4.2.1. intersoggettività e formazione
È celebre la dichiarazione cui Husserl (2002, p. 50) perviene nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: «la soggettività è ciò che è, cioè un io costitutivamente fungente, soltanto nell’inter-soggettività». L’intima connessione trascendentale tra soggettività e intersoggettività è uno dei risultati più difficili, più travagliati e soffer-ti, di tutta la produzione matura di Husserl, ed è anche uno dei risultati più affascinanti e contemporaneamente problematici e scandalosi per un’intera generazione di suoi lettori. Husserl aveva affrontato il pro-blema dell’intersoggettività soprattutto in due testi, nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, appunto, e, prima e in modo più esteso, nella quinta conferenza delle Meditazioni cartesiane. Entrambi questi testi sono pervasi da una singolare tensione, e ciascu-no di essi rappresenta un’articolazione specifica di un unico ciascu-nodo pa-radossale.
La tensione che pervade la quinta Meditazione poggia precisamen-te sulla paradossalità del tutti e del ciascuno. Come manprecisamen-tenere, come salvaguardare l’originarietà dell’Io-persona di fronte al fatto che, tra i tutti per cui il mondo è un mondo esperibile, ciascun Io è immedia-tamente un Altro? La soluzione perseguita da Husserl nel corso della quinta Meditazione è la seguente: trovare nell’immanenza dell’Ego la costituzione della trascendenza dell’Altro. Husserl tenta di fondare tra-scendentalmente l’Alter-ego a partire dalle determinazioni dell’Ego; per farlo, egli procede all’assunzione in proprio dei rischi denunciati dall’obiezione solipsistica e ne radicalizza le conseguenze: promuove, cioè, un’ulteriore epochè, sottoponendo a riduzione tutte le determi-nazioni egologiche nelle quali si manifestino elementi legati alla pro-duzione intersoggettiva delle oggettività. Scrive Husserl (1988, p. 116): Noi escludiamo innanzitutto dal campo tematico tutto ciò che ora è dubita-bile, cioè noi facciamo astrazione da tutti i prodotti costitutivi dell’intenzio-nalità riferita mediatamente o immediatamente alla soggettività estranea e delimitiamo dapprima l’intero contesto di quell’intenzionalità, attuale o po-tenziale, in cui l’Ego si costituisce nel suo essere proprio e costituisce le unità sintetiche da essa inseparabili e per ciò stesso attribuite alla sua proprietà.
Ma ecco, appunto, il luogo della difficoltà: su che cosa fondare la neces-sità della preminenza dell’Io per la costituzione dell’Altro? Nel testo citato pare che le parole vengano da sé: l’Altro sono proprio io stesso, l’Altro rinvia a me stesso. Eppure vi è il vago sapore di un paralogismo. Che cosa dobbiamo assumere come originario: la sfera della soggetti-vità trascendentale che è, immediatamente, intersoggettisoggetti-vità (poiché altrimenti il mondo non si darebbe oggettivamente), o l’Ego ridotto alla sua sfera d’appartenenza, l’Ego di ciò-che-mi-è-proprio, a partire dal quale posso costituire l’alterità precisamente come Alter-ego? Ma quest’Ego personale, è noto, è il prodotto di un’attività complessa di identificazione, non certo l’immediata soggettività trascendentale nel-la sua purezza.
Husserl non si nasconde le difficoltà e dichiara che ciascuno di noi, sulla base della sua immaginazione, può operare il transfert di soggettivi-tà, e riconoscere nell’armonia di formazione dei moti significativi di un corpo organico estraneo l’unità intenzionale di una soggettività-altra.
Questo è un passaggio di estrema importanza: è qui che si apre una via di accesso per una problematica propriamente intersoggettiva, ed è qui che ricompare in tutta la sua invadenza il problema della reci-procità intersoggettiva. Ciò assume grande importanza agli occhi del pedagogista: l’intersoggettività come comunità di individui e la loro reciprocità all’interno della comunità; la concordanza come criterio intersoggettivo di costituzione che coincide con il criterio intra-ego-logico della sintesi di identità; la natura pedagogica di tale procedura di costituzione intersoggettiva e, infine, la natura immanente delle re-lazioni intersoggettive alla trascendentalità del soggetto universale di esperienza.
Tentiamo di esplicitare questo intreccio:
Il corpo organico estraneo, di cui ho esperienza, si rende noto progressiva-mente come vero corpo organico solo nel suo comportamento esteriore mu-tevole ma sempre concordante, che è tale da mostrare sempre il suo aspetto psichico alludente alla psichicità che deve ora comparire nella pienezza di un’esperienza originale […]. Se la concordanza non ha luogo, il corpo orga-nico viene esperito come mera parvenza. Il carattere d’essere dell’estraneo si fonda su questo processo in cui l’originalmente irraggiungibile è raggiunto confermativamente. Tutto ciò che può mai rendersi presente e manifestarsi come originale sono soltanto io stesso o appartiene a me come mia proprietà. Ciò che mediante me stesso e la mia appartenenza è esperito nel modo deri-vato d’una esperienza che non può soddisfarsi primordinalmente e non si dà
da sé in modo originale ma è indiziato da conferme conseguenti, è estraneo (ivi, pp. 134-5).
Si tratta, dunque, di una struttura di attese e di conferme che si esercita su degli indici che si realizzano nel comportamento dell’estraneo, e che ne fanno, se confermati appunto, un Alter-ego nella comunità degli individui:
Come ora il mio passato rimemorato trascende il mio vivente presente modi-ficandolo, così analogamente l’essere estraneo dato nell’appresentazione tra-scende l’essere mio proprio […]. Dall’una parte e dall’altra la modificazione sta, come momento di senso, nel senso stesso; essa è il correlato dell’intenzio-nalità che la costituisce (ivi, p. 135).
Ora, certo, non possiamo non riconoscere che quest’intenzionalità è un’attesa di formazione; un’attesa che è portata e tenuta a interpretare segni, per una verifica e una conferma delle proprie anticipazioni. È una fase ricorrente di autoformazione che, durante il processo stesso di formazione, risponde a un’intenzione di contenuti di coscienza. Il passaggio da un trascendentale egologico a un’intersoggettività tra-scendentale avviene precisamente tramite l’inserzione di un’interpre-tazione come superamento dell’immediatezza, di quell’intuizione evi-dente nella presenza, che costituiva il terreno dell’auto-appercezione del soggetto singolare.
Il mondo-della-vita si articola dunque in un mondo di oggettività sempre disponibili, nella “superficie”, per una coscienza allargata an-che oltre i confini della scientificità logico-teoretica normalizzata e stabilizzata, e un mondo di intenzionalità soggettive “profonde”, per cogliere le quali si rende indispensabile la formazione di una metodica capace di esplicitarsi in una scientificità nuova:
Non si è mai indagato scientificamente il modo in cui il mondo-della-vita fun-ge da fondamento, il modo in cui sono fondate le sue molteplici validità pre-logiche rispetto alle verità pre-logiche teoretiche. E probabilmente la scientificità, richiesta dal mondo-della-vita come tale e nella sua universalità, è una scienti-ficità peculiare, non di ordine logico-obiettivo, una scientiscienti-ficità che, per essere definitivamente fondante, è la più alta nella scala dei valori (ivi, p. 153).
La difficoltà consiste nel fatto che non si tratta di rendere obiettive, per una scientificità logiteoretica, le strutture della soggettività
co-stituenti le validità del mondo-della-vita, ma piuttosto di esplicitare, in una rappresentazione intuitiva di sé, le modalità del formarsi costi-tutivo proprio della soggettività. Si tratta di rendere presente a sé stessa la soggettività fungente in un’intuizione anch’essa nuova e peculiare: «conformemente al nostro nuovo atteggiamento, la nozione di intui-zione deve perdere il suo significato abituale e deve assumere soltanto il significato generale di un’auto-rappresentazione originale, e soltan-to, appunsoltan-to, in una nuova sfera d’essere» (ivi, p. 145).
Ma come realizzare questa nuova scientificità? La soggettività tra-scendentale non è la soggettività umana; non siamo “noi uomini” a fungere per la costituzione del mondo, e quindi anche per noi stessi che in quel mondo siamo inclusi come fenomeni. Questa umanità, la comunità di spirito di cui siamo parte come uomini, non è altro che l’esteriorizzazione, la mondanizzazione, di un’istanza soggettiva tra-scendentale. Rispetto a quest’ultima, l’umanità, inclusa nelle ogget-tività del mondo, è insieme a esse “fenomeno”, polo oggettuale della costituzione che trae la sua fonte dal puro fungere soggettivo. La sog-gettività trascendentale risiede oltre l’umanità come comunità degli uomini, e allo stesso titolo si trova al di là del polo egologico uma-namente inteso. Noi uomini stiamo col mondo di fronte all’istanza costitutiva dell’unità di formazione, ne siamo costituiti, siamo per essa fenomeni, realizzazioni di una delle polarità di cui vive la correlazione fondamentale soggetto-oggetto. Il polo soggettivo rientra, come uma-nità, nel mondo-della-vita; in quest’oggettività mondana esso si realiz-za, nella superficie di un mondo oggettuale costituito. L’umanità è essa stessa destinata a oggettivarsi.
Il concetto di formazione diventa dunque, con Merleau-Ponty, il luo-go dell’integrazione degli opposti saussuriani, e per questo la riflessione dell’ultimo Husserl riguardo al valore trascendentale dell’intersogget-tività acquista un’importanza decisiva. È stato proprio Merleau-Ponty (1945) ad accostare tra loro, negli anni dell’immediato dopoguerra, i due problemi, sintetizzandoli in una concezione originale del linguaggio. La parole diventa così il “motore” delle trasformazioni.
Andrebbe notato come questo aspetto comporti una riconsidera-zione dell’altra celebre coppia saussuriana: quella di diacronia e sincro-nia. Anche in questo caso l’atteggiamento di Merleau-Ponty consiste in una riconversione del quadro d’insieme disegnato dai due concetti, tale per cui alla diacronia viene riattribuito un ruolo non secondario rispetto al suo correlato. La diacronia merleau-pontyana non coincide
tuttavia con la diacronia di Saussure, se non altro per il fatto che di essa ne vengono sottolineati gli aspetti relativi agli atti di parole, più che quelli legati alle vere e proprie trasformazioni di ordine storico e so-ciale, come avveniva in Saussure. Così, anche nel caso dell’opposizione sincronia/diacronia, il rovesciamento di prospettiva operato prevede la confluenza verso la formazione dei temi della produttività espressi-va, così che la sincronia, l’aspetto sistemico e atemporale della langue, deve essere ricompresa come un effetto di una attività sempre attuale, sempre rinnovata in ogni singola occorrenza di qualificazione. Insom-ma, è la formazione stessa che si trasforma e si rinnova ogni volta.
Ma la formazione non è neutra. Non entra nelle opposizioni di cui si alimenta il pensiero rappresentativo, non è somigliante, non è ne-gativa, non è analoga. Essa non si oppone alla non-formazione; ne è un prodotto. La formazione, e insieme la non-formazione, sono pura effettualità, ma contemporaneamente sono la condizione necessaria per l’avvento della trasformazione della conoscenza e dell’esperienza umana. In quest’ultima diventano pertinenti le opposizioni con cui si afferma e si nega, si identifica, si compara, perché si tratta di operazioni su elementi in cui si può dire che la formazione si è già attualizzata, in cui ha preso corpo come significanti effettivi e significati riconoscibili. Di tutto questo la formazione è l’evento: non una qualità che si applica attributivamente a un soggetto; è ciò che rende possibile l’effettuazio-ne di quelle significazioni su cui la logica o la fisica potranno esercitare una presa, un controllo, un’indagine.
La formazione non è mai neutra. Ciò non significa, tuttavia, che di essa si possa pensare l’idealità sul modello del distacco platonico; la formazione non è né più alta né più profonda del linguaggio in cui prende corpo, giacché essa «è l’evento puro che insiste o sussiste nella proposizione» (ivi, trad. it. p. 25) che lo esprime. La non-neutralità della formazione si oppone in questo modo all’indeterminazione. La formazione non è mai indeterminata; al contrario, essa è sempre de-terminata dalle differenze cui dà luogo; è una direzione. Il soggetto subisce dunque una trasformazione profonda: non più ricettacolo del-la formazione, non più luogo deldel-la produttività del linguaggio, non più fonte del dire bensì istanza che sempre si sposta rispetto a sé stessa, sempre manca a sé stessa, sempre altrove rispetto a un presente infini-tamente divisibile. La soggettività è un divenire, ed è il divenire di una narrazione riflessiva: la narrazione che noi siamo evolve entro i conte-sti contribuendo all’evolvere dei conteconte-sti.
Prima di concludere occorre riflettere – sia pure con molta pruden-za e cautela – sulla possibilità di un processo evolutivo della soggettivi-tà che si pone a un differente e ulteriore livello; e ciò sia nella relazione con l’altro sia in quella con il territorio che abitiamo.
Per quanto concerne il primo punto, si consideri che la soggettività, al fine di porsi, deve contrapporsi. Proprio perché in principio è la re-lazione, per potersi porre come soggetto l’organismo deve distinguersi dai contesti di relazione di cui fa parte. Ma il distinguersi non è un processo indolore; così come sul piano fisiologico non è indolore il parto, il distinguersi che inaugura il narrare che noi siamo è un pro-cesso per certi versi drammatico, lacerante. Il piccolo dell’uomo, in-fatti, sperimenta una dipendenza dall’altro incomparabilmente lunga rispetto a qualsiasi altra specie animale, ed è proprio grazie a questa di-pendenza prolungata che potrà inscrivere la propria esperienza in una lingua naturale, e accedere alla soggettività; ma per affermarsi come soggetto dovrà operare uno strappo che a volte si rivela violento, dovrà allontanarsi con rabbia da questa interminabile dipendenza, affermare la propria autonomia rifiutando la dipendenza da chi lo ha nutrito e accudito, imparare a pensare con la propria testa contrapponendosi al pensiero, ai gusti, ai desideri dell’altro – precisamente di quell’altro che gli ha permesso di crescere e di porre le basi per l’autonomia stessa.
Per questo, per ciascuno di noi, l’altro è sempre, almeno potenzial-mente, “nemico”. L’altro è mio nemico innanzitutto ove, e nella misura in cui, non riconosca la mia alterità, non rispetti il mio pormi come autonomo da lui. Non solo: il drammatico bisogno che le nostre realtà, logicamente arbitrarie, siano validate dall’altro, fa sì che l’altro possa rivelarsi nemico per il fatto stesso di non condividere le realtà che co-struiamo. Non stiamo parlando, naturalmente, di chi ci fa del male o ci odia, bensì dell’altro che ci ha amato, da cui è dipesa la nostra soprav-vivenza, che è modello e luogo di identificazione.
Da adulti infatti, e lo sappiamo bene, il nemico che può ferirci più in profondo, che può far vacillare il nostro Io e sconvolgere l’immagine secondo cui ci narriamo, lo ritroveremo eventualmente nel partner, nel figlio, nell’amico del cuore. Ebbene, è possibile parlare di un processo di evoluzione soggettiva che consiste nell’emanciparsi da questo dover vivere l’altro come nemico, e che conduce piuttosto a vivere come un dono prezioso proprio il fatto che egli proponga una differente mo-dalità di pensare, di leggere la realtà e narrare l’esperienza. E ciò non solo, e forse non essenzialmente, perché un altro modo di vedere è in
sé una ricchezza, ma anche perché mi permette di illuminare, almeno per un attimo, almeno in controluce, la cecità che pare segnare neces-sariamente il divenire che io sono. Se so ascoltare l’alterità dell’altro, infatti, essa può mostrarmi quanto la mia realtà sia stata inventata a mia immagine e somiglianza e quanto io mi impegni, senza nemmeno saperlo, a mantenerla tale; sarà quindi l’altro in quanto “altro da me” che mi costringerà a essere più flessibile, mi permetterà di ampliare il mio modo di pensare e di renderlo più libero, mi offrirà l’opportunità di pormi da un altro punto di vista, quasi potessi osservarmi per un attimo dall’esterno.
Questo processo è anche un processo di autonomizzazione delle proprie modalità narrative, ovvero di ciò che denominiamo “sé”. Come è evidente in età evolutiva, infatti, la necessità di contrapporsi è lega-ta alla dipendenza, ovvero alla necessità della conferma dell’altro; ma nella misura in cui “sappiamo di sapere”, sappiamo cioè che le nostre narrazioni non sono né vere né oggettive, possiamo, se pure entro certi limiti, emanciparci dalla necessità della conferma dell’altro. E ciò per-metterà, appunto, di vivere l’alterità come dono e come arricchimento piuttosto che come minaccia.
Non solo: nel distinguersi come soggetto, il soggetto disconosce e rinnega anche il proprio esser parte del territorio che abita e dell’eco-logia che lo tiene in vita. Il mondo diverrà allora “terra di conquista”, la natura sarà da assoggettare, i contesti del proprio vivere in società di-verranno contesti di una lotta di affermazione di sé contro gli altri, alla ricerca di potere, denaro, successo. Non dobbiamo certo dimenticare che questo insaziabile anelito – che, come ci ha ricordato Pavese, nasce in definitiva dal “sapere la morte” – è ciò che stimola la ricerca ininter-rotta di migliorarsi che caratterizza l’uomo e ne nutre la curiosità e la sete di sapere; esso si pone alla radice dei celebri versi danteschi «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtude e conoscenza», ed è, in definitiva, proprio ciò che ha fatto sì che l’uomo divenisse l’occhio attraverso cui l’universo può osservare sé stesso. Ma esso è anche all’o-rigine della sete di potere, di successo, di assoggettamento dell’altro e della natura, della guerra.
“Anelito al sapere” e “sete di potere” paiono quindi confondersi e sovrapporsi. Crediamo che si tratti di due risposte differenti, e per certi versi opposte, a quel sapere drammatico e angoscioso che è il saperci mortali. Il sapere la morte che ci fa uomini è un sapere che ci impegniamo tutta la vita a negare e fuggire. Prendendo a prestito le
parole di Lev Tolstoj (1993, p. 417): «appunto così passi la vita, di-straendoti con la caccia, col lavoro, solo per non pensare alla morte». Ora, crediamo si possa riconoscere che il bisogno di potere, la sete di denaro e successo, il vivere il territorio e i contesti sociali come terra di conquista, altro non siano in definitiva che il vano tentativo di fuggire il sapere la morte.
Il processo evolutivo di cui stiamo parlando è, al contrario, un percorso soggettivo verso un “sapere di sapere la morte” che ci ren-da consapevoli di quanto questi tentativi siano vani, e ci permetta di apprezzare piuttosto la gioia dell’anelito alla conoscenza e la ricchez-za dell’incontro con l’altro. Ecco che lo stupore di fronte all’alterità dell’altro incontra la saggezza di sapere che vano è fuggire, grazie al potere, al denaro, al successo, il saperci mortali. Il processo di cui par-liamo è quindi un processo di crescita verso un difficile equilibrio tra il vivere pienamente la gioia dell’anelito alla conoscenza e al dono dei rapporti umani autentici, e il superare il bisogno del successo, del de-naro, del potere. È quindi rispetto al doversi contrapporre – all’altro, ai contesti – che riteniamo possibile un processo evolutivo specifica-tamente umano; si tratterà di recuperare su un altro piano un’unità perduta, di conciliarsi con l’altro e con i contesti a cui abbiamo dovuto contrapporci al fine di affermarci come soggetti.
Questa possibile emancipazione sarà pur sempre provvisoria, limi-tata, precaria e imperfetta; si porrà come un punto di arrivo, come una meta mai del tutto raggiunta, come un percorso lungo il quale dobbia-mo avventurarci ben sapendo di non poter raggiungere la meta. Que-sto ulteriore processo evolutivo della soggettività può considerarsi di secondo ordine: essa infatti è, sempre e comunque, storia e processo; ciò di cui stiamo parlando è la possibilità di un’evoluzione delle mo-dalità secondo cui la soggettività evolve entro l’evolvere dei contesti.
4.2.2. le reti della multi-identità
Dobbiamo partire, allora, dall’analisi delle dinamiche di interazione che oggi segnano una nuova forma di soggettività: non più identifi-cabile a partire da un’appartenenza forte, o univoca, a questo o a quel gruppo sociale. L’individuo si percepisce ed è, sempre più, un punto di intersezione di molteplici collettività e di molteplici categorie, con sto-rie e portata assai differenti. Sempre di meno ci si attiene al copione e alla prescrizione dei ruoli prescritti da un’autorità (locale o centrale) o
dalla tradizione, e sempre di più, invece, egli si sperimenta come nodo