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Che cosa si intende per evidenza?

Possiamo dire in prima istanza, e cioè a livello di senso comune e di linguaggio naturalistico, che per evidenza si intende il privilegiamento dell’esperienza e la sua osservazione. Secondo questa concezione, che affonda nel nucleo del neopositivismo logico, l’esperienza è primaria rispetto alla conoscenza: primaria non vuol dire soltanto che la cono-scenza comincia con l’esperienza, ma anche che la parte empirica di quest’ultima ha una vera e propria superiorità gerarchica sul resto.

Nel solco di questa tradizione Thomas e Pring (2004) ricavano dalla paleoantropologia i criteri dell’evidenza da applicare alla ricerca educativo-formativa, in base alle affinità di ricerca idiografica che rile-vano fra i due ambiti disciplinari: come il bricoleur, paleoantropologi e ricercatori educativi inizierebbero con una proposta ampia, raccol-gono evidenze ad hoc, all’interno di parametri ampi di osservazione, di analisi e di documentazione, e quindi procedono a delimitarle, de-terminando le regole che consentano di scoprire un’utile prima facie di base informativa. Questo prima facie di evidenze viene esaminata per stabilirne la veridicità, ma si richiedono ulteriori prove per avvalorarla. E così all’infinito. Una frase di Wright Mills può ben compendiare questa lunga tradizione: «Non esiste un metodo scientifico in quanto tale, ma la caratteristica fondamentale del procedimento dello scien-ziato consiste solo nel fare del suo meglio con la mente, senza esclusione di colpi» (Wright Mills, 1970, p. 69).

La debolezza epistemica di una posizione siffatta è del tutto evi-dente. Essa ha avuto successo solo in virtù di fattori esogeni che hanno interessato lo sviluppo delle politiche educative negli anni Novanta. Come ricorda Norberto Bottani (2009, pp. 17-23):

La crisi del “welfare state”, la polemica sul “meno stato”, le proposte del “new public management” finirono per contagiare anche i sistemi scolastici che, a differenza di altri settori, erano fino ad allora rimasti immuni, protetti dal principio del diritto universale all’istruzione. Lo scossone dato dal rappor-to americano al mondo dell’educazione rivelò ovunque la presenza di falle e crepe nei sistemi scolastici che si dimostrarono sempre più profonde. Non a caso, dunque, i responsabili scolastici a livello mondiale trovarono, agli inizi degli anni Novanta, un’intesa sulla necessità di cambiare rotta e si rivolsero alla comunità scientifica internazionale per ottenere indicazioni che

servis-sero a impostare nuove riforme. […] Da questa fase di confronti emerse, a livello internazionale, un ampio consenso su tre esigenze ritenute indispensa-bili per pilotare i sistemi scolastici: 1. l’adozione di metodi empirici di ricerca scientifica in grado di fornire prove attendibili sulla validità delle innovazioni e delle sperimentazioni; 2. la produzione di un insieme d’indicatori interna-zionali dei sistemi scolastici; 3. l’amplificazione e accelerazione delle valuta-zioni internazionali su vasta scala del profitto scolastico.

È evidente che non si possono governare i sistemi educativi nella so-cietà complessa con espedienti, scappatoie, invenzioni retoriche, nar-razioni discorsive che rappresentano situazioni irreali o che emanano da interessi emergenziali: e che non possono essere smentiti in assenza di dati certi. Il problema dell’interazione tra ricerca educativa e policy making è generale, ma in Italia si presenta in forma cronica accentuata: il dibattito pubblico sull’istruzione e la scuola, e le decisioni politiche in materia, fanno un uso troppo scarso delle conoscenze scientifiche o, peggio, non vi ricorrono affatto. Tutto ciò non fa che aggravare la si-tuazione di transizione che la pedagogia, in generale, e i singoli discorsi sull’istruzione o sull’educazione o sulla formazione, attraversano.

La problematica cruciale, comunque, riguarda la produzione e l’uso delle evidenze nella ricerca pedagogica2: esse sono messe a disposizio-ne per arricchire di informaziodisposizio-ne e di orientamenti scientificamente fondati, oppure sono da considerare un mezzo per imporre forzata-mente ciò che si considera “efficace”? La letteratura internazionale sul-la evidence-based research mostra che diversi sono gli usi del concetto di evidenza nelle scienze dell’educazione (Margiotta, 2012b, pp. 61-2).

Possiamo sintetizzare alcuni modi per cercare di comprenderne il range utilizzato: evidenza soggettiva, evidenza veritiera ed evidenza potenziale. La situazione epistemica è sempre la fonte dell’evidenza. Nel caso dell’evidenza soggettiva, la condizione della credenza è forte: non si richiede che i fatti siano veri, ma solo che ci siano (buone) ra-gioni per credere che sia così. L’evidenza veridica, d’altra parte, esige

2. Il Black’s Law Dictionary definisce evidence quell’evidenza che «tende a pro-durre convinzione dell’esistenza di un fatto» (1979, p. 489), e che supporta la presa di decisioni affidabili, valide e valutabili. In particolare, l’istruzione evidence-based

si verifica quando gli educatori selezionano metodi di insegnamento supportati da dati attendibili e validati da esperimenti scientifici e poi, giudiziosamente, sintetiz-zano questi metodi in un programma funzionale e relativo a uno specifico ambiente scolastico.

cfr. in biblio 2014

che il rapporto tra fatti e risultati di ricerca sia dato per vero. A sua volta, l’evidenza potenziale non pretende che questo rapporto sia vero, ma che così risulti dalla ricerca. Le prove potenziali forniscono “buone ragioni per credere”, concetto importante per la ricerca e anche per le decisioni educative da prendere (ibid.). Quindi è chiaro che il concetto di evidenza, quando si rapporta con le scienze della formazione, sta-bilisce una relazione complessa e cruciale per ottenere una più chiara comprensione dei fattori e della realtà educativa3.

Un estratto del No Child Left Behind Act (2002, pp. 126-7) recita come segue:

Il termine “ricerca scientificamente basata” va attribuito a: (A) I progetti di ricerca che prevedono l’applicazione di procedure rigorose, sistematiche, e si pongono l’obiettivo di avvalersi di informazioni affidabili e validate, rilevanti per le attività educative e il perseguimento dei programmi. (B) Sono tali gli studi e le ricerche che includono: impiego sistematico di metodi empirici che attingono dall’osservazione scientifica o dall’esperimento; prevedono anali-si rigorosa dei dati più adeguati per testare le indicate ipoteanali-si e giustificare le conclusioni generali tratte; si basano su misurazioni o metodi di osservazione che forniscono dati affidabili e validati da tutti i valutatori e gli osservatori, at-traverso misurazioni multiple e osservazioni, e atat-traverso gli studi degli stessi ricercatori o di diversi; uso di valutazioni che utilizzano disegni sperimentali o quasi-sperimentali in cui soggetti, enti, programmi o attività sono assegnati a specifiche condizioni e con opportuni controlli per valutare gli effetti della condizione di interesse, con una preferenza per gli esperimenti random o per altri disegni, nella misura in cui quei disegni rispondono alle condizioni di controllo; assicurano che gli studi sperimentali sono presentati con sufficiente chiarezza di dettaglio, per consentire la replica o, almeno, offrire la possibilità di costruire sistematicamente sulle loro conclusioni; sono stati accettati da una ri-vista peer-reviewed o approvati da un gruppo di esperti indipendenti, attraverso una revisione relativamente rigorosa, obiettiva e scientifica.

Ai sostenitori dell’ebe (Evidence Basic Education) va riconosciuto il me-rito di aver riacceso il dibattito intorno alla natura e al significato della ricerca educativa, che ancor oggi necessita di forti e non superficiali

con-3. Emblematico il caso degli usa, dove l’8 gennaio 2002 il presidente George W. Bush ha firmato il No Child Left Behind Act (Public Law 107-110), nel tentativo

di incoraggiare l’uso di metodi e tecniche formative e didattiche evidence-based in

grado di soddisfare la crescente domanda di una maggiore capacità di validazione e rendicontazione degli esiti della formazione.

fronti. Essi, inoltre, si rivelano sensibili ai rilievi, al punto da orientarsi, oggi, verso posizioni più attenuate di evidence-based education, come aware education, evidence-influenced education, evidence-informed educa-tion. Come sintetizza Calvani (2012, pp. 20-1), in una tabella (cfr. tab. 2.1) che mette a confronto le varie posizioni rispetto all’ebe, ma soprat-tutto all’Evidence-Based Research, esse oggi non si trovano più schierate su due fronti opposti, ma variamente distribuite, con un numero sempre tabella 2.1

Posizioni dei ricercatori rispetto all’Evidence-Based Education (ebe)

Fautori di un’ebe esigente Fautori di un’ebe moderata Contrari La ricerca educativa è inficiata

da eccessiva soggettività. Per controllarla, occorre ricorrere a metodi sperimentali (rct e meta-analisi).

Il problema del controllo della soggettività esiste ma non pos-siamo escludere metodi misti e in qualche caso anche ricerche esclusivamente qualitative pur-ché si tengano sotto controllo i fattori di tendenziosità.

La natura della ricerca educativa non può che essere intrinseca-mente qualitativa. La soggetti-vità non può essere mantenuta completamente distinta dai dati empirici.

La ricerca educativa dovrebbe adottare i criteri propri di ogni dominio scientifico (prendendo ad esempio a modello la medici-na) e quindi ricercare conoscen-ze basate su evidenconoscen-ze.

È accettabile il modello ebe ma nell’educazione agiscono anche percezioni, atteggiamen-ti, inclinazioni personali degli attori, fattori di cui non si può non tenere conto.

Il confronto con la medicina non è adeguato in quanto in questa ci si basa su un robusto fondamen-to di conoscenze biologiche che consentono conoscenze prescrit-tive e procedurali.

La ricerca educativa deve indivi-duare regolarità e ricorrenze che consentano di fare ragionevoli previsioni, pur caratterizzandole in funzione di determinate tipo-logie di contesti.

È giusto ricercare le regolarità ma accanto ad esse esistono fattori di diversificazione con-testuale che non consentono di essere riportabili a regole generali.

Ogni contesto educativo è in sé complesso e intrinsecamente ir-riducibile: può essere conosciuto solo con approcci immersivi e partecipativi.

È auspicabile un maggiore coor-dinamento della ricerca per ra-zionalizzare l’impiego di risorse per la produzione e dissemina-zione di conoscenze.

Una centralizzazione della ri-cerca di base può essere auspi-cabile senza però soffocare del tutto iniziative divergenti dai piani generali.

Forme di centralizzazioni della ricerca sottopongono questa al controllo del potere politico e irreggimentano il libero e impre-scrittibile manifestarsi della crea-tività individuale.

La ricerca educativa deve pren-dere le mosse dalle istanze prati-che fornendo risposte affidabili alle domande che vengono poste dagli addetti ai lavori.

La capacità di rispondere alle istanze del decision making è un aspetto importante ma le finalità della ricerca educativa non possono limitarsi ad essa.

La ricerca educativa deve essere lasciata libera di speculare sugli ambiti di interesse del ricerca-tore al di là di ogni utilizzabilità pratica.

maggiore di ricercatori moderati che accolgono anche indagini compa-rate e analisi qualitative, purché condotte con metodi rigorosi e adegua-to controllo delle variabili.

Gli assunti, ampiamente condivisi, sono:

a) ogni forma di ricerca è storicamente e socialmente determinata,

que-sto significa che il quadro di riferimento teorico del ricercatore influenza in modo significativo la ricerca;

b) il ricercatore è un soggetto attivo nella costruzione del mondo, questo

significa che competenze, attitudini e atteggiamenti del ricercatore influen-zano la qualità dell’attività di ricerca;

c) un sapere realmente valido e attendibile può essere ottenuto solo

attra-verso forme di triangolazione – delle tecniche, dei ricercatori, delle teorie, delle fonti – che permettono di ottenere risultati intersoggettivamente con-divisi (Trinchero, 2004).

A ogni modo, va ricordato che la cultura della ricerca pedagogica ha da tempo spostato la sua attenzione dalla descrizione e riproduzione del fenomeno apprenditivo, alla comprensione del significato che l’e-sperienza assume per i soggetti della ricerca (Mortari, 2007). Punto di partenza è l’esperienza vissuta, colta attraverso forme di ricerca di-scovered oriented, dove il metodo si costruisce lungo il cammino della ricerca e viene continuamente rimodulato, con costante impegno au-toriflessivo da parte del ricercatore. La fedeltà al principio fenome-nologico di evidenza fa da contrappunto al principio di trascenden-za: nell’apparire, l’essere non si rende completamente trasparente al nostro sguardo, ma ogni cosa ha un suo specifico modo di trascen-dere l’apparenza; perciò il ricercatore deve prestare attenzione anche al lato nascosto, risalire cioè a ciò che non appare immediatamente. Nelle scienze della formazione, inoltre, il criterio di validità non si riferisce solo al criterio della correttezza metodologica, quanto a) alla capacità della ricerca di innestare nel contesto quei processi che intensificano la capacità critica e autoriflessiva degli individui; b) alla qualità dell’impegno trasformativo che disvela le varie forme di in-giustizia, ma per individuare e promuovere le strategie emancipative che possono contribuire al miglioramento.

Soffermando lo sguardo sulla ricerca educativa in Italia, riconoscia-mo che «essa ha raggiunto il punto, inimmaginabile 40 anni fa, dove è ora possibile condurre al meglio una ricerca fondamentale di principio con attenzione agli effetti positivi sulla pratica» (Margiotta, 2012b, p.

59). Si impone la necessità di promuovere lo sviluppo di ricerche edu-cative su larga scala attraverso un approccio ecosistemico che sappia av-valersi di modelli di ricerca robusti e una base teorica ragionevolmente stabile (ibid.), dove la riflessione si prefiguri come sguardo critico che prende in esame le esperienze della mente. Molto opportunamente Rita Minello sintetizza le maggiori obiezioni (cfr. Ranieri, 2007, pp. 149-51) rivolte ai modelli di ricerca ebe da parte di quegli studiosi che difendo-no il pluralismo metodologico della ricerca educativo-formativa:

a) Inadeguatezza del paradigma positivistico e causalistico di riferimento:

Ham-mersley […] esprime grande scetticismo rispetto alla possibilità di costruire situazioni quasi-sperimentali orientate a provocare cambiamenti controllati e standardizzati. Nella migliore delle ipotesi, secondo quest’autore, una ricerca ci può informare sugli effetti prevedibili di un dispositivo, ma certamente non si possono fare inferenze a partire da essa su ciò che sarebbe auspicabile fare, né in termini generali né rispetto a casi singolari. Vi sono pertanto forti dubbi sulla possibilità che i risultati scientifici possano essere tout court

tra-sferiti nella pratica, proprio appellandosi ai limiti emersi nel campo dell’ evi-dence based medicine stessa.

b) Mancanza di attenzione al contesto: l’ebe tenderebbe a sminuire e

sotto-valutare l’intrinseca complessità dei processi sociali. Contrariamente a quan-to accade tipicamente in una situazione di laboraquan-torio, nel campo educati-vo sarebbe illusorio pretendere di avvalersi di generalizzazioni che possano incorporare l’enorme quantità di variabili che intervengono nei contesti in cui operano gli esseri umani; così come sarebbe riduttivo applicare “scoperte” senza considerare l’elevata probabilità che le stesse perdano di significatività in relazione ai cambiamenti che intervengono nel contesto socio-culturale circostante.

c) Ossessione sull’oggettività dei dati: il ricorso privilegiato alle metodologie

quantitative e a certi tipi di dati empirici “oggettivi” consentirebbe di rispon-dere solo a certi tipi di domande e risulterebbe in ogni caso incompatibile con ogni considerazione di ordine culturale, mentre il fenomeno educativo va compreso senza prescindere dal contesto in cui esso si iscrive e dai giudizi di valore da cui muove.

d) Inevitabilità dei valori in ambito educativo: su questo punto Ranieri cita

Lessard e Biesta. Il primo parla della «trappola di una politica evidence-ba-sed» e nota che «su queste materie, non può non esserci il riferimento a dei valori, a delle concezioni di ciò che è desiderabile […]. La trappola consiste nel ridurre l’apprendimento a ciò che è misurabile, l’expertise dell’insegnante alla sua efficacia, concepita come valore aggiunto, e il valore dell’educazione alla sua strumentalità» […]. Analogamente, Biesta […] mette in guardia dai

possibili rischi di riduzionismo impliciti in questa nuova visione della ricerca educativa; egli osserva che neutralizzando l’orizzonte assiologico intrinseco a ogni pratica educativa, l’insegnamento si riduce all’esclusiva ricerca dell’effi-cienza (Minello, 2011, p. 43).

Il problema reale, dunque, non è dato dalla discussione sulla significa-tività e sul valore d’uso delle evidenze, ma piuttosto dalla loro natura e dal valore che ne deriva ai fini dei processi di corroborazione della ricerca pedagogica. È indubbio, infatti, che il merito delle discussioni fin qui maturate in materia abbia consentito di sottolineare come si possa parlare di evidenza quando quest’ultima risulti: a) oggettiva, cioè non lasci spazio (o quanto meno lo riduca e controlli il più possibile) alla variabilità del giudizio soggettivo; b) non relativa, cioè indipen-dente dal contesto e dalle circostanze epistemiche del soggetto che la produce; c) a favore della verità di una congettura, ovvero produca ra-gioni che provino/dimostrino che la congettura in questione è vera; d) pertinente, cioè coerente con i problemi di cui si cerca una soluzio-ne; e) rilevante, cioè sia significativa non solo e limitatamente per le congetture in questione, ma presenti un potere esplicativo utilizzabile anche in altri domini di conoscenza o di esperienza. Ciò che davvero conta, dunque, è sottolineare la natura epistemica delle evidenze: ogni evidenza è un costrutto euristico che ci assiste nel ricercare e scoprire la verità con spirito di libertà, e per questo è fondamentale distinguere tra la produzione di evidenze (la cui formula è P(h/e) > P(h/- e), ovvero l’evidenza e di un’ipotesi h deve incrementare la probabilità di h), e ciò a cui diamo un valore per la pratica, e cioè l’uso delle evidenze.

Ogni evidenza può dunque provenire da diverse fonti ed essere for-nita da metodologie differenti, e il problema dell’ebr diventa allora quello di valutare in che maniera combinare i diversi modi dell’evi-denza allo scopo di apprezzare (e far apprezzare) la robustezza del so-stegno evidenziale a una congettura o a una decisione. In questo modo l’accento si sposta sulla natura combinatoria dell’evidenza scientifica, che produce dunque importanti ripercussioni non solo all’interno del-la scienza, ma anche al di fuori di essa. Infine l’evidenza ha anche del-la responsabilità di assicurare equilibrio tra i fattori di produzione e di uso; e in modo tale che i risultati (sia in termini di conoscenza, sia di decisione) appaiano sufficientemente “oggettivi”.

È in questo senso che noi osiamo affermare che la ricerca pedago-gica ha prodotto ormai una rete allargata di basi di conoscenza, ove

ciascuna di queste basi costituisce un punto di non ritorno, e dunque un sistema di evidenze sulle quali è possibile ricostruire una teoria stan-dard della pedagogia come teoria della formazione. Tra le tante ne ab-biamo isolato alcune che ci paiono emblematiche dello spostamento di prospettiva che alla pedagogia consegue una volta che le si proponga come oggetto peculiare di riferimento la formazione.

2.2