area poco credibile per l’ampia fetta del ceto medio moderato e tendenzialmente governativo. Questa componente si dimostrò tuttavia in grado di suscitare una sorprendente e crescente simpatia, testimoniata da cospicui risultati elettorali: non è un caso che numerosi elementi d’estrazione liberal-nazionale continuarono a detenere a lungo uno spazio nel controllo della città e in particolare dei suoi gangli economici.
L’affermazione dello scudo crociato divenne tangibile in seguito alle consultazioni del 1949, tenute ben quattro anni dopo la fine della guerra: la DC aveva avuto il tempo necessario per presentare il proprio punto di vista e gli uomini che ne costituivano il nerbo, buona parte dei quali mai saliti in precedenza alla ribalta nello spazio pubblico, se non attraverso l’associazionismo cattolico. La difesa nazionale influenzò in maniera totalizzante il dibattito della campagna elettorale, che rischiò pure di avventurarsi per pendii molto scoscesi, dal momento che nei mesi precedenti prese corpo l’ipotesi – propugnata dal governo stesso – di dar vita a un blocco di tutte le forze italiane senza pregiudiziali a destra62. Pur davanti al prevalere del tema dell’identità nazionale e non senza qualche iniziale tentennamento, la Democrazia cristiana ebbe la forza di rifiutare una simile tentazione e decise di
61 La prospettiva indipendentista animò settori anche molto diversi della società triestina: i
continuatori della tradizione autonomista, i socialisti d’ispirazione austro-marxista, gli sloveni non comunisti, i piccoli operatori economici, i nostalgici dell’Austria e i delusi dall’Italia. L’indipendentismo interessò da vicino anche il Partito comunista della Venezia Giulia: al proposito cfr. A. Verrocchio, La
costruzione del sistema politico a Trieste nel secondo dopoguerra. Le anomalie del caso locale, in Dopoguerra di confine, cit., pp. 23-33; P. Karlsen, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Libreria editrice goriziana, Gorizia 2010. Cfr. inoltre Il comunismo a Trieste, a c. di G. Botteri, Del
Bianco, Udine 1961.
62 Su tale aspetto cfr. G. Sabini, La lotta politica nel Territorio libero di Trieste e il fronte italiano, Arti
Grafiche Cappelli, Rocca San Casciano 1955. Fu all’interno della Giunta d’intesa che i partiti italiani discussero l’eventualità di una lista unitaria. La Giunta fu costituita dopo lo scioglimento del Comitato di liberazione nel 1947 e formalmente riconosciuta dal governo italiano, che gestiva i rapporti con essa attraverso l’Ufficio zone di confine. Al suo interno operavano la Democrazia cristiana, il Partito repubblicano d’azione, il Partito socialista della Venezia Giulia e, in un raggruppamento unitario, liberali e qualunquisti, che pure non avevano fatto parte del CLN. La Giunta appoggiava la limitata azione del presidente di zona e del sindaco nominato dal GMA. Quest’ultimo rifiutò tuttavia di accreditare l’organismo di coordinamento quale interlocutore ufficiale: davanti a tale situazione, ai partiti italiani non restò che occuparsi di propaganda e mobilitazione politica, attraverso la stampa e l’azione di collegamento con Camera del lavoro, CLN dell’Istria, associazioni sportive, culturali, giovanili e ricreative. Sabini afferma che l’unità d’intenti cominciò a vacillare dopo il 18 aprile 1948, quando la DC chiese maggiore spazio e pressò per rivedere il sistema di rappresentanza paritetica della Giunta, che venne sciolta poco dopo le elezioni del 1949.
non polarizzare la discussione esclusivamente sulla contrapposizione fra un indistinto raggruppamento italiano e il cosiddetto pericolo slavo-comunista63. La campagna elettorale fu condotta in nome del «plebiscito d’italianità», ma la DC scelse di puntare sul pluralismo politico, distinguendo così le forze democratiche da quelle che non lo erano, ottenendo un buon successo in termini di voti e ponendosi da quel momento in poi alla guida di giunte quadripartite, composte con il Partito liberale, il Partito repubblicano e il Partito socialdemocratico.
Il responso delle urne – trainato certamente dall’esito del 18 aprile 1948 – consentì allo scudo crociato di posizionarsi al centro dello spazio politico, sebbene soltanto l’uscita di scena degli anglo-americani avrebbe fatto ricadere a pieno l’amministrazione sulle sue spalle. Anche se favorito dalle ragioni che abbiamo visto, il successo dei cattolici fu un fatto del tutto inedito e parzialmente inaspettato poiché, fino a quel momento, il GMA aveva scelto come interlocutori privilegiati i liberali, i repubblicani d’azione e i socialdemocratici64. Dopo una fase embrionale durata poco meno di un lustro, la
63 L’ipotesi di un blocco unitario era d’altra parte poco gradita anche in ambito confessionale. Cfr. al
proposito I cattolici triestini e istriani di fronte all’idea nazionale, in «Vita Nuova», 14 maggio 1949. «Il frazionamento elettorale in diverse liste, offre ai cattolici triestini e istriani ciò che la lista unica difficilmente avrebbe offerto: ossia la possibilità di tutelare al tempo stesso le esigenze della coscienza cristiana e quelle della coscienza nazionale. […] Non è buona e sufficiente compagnia quella del primo che s’incontri per istrada, purché sia munito d’un tricolore e sappia ben cantare le canzoni nazionali». Cfr. inoltre C. Belci, Memorie di trent’anni, cit., p. 37. L’autore spiega che contro l’alleanza indistinta si schierarono i pochi dossettiani attivi nel partito, alcuni dirigenti «progressisti» e i sindacalisti cattolici: «Noi sostenemmo la ragione ideale, l’opportunità di presentare al mondo Trieste con l’immagine della nuova Italia democratica, questo sarebbe stato il vero «plebiscito». Ma non tacevamo neanche la ragion tattica, cioè la probabilità di un più vasto schieramento calcolabile come «pro Italia» attraverso l’articolazione delle varie liste dei partiti italiani, anziché una lotta «muro contro muro». Eravamo per una italianità espressa e vissuta, appunto la manifestazione dell’immagine della cultura, quindi anche dei partiti, del paese; piuttosto che per un’italianità solo «dichiarata», e in qualche caso – secondo noi – anche solo declamata». Ufficialmente i vertici della DC presero una posizione più sfumata: si schierarono pubblicamente a favore della lista unitaria – guidata dalla medaglia d’oro Guido Slataper – e attesero che fosse il PSVG a rigettarla definitivamente. La DC poté così sfruttare tanto la carica nazionale, quanto quella derivante dalla propria specifica identità.
64 R. Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi, cit., pp. 146-147. La nomina delle persone chiamate nel
dopoguerra a prestare il proprio contributo negli organi amministrativi emanazione del GMA privilegiò l’area laica (liberale, mazziniana e socialdemocratica), i cui esponenti ottennero le cariche più prestigiose e un maggior numero di rappresentanti. Il primo consiglio comunale costituito nel 1945 vedeva il 24% dei posti assegnati a socialdemocratici, il 23,5% a repubblicani-azionisti, il 15,5% a democristiani e il 14% ai liberali. L’azionista Michele Miani fu scelto quale primo sindaco di Trieste, il liberale Bruno Forti venne indicato come presidente del consiglio comunale, il socialdemocratico Edmondo Puecher ottenne la presidenza di zona e il liberale Ferdinando Gandusio fu chiamato a presiderne l’assemblea (il consiglio di zona, cui erano demandate soltanto funzioni consultive). Davanti alla mancanza di elezioni che misurassero la reale rappresentatività delle forze politiche, Pupo ipotizza che gli anglo-americani si fossero affidati anche a legami di tipo massonico per la scelta degli elementi da designare. Il primo esponente del movimento cattolico a essere inserito negli enti precedentemente citati fu Palutan, che nel
Democrazia cristiana si dimostrò tuttavia in grado di costruire un consenso ragguardevole e di uscire definitivamente dall’anonimato. La DC entrò in municipio dalla porta principale e rimase saldamente al comando del Comune e dell’amministrazione cittadina fino alla fine degli anni Settanta, incaricandosi di gestire la transizione dal fascismo alla democrazia e gli anni difficili della contrapposizione fra Italia e Anti Italia. Il suo obiettivo prevalente divenne quello «di costruire una cittadinanza italiana democratica di massa»65, che consentisse l’approdo a una democrazia compiuta, non influenzata da fattori esterni come il GMA.
L’esperienza del centrismo si sarebbe conclusa nel 195866, ma risultò connotata fino all’ultimo dal clima di emergenza, che perdurò anche nella fase a ridosso del ritorno all’Italia. Le particolari urgenze dell’ora e la mancanza di