• Non ci sono risultati.

Il secondo postulato: l’educazione sta allo sviluppo umano come sua struttura di specificazione

La teoria economica dello sviluppo ha attraversato, alla fine degli anni Ottanta, una fase fondamentale di ripensamento che, in primo luogo, ha portato a una riscoperta del ruolo cruciale che differenti assetti isti-tuzionali rivestono nei processi di sviluppo e cambiamento strutturale; in secondo luogo, ha posto al centro dell’indagine socio-economica, da una parte, le capacità individuali, come mezzo e fine ultimo dello sviluppo e, dall’altra, le relazioni interpersonali e le reti sociali come strutture economiche di valore. L’approccio seniano delle capabilities ha introdotto una nuova teoria normativa per la valutazione del be-nessere degli individui, nonché di diversi assetti sociali e istituzionali, che si è imposta come quadro di riferimento nell’analisi dei processi di sviluppo. Infine, contributi di sociologi come Pierre Bourdieu, James Coleman e Robert Pugna hanno sviluppato l’idea di capitale sociale con l’obiettivo di rispondere a una crescente undersocialized concezio-ne della persona.

I tre filoni di ricerca appena individuati presentano numerosi punti di contatto e sovrapposizione. È evidente, ad esempio, come la pre-senza di una determinata dotazione di capitale sociale possa contribu-ire all’espansione del set di capacità individuali in una data comunità, nonché influenzare il design e funzionamento delle stesse istituzioni formali nel medesimo contesto. Allo stesso modo, interfacciando il concetto seniano di capacità con quello di capitale sociale, è possibi-le superare sia un’idea eccessivamente strumentapossibi-le del capitapossibi-le sociapossibi-le sia una visione esclusivamente individualistica delle capacità. Infine, le istituzioni, ossia sistemi di regole che strutturano le relazioni interper-sonali, se da un lato limitano l’insieme delle azioni ammissibili, dall’al-tro possono “capacitare” i singoli individui, ossia possono renderli ca-paci di esercitare determinate funzioni.

Nella cornice seniana, lo sviluppo, o in termini più aristotelici la “fioritura della persona”, si delinea come un processo di espansione del-le libertà, ossia deldel-le «capabilities of beings and doings» (Sen, 1999) di cui ciascuna persona dispone. Il concetto di capacitazione è un concet-to cardine di tutta l’opera di Sen. All’approccio tipico dell’utilitarismo basato sull’utilità e a quello rawlsiano basato sull’idea di “bene prima-rio”, Sen (2001) ne contrappone un altro che fa perno sui concetti di funzionamento e di capacitazione. Per funzionamento si intende «ciò che una persona può desiderare in quanto gli dà valore di fare o di esse-re» (ivi, p. 121). Questi funzionamenti vanno dai più elementari, come l’essere nutriti a sufficienza, ai più complessi, come il partecipare alla vita della comunità. La capacitazione viene a essere la libertà sostan-ziale di realizzare più combinazioni alternative di funzionamenti; fa dunque riferimento a ciò che una persona è libera di fare scegliendo tra più alternative. Il funzionamento rappresenta la realizzazione effettiva di queste alternative.

L’approccio delle capacità definisce, quindi, una base informativa per la valutazione degli stati dell’essere della persona che fa riferimento a «constitutive elements of a person’s being» (ibid.). Lo stato dell’essere di una persona viene valutato sulla base di ciò che la persona è effettiva-mente in grado di essere o fare, ossia sulla base del suo set di capabilities of beings and doings. L’impianto seniano, poggiando su una matrice aristotelica, distingue, infine, gli stati dell’essere e del fare che in poten-za ciascuna persona può scegliere liberamente di realizpoten-zare, da quelli che nella realtà vengono a essere scelti, e quindi realizzati (per esempio i set di funzionamenti). Questi ultimi includono dai più basilari stati dell’essere mentali e fisici, come l’essere felici o l’essere nutriti o in buo-na salute, alle più complesse forme di funziobuo-namento in società, come viene ben espresso dall’esempio di origine smithiana dell’apparire in pubblico senza provare vergogna.

L’approccio delle capacità costituisce uno dei più importanti tenta-tivi di superamento dell’impianto strumentale welfarista. Tuttavia cia-scuna persona è dotata della facoltà di agire – per esempio l’agency –, ossia della facoltà di indirizzare i propri comportamenti verso il rag-giungimento di obiettivi e il perseguimento di valori che vanno anche contro il proprio benessere. Proprio il riconoscimento di tale facoltà di agire anche contro il proprio benessere implica come al centro della base informativa debbano essere poste le capacitazioni o libertà di esse-re e faesse-re, piuttosto che i funzionamenti. Nell’approccio seniano, i beni

e i servizi, infatti, derivano il loro valore esclusivamente dal fatto che permettono alla persona la realizzazione di alcuni funzionamenti che vengono da essa ritenuti di valore. Nel processo di conversione di un dato paniere di beni e servizi in un dato set di capacità, entra in gioco una serie di fattori riconducibili, da un lato, alle caratteristiche pecu-liari di ciascuna persona, ossia alle sue capacitazioni fisiche e mentali; dall’altro, a fattori sistemici, ossia a quell’insieme di fattori riconduci-bili alla struttura sociale e istituzionale, nonché a quei fattori culturali e ambientali che caratterizzano la comunità di cui la persona fa parte.

Inoltre la condizione di embricazione di ciascuna persona nel pro-prio contesto, e quindi l’insieme di fattori sistemici evidenziati, così come i fattori personali, condizionano fortemente il processo endoge-no di formazione delle preferenze, così come la scelta delle capacitazio-ni che si vogliono realizzare in funzionamenti.

3.4.1. dopo il welfare, cosa?

Ricorda Stefano Zamagni (2011), in un’interessante nota pubblicata su “Italianieuropei”, che l’economia di mercato, fin dai suoi inizi, viene fondata non solamente sul principio dello scambio di equivalenti (di valore) e su quello redistributivo, ma anche sul principio di reciprocità. Altrove egli ricostruisce con lucidità il fatto che fin dalla Rivoluzione industriale, e con l’affermazione del sistema capitalistico, il principio di reciprocità si perde per strada; addirittura viene bandito dal lessi-co elessi-conomilessi-co (cfr. Bruni, Zamagni, 2004). D’altra parte è la stessa Nussbaum (2007a) a ricordare che, con la modernità, il principio del contratto sociale intercetta e sostanzia il modello dicotomico Stato-mercato: al mercato si chiede di produrre ricchezza; allo Stato, invece, spetta il compito primario di provvedere alla redistribuzione di quella ricchezza per garantire livelli socialmente accettabili di equità.

È intorno a questi due poli che si sviluppa la storia dei cicli econo-mici, per un verso, e dell’avvento, del declino e dell’eclisse dello Stato sociale nella modernità, per l’altro. Tra efficienza ed equità (o giustizia distributiva), cosa è preferibile favorire?

Le vicende che accompagnano, nell’ultimo scorcio del secolo scor-so, il dibattito di economisti e scienziati sociali hanno visto sostanzial-mente contrapporsi tre linee: 1. coloro che hanno privilegiato la libertà del mercato, dilatando lo spazio di azione del principio dello scam-bio, per assicurare l’efficienza del mercato; 2. coloro che hanno invece

privilegiato l’intervento dello Stato, affinché quest’ultimo assicurasse un’equa distribuzione del reddito; 3. coloro che, infine, hanno insistito sulla necessità che lo Stato garantisse ai propri cittadini, in nome del patto costituzionale che ne giustificava l’esistenza stessa, tanto l’effi-cienza del mercato quanto l’equità nelle redistribuzione del reddito.

Sappiamo com’è andata. La globalizzazione e la liberalizzazione planetaria dei mercati, nonché la loro interconnessione in tempo re-ale, hanno via via limitato la possibilità delle democrazie nazionali di condizionare i mercati. Le democrazie nazionali sono oggi impotenti nei confronti di un mercato globale in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti. Ha ragione Zamagni (2011, pp. 32-3) allorché denuncia che i tratti antisociali del comporta-mento economico hanno oggi raggiunto livelli preoccupanti:

Siamo ora in grado di comprendere cosa c’è alla radice del “fallimento” (nel senso di failure) del Welfare State. C’è che questo modello si regge su

un presupposto fallace; cioè sul presupposto dei due tempi la cui logica è di ascendenza kantiana: «Facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia». È da qui che discende la ben nota divisione dei ruoli: al mercato (capitalistico) si chiede di produrre quanta più ricchezza possibile, dati i vin-coli delle risorse e della tecnologia, e senza soverchie preoccupazioni circa il modo in cui questa viene ottenuta (perché “business is business” e “competi-tion is competi“competi-tion” – come a dire che la dimensione etica nulla ha a che ve-dere con l’agire economico); allo Stato, poi, il compito di provveve-dere alla re-distribuzione secondo un qualche criterio di equità, quale quello di Rawls, di Dworkin, o di altri ancora. Eppure già il grande economista francese Walras, alla fine dell’Ottocento, aveva provveduto a “rispondere” a Kant scrivendo: «Quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande». Il limite veramente notevole del Welfare State è dunque quello di accettare, più o meno supinamente, che il mercato capitalistico sia “autorizzato” a seguire appieno la sua logica, salvo poi intervenire post factum, con misure ad hoc dello Stato, per mitigarne gli

effetti perversi, lasciando però intatte le cause. Si osservi che il modello di-cotomico di ordine sociale Stato-mercato ha prodotto conseguenze nefaste anche a livello culturale, facendo credere a schiere di studiosi e policy makers

che l’etica, mentre avrebbe qualcosa da dire per quanto concerne la sfera della distribuzione della ricchezza, nulla c’entrerebbe con la sfera della produzio-ne della stessa, perché quest’ultima sarebbe governata dalle ferree leggi del mercato (mai banalità più grossa è stata scritta o proferita: il mercato, infatti, è esso stesso una costruzione sociale e dunque non può sottostare a leggi fer-ree). […] C’è allora da meravigliarsi se oggi le disuguaglianze di vario

gene-re continuano ad aumentagene-re in modo scandaloso e se gli indicatori medi di felicità pubblica registrano diminuzioni costanti? C’è da meravigliarsi se il principio di meritorietà viene confuso (maldestramente) con la meritocrazia, come se si trattasse di sinonimi? (E dire che il primo a scrivere che la meri-tocrazia è un principio pericoloso per la democrazia fu proprio Aristotele). C’è da meravigliarsi se la reciprocità viene confusa con l’altruismo e se i beni comuni vengono confusi con i beni pubblici? La crisi fiscale dello Stato e l’al-largamento della forbice tra risorse disponibili e ampliamento della gamma dei bisogni hanno reso palese a tutti la crisi entropica (e non già congiuntu-rale) del Welfare State.

L’educazione del Novecento ha parimenti accompagnato lo sviluppo del fordismo nell’opera di costruzione del welfare. La grande impresa fordista ha bisogno di pianificazione, non di mercato; e, in politica, non ha bisogno di uno Stato garante delle regole del mercato, ma di uno Stato keynesiano che presidi la domanda, esattamente quel punto debole – come ricorda Rullani (2004a) – che la grande impresa mana-geriale non è in grado di autoregolare. Così, nel corso del Novecento, in tutti i paesi, l’educazione si afferma attraverso i due perni a cui viene agganciata la domanda: l’istruzione, che – una volta legittimata nella sua funzione di innalzamento delle conoscenze strumentali di base – fa lievitare i salari in tutte le aziende, ridistribuendo ai consumi una quota rilevante della produttività generata nella grande fabbrica; e il welfare pubblico, che fa la stessa cosa attraverso la rapida crescita di servizi pubblici essenziali come la formazione, la sanità, la sicurezza. La pedagogia, in questo senso, non è né di destra, né di sinistra: essa esprime una necessità del paradigma fordista che affida alla politica e alla società il compito di produrre capitale umano e sociale in grado di “consumare” la produttività e l’efficienza del mercato.

In questa sintesi tra grande impresa e Stato del welfare si realizza anche un ragionevole compromesso tra il principio dell’efficienza, di cui è portatrice l’impresa, e quello dell’equità, che è invece una funzione assegnata alla politica (con l’obiettivo correlato di rendere possibili a tutti le opportunità di accesso al capitale umano). Ne con-segue una condivisa divisione del lavoro tra i compiti del mercato e quelli della politica: il potere di gestire la produzione è delegato alle imprese e al mercato, mentre la politica, che cessa di interferire nel loro funzionamento, si riserva di negoziare con le imprese e con i grandi interessi organizzati la distribuzione del reddito prodotto,

af-fermando così, nei fatti, principi di equità che superano gli squilibri generati dal mercato.

Un esempio evidente è dato dalla socialdemocrazia tedesca e da quello che ha saputo realizzare, in particolare, tra gli anni Sessanta e Ottanta. Intorno a questo binomio tra efficienza ed equità ruota la politica di tutti i paesi industriali fino a che è durata la golden age del fordismo (fino agli anni Ottanta), anche se l’alternanza tra destra e sinistra nei governi delle democrazie occidentali provoca leggere cor-rezioni della rotta verso l’efficienza, o verso l’equità. Ma quando il fordismo va in crisi, questa sintesi non regge più perché ne saltano i presupposti.

L’istruzione e l’educazione perdono il loro appeal quando la mac-china fordista va in panne.In primo luogo, a partire dagli anni Settanta, ci si accorge che la produzione non può più essere delegata alle grandi imprese e alla razionalità del mercato, perché questo sistema si è rive-lato troppo rigido per reggere all’instabilità e alla volatilità dei mercati finanziari. Al posto delle grandi organizzazioni che pianificano, viene allora mobilitata la società. Entrano in gioco, nella produzione, reti personali, familiari e sociali che non sono né assimilabili al mercato, né ascrivibili alla burocrazia pubblica. Nell’auto-organizzazione dei terri-tori, che nasce dal basso, prende forma un modo di stare in società che è terzo rispetto ai due modelli precedenti, non essendo né mercato, né Stato, ma “territorio”, “rete”, “capitale sociale” o altre cose: tutte poste oltre la diarchia tra mercato e Stato. La produzione riprende a crescere facendo leva sulle ambizioni e capacità dei tanti individui che si danno da fare, ma anche dei beni comuni cognitivi e territoriali che vengono ottimizzati nei distretti industriali e nei sistemi produttivi locali. È un altro modo non solo di produrre, ma di affermare la propria identità in competizione con le altre, che mette insieme energie personali e legami sociali: due elementi che la macchina impersonale e organizzativa del fordismo tendeva a trascurare.

In secondo luogo, poi, cambiano i compiti e la natura della politi-ca, una volta centrati sulla distribuzione del reddito. Nella nuova si-tuazione, la distribuzione del reddito non può essere più delegata alla politica, semplicemente. Perché nel modo postfordista di organizzare la produzione è implicito un principio distributivo che non risponde né all’equità politica, né al disegno definito da un tavolo negoziale o da una decisione politico-elettorale: il nuovo principio è che i redditi vengono autoprodotti dall’iniziativa e dal potere contrattuale che

cia-scuno riesce a esercitare in virtù del reddito che riesce a produrre. Non sarà la politica a definire il reddito dell’artigiano, del piccolo impren-ditore o della partiva iva, ma sarà il modo con cui essi si muovono nel-la produzione e nelle reti sociali, facendo investimenti a rischio sulle proprie capacità e sulle proprie idee, a farlo. Investimenti che, se le cose vanno bene, dovranno essere remunerati adeguatamente non solo con beni materiali, ma soprattutto con beni immateriali.

In una situazione del genere la società, con i suoi impulsi personali e i suoi commons cognitivi e territoriali, l’intraprendenza individua-le e aziendaindividua-le, diventa fonte decisiva nella distribuzione del reddito. I “tavoli” negoziali apprestati dalla politica arrivano in seconda istanza, e possono esercitare solo correzioni superficiali sugli esiti di mercato.

L’antropologia iperminimalista dell’homo oeconomicus, riducendo tutti i rapporti interpersonali alla forma del contratto mercantile, ha insomma finito con il contagiare pure la sfera pubblica, e dunque sia l’istruzione sia la formazione, le quali non hanno trovato di meglio che, per un verso, partorire un consolidamento della logica autorefe-renziale dei loro mercati “protetti”, e, per l’altro, adagiarsi entro una versione assistenzialistico-risarcitoria del welfare. L’eclissi del civile che l’avanzata dell’individualismo ha determinato ha finito per ren-dere inospitale il mondo in cui viviamo, rappresentandolo alle nuove generazioni come un mondo sempre più popolato di merci e di cose, accessibili solo in presenza di maggiore o minore reddito, e sempre meno di autentiche relazioni umane.

Di fronte a questo deperimento di fatto dei modelli pedagogici tradizionali, due linee d’azione, nelle politiche educative e formative, hanno finito per occupare la scena.

A destra, c’è stata la ripresa neoliberista, che ha posto al centro del sistema postfordista l’individuo egoista che, grazie alla mano invi-sibile del mercato, trasforma i suoi vizi privati in pubbliche virtù. In Italia prima il dicastero Moratti, poi quello Gelmini, assistiti da una rete consiliare di organizzazione e di esperti ben noti, hanno realizza-to una politica e una comunicazione efficaci nella decostruzione degli assetti eccessivamente vincolistici messi in piedi dal fordismo, ma che, dal punto di vista della ricostruzione, si sono limitate ad asseconda-re la tendenza spontanea e autoasseconda-refenziale del sistema pedagogico, sia formale sia informale. La globalizzazione ha dato corpo e assicurato diffusione endemica a questo modo di pensare, perché, in un mondo dove l’economia è diventata mondiale e lo Stato è rimasto nazionale, il

potere di controllo degli Stati nazionali sugli equilibri sociali e politici nel frattempo è precipitato. Almeno fino allo scoppio della crisi di que-sti ultimi anni, incubata nel ritorno all’interdipendenza non regolata del mercato globale.

A sinistra, la crisi del fordismo prima, e la globalizzazione poi, non producono un pensiero alternativo: si subisce il colpo. Il nuovo baricentro su cui ci si assesta è la “terza via” di Blair, che inaugura una stagione all’insegna della “sinistra liberale”, ossia di una sinistra che riconosce l’autonomia di imprese e mercati nel definire le forme organizzative della produzione, ma tutela in questo nuovo assetto il diritto dell’individuo all’autopromozione, attraverso principi di equità che prendono la forma di “uguaglianza delle opportunità” (di studio, di lavoro, di consumo, di partecipazione, di felicità). Edu-cation, EduEdu-cation, Education fu lo slogan. Dell’individuo, si badi bene: niente tavoli negoziali, niente azioni di reciprocità, ma servizi di welfare che rendano possibile a ciascuno una ragionevole auto-af-fermazione, secondo regole consensualmente accettate. Si combatte, in altre parole, la discriminazione sociale tra individui che possono avere punti di partenza differenti, ma che devono avere tutti ugual-mente le loro chances.

Tuttavia questo ritorno al mercato, in una prospettiva di sinistra liberale, non si sottrae al difetto fondamentale che il neoliberismo ha sperimentato con la crisi degli ultimi anni: dal fordismo non si esce tor-nando a forme elementari e atomistiche di organizzazione sociale. Se la complessità cresce, va bene decomporre gli assetti fordisti, ma biso-gna poi ricostruire assetti diversi, con un pensiero più alto e sofisticato, non più basso o più grossolano. La crisi del fordismo, insomma, apre la sfida per la costruzione di politiche formative e di autorealizzazione delle comunità (non solo degli individui) che siano certo efficienti, ma soprattutto flessibili e creative; potendo contare su reti sociali abba-stanza robuste da reggere ai cambiamenti e alle sperimentazioni del nuovo.

Ma è appunto qui che l’eclissi della sinistra liberale investe in modo radicale la natura stessa dell’educazione e della formazione dopo il wel-fare. Per andare oltre la crisi del principio “efficienza più equità”, fatto proprio dalla sinistra liberale, occorre superare la classica visione per cui al mercato viene delegata l’efficienza, ossia la produzione di reddi-to, e alla politica la sua equa distribuzione. Perché oggi la produzione ha bisogno di politica, o comunque di azioni comunitarie, che

metta-no in gioco risorse collettive sempre più importanti; e la distribuzione del reddito, per essere equa, ha bisogno di mercato e di efficienza e di controllo internazionale delle regole, non solo di politica. A una poli-tica formativa postfordista servono soprattutto due cose: la riscoperta dei modi con cui i valori sociali concorrono a estrarre innovazione dal-la conoscenza, neldal-la stessa produzione; dal-la riscoperta dell’intelligenza personale e comunitaria come motore generativo di estrazione di