L’analisi del profilo di un ceto dirigente politico-amministrativo e dei processi di reclutamento che lo riguardano può prendere le mosse da molti punti di partenza, ma è forse la disamina condotta sugli organi direttivi quella che meglio può spiegare le mutazioni socio-anagrafiche e le svolte politiche, che intervengono in concomitanza di alcuni snodi fondamentali nella vita di un partito. Nel caso della Democrazia cristiana di Trieste la cesura è facilmente individuabile nel congresso provinciale dell’11-12 maggio 1957, durante il quale si verificò un importante ricambio, in cui aspetto generazionale e collocazione correntizia rappresentarono variabili altrettanto significative e in parziale connessione.
Fino a quel momento la DC era stata retta dai fondatori, rimasti in sella dal dopoguerra al congresso che segnò la cosiddetta scalata dei trentenni. La «vecchia guardia» era costituita in assoluta prevalenza dalla generazione nata tra 1900 e 1920, ovvero da uomini che nel 1957 si trovavano ad avere più o meno tra i quaranta e i cinquant’anni. Si trattava di un gruppo tendenzialmente omogeneo dal punto di vista anagrafico, sociale e delle posizioni politiche: i suoi membri avrebbero preso strade diverse negli anni successivi al ritorno all’Italia, ma fino a quel punto erano stati accomunati dall’età, da un percorso formativo non dissimile e dal fatto di aver partecipato alla nascita e alla gestione della Democrazia cristiana negli anni difficili della difesa nazionale e
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dei governi degasperiani39. Tra essi è possibile individuare personalità centrali per lo scudo crociato, come Gianni Bartoli, Redento Romano, Mario Franzil, Narciso Sciolis e Teodoro de Rinaldini40. I primi due avevano già raggiunto l’apice della carriera, rispettivamente come sindaco e come segretario provinciale. Gli altri si sarebbero invece affermati del tutto poco tempo dopo, affrancandosi dall’ormai obsoleto ruolo di «notabili» e aderendo alla corrente di Iniziativa democratica, che assunse la guida della DC nel 1957, raccogliendo e in parte amalgamando nel suo seno il settore più avanzato della componente degasperiana e la piccola pattuglia dei dossettiani. Questi ultimi avevano goduto a Trieste di uno spazio assai limitato a causa di molteplici fattori: la particolare condizione della città, la natura della sua lotta politica e, forse soprattutto, la collocazione periferica, che finiva per ridurre la presa delle tendenze minoritarie e la possibilità di costruzione di un retroterra culturale simile a quello che aveva permesso la formazione e la crescita dei «professorini», i quali avevano fornito linfa e concretezza alla visione di Giuseppe Dossetti41. L’iniziale marginalità del dossettismo giuliano non impedì comunque che, alla fine degli anni Quaranta, prendesse forma un drappello di giovani militanti – alcuni poco più che ventenni – che si collocarono fin da subito all’opposizione interna e che negli anni a venire avrebbero occupato rilevanti posizioni politiche ed istituzionali. Tra questi si possono senz’altro ricordare Corrado Belci, Giacomo Bologna, Guido Botteri e Nereo Stopper.
La dirigenza espressa dalla «vecchia guardia» non fu comunque mai messa seriamente in discussione per tutto il primo decennio di vita della Democrazia cristiana e uscì nuovamente riconfermata il 5-6 marzo 1955, in occasione del primo congresso seguito al ritorno all’Italia (Tab. 2 e Tab. 3). La segreteria di Romano, cominciata nel 1951, fu rinnovata per l’ultima volta e poté contare su un’ampia maggioranza in comitato provinciale: undici esponenti del
39 Per la ricostruzione delle biografie dei principali esponenti della «vecchia guardia» democristiana
di Trieste cfr. C. Belci, Gli uomini di De Gasperi a Trieste, cit.
40 Per le biografie di questi uomini e di altri esponenti della DC triestina cfr. l’appendice alla fine di
questo volume. Sulla figura di Gianni Bartoli cfr. C. Belci, Gianni Bartoli, cit.
41 Sul ruolo dei dossettiani cfr. in particolare G. Campanini, Fede e politica (1943-1951). La vicenda
ideologica della sinistra DC, Editrice Morcelliana, Brescia 1976; P. Pombeni, Le Cronache sociali di Dossetti (1947-1951). Geografia di un movimento d'opinione, Vallecchi, Firenze 1976; Id., Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana, cit.; G. Tassani, La terza generazione. Da Dossetti a De Gasperi, cit.
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gruppo dei fondatori – tra cui due gronchiani – riuniti sotto il cartello di Concentrazione democratica (quasi il 79%), che lasciò all’opposizione di Iniziativa democratica soltanto tre dei quattordici posti allora disponibili (21% circa)42. La DC di Trieste si dimostrava pertanto in ritardo rispetto all’evoluzione verificatasi a livello centrale nel partito, dove proprio la spinta garantita da Iniziativa aveva permesso alla leadership di Amintore Fanfani di imporsi nel 1954, dopo l’uscita di scena di De Gasperi43. La linea politica dei vertici giuliani – fortemente influenzata dalla questione nazionale – era dunque diversa, ma il dato anagrafico è invece decisamente sovrapponibile a quello dei principali collaboratori del nuovo segretario nazionale: la generazione predominante localmente nello scudo crociato era infatti quella dei quaranta-cinquantenni (1900-1920). La presenza in comitato provinciale dei nati nel decennio successivo non era irrilevante (cinque su quattordici: poco meno del 36%), ma uno sguardo alla composizione dell’esecutivo44 permette di affermare
42 Nel 1955 il comitato provinciale era composto da quattordici persone – il cui numero fu innalzato
a trenta dal 1957 in poi – elette dal congresso in rappresentanza delle varie mozioni. Il comitato presiedeva tutte le più importanti attività del partito: vigilanza sui dettati congressuali, questioni finanziarie, partecipazione alle elezioni, elaborazione dei programmi e delle liste di candidati, coordinamento dell’opera dei democristiani negli enti pubblici, convocazione dei congressi, deliberazione sulla costituzione o modifica delle sezioni sul territorio. L’organo eleggeva inoltre al proprio interno il segretario provinciale, il vicesegretario amministrativo e i membri dell’esecutivo provinciale, oltre a scegliere le persone da inserire nelle giunte degli enti locali. Il comitato era composto inoltre da numerosi elementi dotati di voto soltanto consultivo: i parlamentari, il consigliere nazionale, il sindaco, i rappresentanti dei gruppi consiliari presso i Comuni di Trieste e Muggia e presso la Provincia, il direttore del periodico di partito, i delegati delle specializzazioni (femminile, giovanile e professionale), il segretario responsabile della corrente sindacale cristiana, quelli del comitato interzonale istriano, del comitato comunale e delle sezioni di Muggia e Duino (comuni autonomi). Fino alla metà degli anni Cinquanta, i segretari delle sezioni comunali, i delegati delle specializzazioni, i segretari delle zone di Capodistria e Buie e quello del comitato comunale ebbero diritto di voto. Con il passaggio a trenta membri, tutti i cooptati passarono invece al semplice voto consultivo. Gli esponenti più in vista tra essi dovevano perciò limitarsi a svolgere un ruolo di moral suasion rispetto a coloro i quali potevano esprimersi col voto. Le elaborazioni statistiche considerano quindi solo questi ultimi.
43 Il congresso nazionale di Napoli del 16-29 giugno 1954 indicò come nuovo segretario Fanfani e
affidò la maggioranza interna a Iniziativa democratica, alleata in quell’occasione con la sinistra di Base. All’opposizione si insediarono la sinistra gronchiana e sindacale e la lista Primavera di Andreotti. Il congresso triestino del 5-6 marzo 1955 presentò in forma semplificata la medesima dialettica tra correnti, contrapponendo Iniziativa a Concentrazione democratica, nata nel frattempo alla fine del 1954, attraverso il coinvolgimento del centro-destra del partito e dei gronchiani. A Trieste s’impose tuttavia Concentrazione e non Iniziativa: lo scenario politico della DC nazionale era quindi esattamente ribaltato rispetto a quello giuliano. A ciò si aggiunga l’assenza della Base e di Forze sociali.
44 L’esecutivo della DC di Trieste era composto da un numero variabile di persone: nell’arco
cronologico considerato, esso passò da sette membri (1955), a nove (1957-1959), a undici (dal 1961). Comprendeva il segretario, il vicesegretario amministrativo, il vicesegretario politico e una serie di dirigenti, come ad esempio i responsabili dell’organizzazione, della formazione e della propaganda, dei problemi del lavoro e di quelli assistenziali. Alle riunioni partecipavano inoltre i delegati delle specializzazioni (femminile, giovanile, movimento professionale), che avevano voto consultivo e che per tale ragione non sono stati considerati nelle tabelle riportate in appendice. L’esecutivo era nominato dal comitato provinciale e aveva i seguenti compiti: esecuzione delle deliberazioni di quest’ultimo e del
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con sicurezza che la seconda generazione – sei elementi su sette – deteneva il controllo delle cariche più importanti e lasciava ai giovani e ad Iniziativa il solo posto garantito all’opposizione. Il ragionamento non può concludersi senza aver prima sottolineato la quasi totale assenza della prima generazione di ex popolari. L’evidente lacuna appare in linea con la fragile tradizione del movimento cattolico giuliano. La subalternità si era inevitabilmente riverberata sulla debolezza del Partito popolare prefascista e ciò aveva generato la mancanza di un solido gruppo di cattolici impegnati nati a fine Ottocento e formatisi compiutamente nel corso dell’età liberale. Il gruppo era particolarmente esiguo e la successiva analisi compiuta sull’ambito amministrativo consentirà di illustrare come i suoi componenti privilegiarono l’impegno negli enti locali. L’unica personalità attiva negli organismi fin qui esaminati fu Giovanni Tanasco, eletto in comitato provinciale nel 1957 e nel 1959 con la corrente di Iniziativa democratica.
Il congresso del 1957 segnò l’avvio del cambiamento. Esso si manifestò attraverso l’affermazione di Iniziativa democratica e la scalata dei trentenni alla segreteria, sebbene tale passaggio non fece subito prevalere in modo schiacciante le forze più fresche. Ciò avvenne perché, proprio negli anni successivi al ritorno all’Italia, si era innescato un meccanismo di differenziazione che suddivise la «vecchia guardia» in tre segmenti. I processi di transizione da una corrente all’altra e la fisionomia delle varie tendenze saranno affrontati nel prossimo paragrafo: basti sapere per ora che il gruppo più consistente degli anziani confluì nell’area conservatrice di Centrismo popolare, ma non mancò chi decise di schierarsi a favore di Iniziativa democratica e nemmeno chi cercò di tenersi lontano da un sistema correntizio, nel quale faticava a riconoscersi proprio per ragioni generazionali. I trentenni furono quindi appoggiati nella loro ascesa dai più avanzati tra i fondatori: la presenza di questi ultimi e quella dei loro coetanei passati all’opposizione interna permise ai nati nel 1900-1920 – e ad un singolo esponente della prima generazione – di continuare a occupare circa la metà dei posti, sia nel comitato
congresso, assunzione di decisioni urgenti e di ordinaria amministrazione, distribuzione delle responsabilità al proprio interno, attraverso la nomina del vicesegretario politico e dei vari ruoli dirigenziali.
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provinciale designato nel 1957 (poco più del 53%) che in quello del 1959 (quasi il 57%), lasciando in entrambe le occasioni ai giovani circa il 40% delle poltrone. Le variazioni si verificarono piuttosto nell’esecutivo, ovvero nell’organismo più sensibile ai mutamenti al vertice e pronto a modificarsi di conseguenza. Il «cambio della guardia» vide i nati nel 1921-1930 accaparrarsi cinque dei nove posti a disposizione (più del 55%) e il 1959 ne segnò la completa affermazione: la seconda generazione si ridusse a due sole caselle (circa il 22%) e parte di questo calo fu bilanciata dall’ingresso di due nati nel decennio 1931-1940. Gli anni Sessanta sancirono quindi la definitiva uscita di scena dei più vecchi dai ruoli direttivi: sia nel 1961 che nel 1962, su undici poltrone dell’esecutivo appena allargato, otto finirono alla terza generazione (circa il 73%) e tre alla quarta (circa il 27%). I congressi del 1965 e del 1967 crearono infine una condizione di sostanziale equilibrio tra gli appartenenti alle nuove leve.
In comitato provinciale il rinnovamento si affermò più lentamente a causa di un meccanismo elettorale, che assegnava automaticamente venti posti su trenta alla coalizione vincitrice dei congressi e dieci all’opposizione interna, costituita soprattutto dagli anziani. I trentenni divennero maggioritari soltanto nel 1961: occuparono tredici poltrone (oltre il 43%) e assistettero al drastico calo dei fondatori, i quali passarono dai diciassette del 1959 (oltre il 56%) a dieci (poco più del 33%). Essi si avviarono successivamente ad una diminuzione costante, che nel 1967 li condusse a una posizione decisamente residuale (sei su trenta: 20%). Tale flessione non beneficiò comunque i nati nel 1921-1930, che non riuscirono mai a superare il 50% dei posti. Fu invece la quarta generazione a erodere lo status già indebolito della «vecchia guardia»: la presenza, inizialmente poco rilevante, si trasformò ben presto in una crescita progressiva nel tempo: dalla singola unità nel comitato provinciale del 1957, alle due del 1959, alle quattro del 1961, alle sette del 1965, alle nove del 1967 (circa un terzo). Il fenomeno non comporta particolari difficoltà di interpretazione: dopo aver prodotto il cambiamento, la terza generazione era stata chiamata ad accollarsi le proprie responsabilità nelle realtà elettive e aveva fatto spazio ai giovani, che poterono così formarsi negli organi di partito e cominciare la loro carriera. La permanenza nel solo comitato da parte dei più vecchi – attestati pressoché
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totalmente sulla linea centrista – si spiega al contrario con il loro ruolo di opposizione interna, che li aveva da tempo esclusi dagli incarichi esecutivi nel partito e che aveva avviato un pur graduale ridimensionamento anche delle loro prerogative negli enti locali.
L’ultimo aspetto da considerare in questa sede è quello riguardante l’età media dei due organismi. Da essa si desume con facilità il rinverdimento anagrafico dei detentori degli incarichi di maggior rilievo all’interno della DC. L’età media dell’esecutivo è infatti sempre più bassa di quella del comitato provinciale: quest’ultimo si attestò poco sopra i quarant’anni per tutto il periodo considerato; l’esecutivo è invece perfettamente allineato al profilo dei trentenni, oscillando tra i 39 anni del 1955 e i 33 del 196745.
La disamina delle generazioni democristiane si connette in modo inscindibile all’attenzione che va rivolta alle correnti, cioè il principale strumento di gestione delle diverse tendenze politiche interne e di suddivisione delle responsabilità e del potere, che prese forma e si consolidò proprio negli anni presi in considerazione da questa ricerca. Sotto tale punto di vista, la svolta del 1957 risulta essere uno snodo fondamentale, poiché la vittoria al congresso consentì a Iniziativa democratica di occupare i due terzi del comitato provinciale e di bissare il risultato nel 1959. La svolta si verificò con leggero ritardo rispetto all’Italia46 e, come in molte altre province, garantì un controllo
45 Questo l’andamento dell’età media del comitato provinciale: 37 anni nel 1955, 41 nel 1957, 42 nel
1959, 39 nel 1961, 40 nel 1962, 42 nel 1965, 41 nel 1967. L’esecutivo ebbe invece il seguente sviluppo: 39 anni nel 1955, 38 nel 1957, 34 nel 1959, 33 nel 1961, 34 nel 1962, 32 nel 1965, 33 nel 1967. Nonostante il trascorrere del tempo, l’età media dell’esecutivo rimase sostanzialmente inalterata dal 1959 in poi, a dimostrazione della capacità dei trentenni di rinnovare con costanza i vertici del partito.
46 Iniziativa democratica si affermò in occasione del congresso nazionale di Napoli del 16-29 giugno
1954, riconfermandosi al congresso di Trento del 14-18 ottobre 1956. In questa occasione si assicurò il controllo totale della direzione, lasciando fuori tutte le altre correnti: la sinistra di Forze sociali e della Base e il centro-destra della lista Primavera. La DC giuliana colmò il proprio ritardo nel 1957, quando Iniziativa s‘impose su Concentrazione democratica. Il confronto tra centro e periferia dimostra l’esistenza a Trieste di un quadro decisamente più semplificato e di alcune differenze: localmente l’area aclista e sindacalista non era autonoma, ma inserita organicamente dentro Iniziativa; Concentrazione democratica non aveva inoltre più riscontri a livello nazionale e racchiudeva tendenzialmente soltanto andreottiani e scelbiani, ben presto confluiti in Centrismo popolare. Il medesimo scenario si presentò al congresso provinciale del 14-15 marzo 1959, con la vittoria di Iniziativa democratica sul centro-destra del partito. Lo slittamento rispetto al nazionale è in questo caso più evidente, dal momento che il 15-18 marzo 1959 si tenne il consiglio nazionale che vide la rottura di Iniziativa, la nascita della corrente dorotea e la nomina di Moro a segretario. Il congresso triestino rinnovò in pratica la fiducia ad Iniziativa democratica, ma soltanto qualche giorno dopo essa cessò di esistere a livello centrale. Gli esiti si sarebbero visti al congresso nazionale di Firenze del 23-28 ottobre 1959, che affidò la maggioranza ai dorotei e agli andreottiani della lista Primavera, relegando all’opposizione gli scelbiani di Centrismo popolare, la sinistra di Base e la lista che raggruppava i fanfaniani di Nuove cronache e gli aclo-sindacalisti di Rinnovamento. Ancora una volta
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generale del partito, testimoniato dal fatto che gli esecutivi provinciali videro la corrente degli ex degasperiani e degli ex dossettiani accaparrarsi tutti e nove i posti disponibili sia nel 1957 che nel 1959. Il comitato provinciale fu affidato per il terzo restante all’opposizione interna, attestata sulle posizioni di centro-destra di Andreotti e Scelba.
Il quadro mutò radicalmente al principio degli anni Sessanta, davanti alla spaccatura di Iniziativa democratica47. La scissione comportò a Trieste la nascita di tre correnti distinte – una doro-morotea, una fanfaniana e una vicina agli aclisti – che rimasero alleate per tutti gli anni Sessanta a sostegno del centro-sinistra, trovando l’appoggio dei pochissimi membri appartenenti alla sinistra di Base. I fautori dell’avvicinamento ai socialisti furono avversati da due minoranze interne: l’area centrista tradizionalmente radicata nel partito triestino ed un gruppo di ridotte dimensioni, che non si riconosceva nella locale corrente doro-morotea. L’esistenza di questa seconda opposizione potrebbe apparire di poco conto ed ebbe in effetti ricadute minime sullo svolgimento della vita politica e organizzativa. Essa aiuta però a dimostrare l’egemonia che fin da subito i morotei triestini imposero all’interno della corrente doro-morotea, lasciando spazio scarso e forse nullo alle anime che invece avrebbero guardato con favore alle posizioni di uomini come Piccoli o Rumor. Le posizioni della piccola tendenza di minoranza di cui si è appena parlato – i cui membri più giovani avrebbero alimentato la destra dorotea e fanfaniana negli anni Settanta – hanno consigliato in questa sede di definire «dorotei» i suoi membri, con una scelta dichiaratamente in parte arbitraria e assunta con il mero
il quadro si presentava diverso e ben più articolato rispetto a quello triestino, dove non sembrano esistere distinzioni rilevanti tra andreottiani e scelbiani e dove fanfaniani e Rinnovamento rimasero invece parte integrante della maggioranza. Bisogna infine notare che al congresso provinciale del 27-28 maggio 1961 venne presentata una lista unitaria di doro-morotei, fanfaniani e aclisti, che recepiva la rottura di Iniziativa, ma raggruppava tuttavia all’interno della medesima area tutte le personalità provenienti da quella corrente.
47 La rottura di Iniziativa democratica fu indotta dalla decisione della sua maggioranza interna – i
neonati dorotei – di privare il segretario Fanfani del proprio appoggio. Ciò avvenne soprattutto a causa dell’attivismo e del ruolo ingombrante assunto da quest’ultimo (contemporaneamente segretario, primo ministro e ministro degli Esteri) e per la sua virata in direzione del centro-sinistra, sebbene concepito ancora senza apporto socialista.
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intento di semplificare l’esposizione e di creare una distinzione con i doro-morotei48.
Questi ultimi, i fanfaniani e gli aclisti ottennero la maggioranza in tutti i congressi degli anni Sessanta: sembra pertanto più interessante comprendere come le forze scaturite da Iniziativa si suddivisero la propria influenza all’interno dello scudo crociato, andando a creare condizioni più affini di prima rispetto al livello nazionale49. I morotei si assicurarono da subito un ruolo centrale e si affermarono alla guida del partito e dell’elaborazione politica del centro-sinistra giuliano. Nei congressi presi in esame, essi riuscirono ad eleggere dagli undici ai quattordici rappresentanti in comitato provinciale (circa il 37-47%), giovandosi inoltre dell’apporto dei fanfaniani (tre-sei posti, equivalenti circa al 10-20%) e degli aclisti (tre-quattro posti, circa il 10-13%). L’ascendente moroteo emerge in tutta la sua evidenza dalla composizione degli esecutivi: la «massa critica» appare testimoniata dai sei-otto posti su undici conquistati tra 1961 e 1969 (circa il 55-72%). Il restante e limitato spazio a disposizione era diviso tra fanfaniani e aclisti, che ebbero sempre un peso
48 La corrente in questione prese forma al principio degli anni Sessanta e, all’interno della DC
triestina, rappresentò per qualche anno l’opposizione moderata ma non centrista alla maggioranza costituita da doro-morotei, fanfaniani e aclisti. Pur non avendo aderito in precedenza a Iniziativa democratica ed essendo contrari all’alleanza con il PSI, i «dorotei» non condividevano la linea della destra conservatrice e clericale del partito. La prosopografia relativa ai principali animatori della corrente può aiutare a capire meglio determinate distinzioni. Personaggi come Gennaro Degano e Giuseppe Gostissa provenivano ad esempio dalla Camera del lavoro, erano sostanzialmente conservatori, ma non clericali come i centristi. Ludovico Zanetti fu invece tra i fondatori delle ACLI, si attestò su una linea moderata e vicina ai dettami della gerarchia, ma la sua differenza con i centristi (e la conseguente volontà di differenziarsi) va probabilmente spiegata con l’influenza che mons. Marzari ebbe sulla «vecchia guardia» aclista. Si trattava di personaggi abbastanza noti, ma non detentori di incarichi di primo piano e ciò forse