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Le risorse della Sanità in Italia

2.1 Di cosa stiamo parlando?

L’allocazione delle risorse in sanità è oggi uno dei temi più dibattuti a livello pubblico, ed accademico, in Italia e non solo. Le dimensioni e la dinamica della spesa sanitaria diventano oggetto di attenta riflessione già a partire dalla fine degli anni settanta quando i sistemi sanitari dei paesi industrializzati hanno incontrato difficoltà crescenti nell’assicurare servizi più o meno gratuiti, di adeguata qualità e a costi ritenuti sostenibili per la finanza pubblica ed il sistema economico e produttivo.

Verso la fine degli anni sessanta, infatti, l’economia occidentale conosce una “crisi di accumulazione” affrontata dai governi nazionali anche attraverso una serie di politiche neo-liberiste che avranno pesanti conseguenze sulla tenuta del compromesso sociale fondativo dei welfare state77. L’ideologia neo-liberista inizia così a socializzare la convinzione che il welfare sia la causa principale della “crisi” legittimandone un drastico ridimensionamento attraverso interventi di privatizzazione e aziendalizzazione o di radicale smantellamento. Tale ristrutturazione s’ispira ad un’idea di welfare sempre più residuale dopo che un “embedded liberalism” aveva garantito per almeno trenta anni, più o meno “gloriosi”, una certa redistribuzione dei profitti e, indirettamente, alcuni diritti di cittadinanza sociale78.

In questi ultimi decenni si assiste ad una progressiva trasformazione dello stato che diviene “leggero” nelle sue tradizionali funzioni pubbliche, “debole” nell’esercizio di politiche sociali, ma “forte” quando si tratta di adottare nuove politiche di bilancio e reprimere un eventuale dissenso79.

Il cambiamento di indirizzo complessivo nelle politiche di welfare in senso neo-liberista si è concretizzato in un contesto segnato anche da altri importanti nuove regolamentazioni nell’organizzazione della produzione e del lavoro divenuto, ormai chiaramente, una “merce”80.

Il welfare non è più considerato un investimento pubblico, ma solo una spesa da contrarre per spostare le

risorse a favore di forme di accumulazione diretta, dunque a sostegno dell’offerta81; e nel frattempo, gli

investitori privati si sostituiscono progressivamente allo Stato vedendo nella Sanità, e in altri ambiti del

welfare, una fonte di grandi profitti.

Le politiche neoliberiste in risposta alla crisi di accumulazione di metà anni settanta hanno assicurato un discreto recupero della profittabilità, ma nel contempo introdotto ulteriori rischi82 di una crisi di sovrapproduzione che oggi si manifesta pesantemente e con tendenze di lungo periodo83.

77

Cfr. M. E. Locatelli, Welfare S.p.A. A che punto è la privatizzazione dello stato sociale?, cit..

78 Cfr. D. Harvey, cit., p. 20.

79 Cfr. F. Perocco, Trasformazioni globali e nuove disuguaglianze. Il caso italiano, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 36. 80 Cfr. L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari, 2007.

81

Cfr. R. Boyer, Institutional reforms for growth, employment and social cohesion, in Rodrigues Maria Joao (a cura di),

The New Knowledge Economy in Europe. A Strategy for International Competitiveness with Social Cohesion, Edward

Elgar, Londres 2002, p. 146-202, cit. in La finanziarizzazione dell’economia e la sua crisi, Atti dell’ottava università popolare di Attac Italia, Edizioni Alegre, Roma, 2008.

82

La vastità e complessità del tema non può essere affrontata in questo contributo con più “modeste” pretese; a titolo esemplificativo valga il riferimento ai diversi “successi”, in campo economico, politico e sociale – che hanno sollecitato le vecchie e nuove istituzioni della finanza internazionale a scommettere (speculare) sul proprio futuro e su quello del

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L’ “Austerità permanente” non è allora un semplice slogan, ma più esattamente la materializzazione degli sforzi intrapresi su scala globale per rilanciare la tendenziale caduta del saggio di profitto tipica in un sistema sociale e produttivo capitalistico84.

Sforzi richiesti alla collettività in nome di un rigore necessario per contenere il debito pubblico la cui allarmante crescita viene ascritta ad un’eccessiva spesa socio-sanitaria, e del welfare in generale, proprio da chi, così argomentando, approva la socializzazione delle ingenti perdite di quel sistema bancario e finanziario utilizzato dagli stati85 per forzare tassi di sviluppo della produzione modesti e contenere o superare le ricorrenti crisi finanziarie.

E se tale analisi può apparire categorica86, invito allora a problematizzare il senso e la natura dell’accordo concluso tra i governi dell’Ue nel marzo 2012, il cosiddetto Fiscal Compact, che inevitabilmente porterà “alla dissoluzione dello stato sociale”87

.

D’altronde, la stretta sui diritti sociali - e il relativo “abbattimento del salario indiretto” in favore di una maggiore competitività - è già stata ratificata nel 2012 con l’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, vincolo che trova le sue origini nel 1997 con il “Patto di stabilità, crescita e sviluppo” e nel conseguente “Patto di stabilità interno”, introdotto in Italia nel 199888.

L’affermazione di Amartya Sen, Health is politics by other means, richiama in parte quella del generale prussiano Carl von Clausewitz, la guerra come continuazione della politica per altri mezzi, e se la salute è, secondo il premio Nobel indiano, uno degli strumenti più incisivi e discriminanti della politica, potrebbe sistema capitalistico, producendo e scambiando una smisurata pletora di titoli giuridici di proprietà sul lavoro, sul pluslavoro, delle future generazioni del proletariato mondiale.

83 La stampa economica statunitense la definisce la “crisi dei cento anni”, la prima grande crisi del capitalismo

compiutamente globalizzato.

84 Il capitalismo è un sistema sociale che vive solo e grazie alla produzione di profitto e quest’ultimo si realizza, in

quanto lavoro non pagato, attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo nei diversi settori produttivi (industria, agricoltura, “servizi”). La crescente meccanizzazione e automazione dei processi produttivi determinano nuovi “equilibri” nella sfera produttiva, dove di fatto ci si appropria del lavoro salariato non pagato. In altre parole, per Marx, “la crescita ininterrotta del capitale totale è ostacolata principalmente dalla crescita della composizione organica del capitale complessivo, ovvero del rapporto tra capitale costante (macchine, materie prime, fabbricati) e capitale variabile (forza- lavoro impiegata).” Tale propensione ad aumentare la produttività tramite il ricorso al lavoro morto, a discapito di quello vivo, conduce, in maniera necessaria e contraddittoria, alla caduta tendenziale del saggio di profitto, una delle leggi fondamentali di funzionamento del capitalismo. Per ovviare a ciò, si dovrà allora spremere quanto più possibile il lavoratore in carne ed ossa.

85 Cfr. M. Cobianchi, Mani bucate, Chiarelettere, Milano, 2011; l’autore stima in 55 miliardi di euro l’entità degli aiuti

erogati nel 2010 dallo stato italiano alle imprese private: 25 miliardi in conto capitale e in conto corrente, 30 di sconti fiscali. A queste cifre vanno aggiunti i provvedimenti di incentivazione approvati in Italia tra il 2003 e il 2008 (governi Berlusconi e Prodi), stanziati poi da regioni, province e comuni in forma di versamenti e sconti.

86 Le radici della crisi economica globale non vanno cercate esclusivamente nel settore finanziario, ma nell’intreccio tra

sfera finanziaria e quella dell’economia reale.

87 Considerazione espressa da Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, che in un articolo pubblicato sul New York

Times a proposito di Fiscal Compact parla chiaramente di “suicidio economico” da parte dell’Europa.

88 “La spesa pubblica, il debito e l’aristocrazia finanziaria” è il titolo di un recente articolo di Guglielmo Forges

Davanzati, consultabile su Micromega-online; l’autore così esordisce: “Il rapporto debito pubblico/Pil in Italia, secondo le ultime rilevazioni Eurostat, ha raggiunto il 133%, proseguendo una dinamica di costante crescita, a fronte del fatto che la spesa pubblica, in Italia, è in linea con la media dei Paesi dell’eurozona e si è costantemente ridotta negli ultimi anni. L’impegno dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni è stato essenzialmente finalizzato a provare a ridurre il rapporto debito/Pil agendo contestualmente sul debito e sul Pil, ovvero – nel primo caso – riducendo la spesa pubblica (e aumentando la tassazione) e, per il secondo aspetto, attuando alcune “riforme” prevalentemente calibrate sul mercato del lavoro.

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anche essere, forzando le precedenti asserzioni sulla scorta di Gallino e altri89, uno dei fronti dove si sta consumando un conflitto, di classe e dall’alto.

Lotta di classe condotta, per il sociologo torinese, anche attraverso la normativa fiscale che negli ultimi decenni ha previsto elevati sgravi a favore dei ricchi e forti riduzioni delle imposte sulle società90, interventi tali da comportare una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale.

Non sorprende allora il rapporto dell’Ocse (2008) secondo cui il coefficiente Gini, misurato sui redditi disponibili91, raggiunge in Italia il 35%, mentre un valore più alto, e quindi una maggiore disuguaglianza, si ha - tra i 30 paesi dell’Ocse - solo in Polonia (37%), Stati Uniti (38%), Portogallo (42%), Turchia (43%) e Messico (47%).

Al volgere del 2014, le rassicurazioni su un’imminente ripresa, annunciata di continuo da governo e confindustria, sembrano smentite non solo da alcuni fra i più importanti economisti92, ma soprattutto da dati93, in continuo aggiornamento, che descrivono una realtà italiana caratterizzata da un progressivo impoverimento e da processi di polarizzazione della ricchezza.

Questo quadro di accresciuta diseguaglianza dovrebbe rimanere sullo sfondo di ogni tesi elaborata per giustificare, o meno, i tagli alla spesa sanitaria; senza inoltre dimenticare che anche il lavoro precario, la frammentazione del lavoro e la pluralizzazione dei contratti atipici ridefiniscono un quadro epidemiologico ora interessato dall’ “incremento di disturbi fisici (patologie gastro-intestinali, problemi di pressione alta, somatizzazione) e psichici (ansia, depressione, disturbi della personalità)”94

.

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Mi riferisco al testo di L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., e alla stessa affermazione del magnate americano Warren Buffet che così si è espresso “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e la stiamo vincendo”. L’“oracolo di Omaha”, infallibile investitore finanziario, ha evidentemente messo da parte le sue “arti divinatorie” per un altrettanto “sorprendente” atto di onestà intellettuale.

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Gallino ricorda l’abolizione dell’Ici, ora ripristinata, che però ha svuotato per alcuni anni le casse dei comuni costretti a tagliare asili, scuole, servizi alla famiglia, assistenza alle famiglie svantaggiate, trasporti locali; vanno poi menzionati i diversi condoni fiscali e l’anomalia della normativa fiscale italiana che ha fissato per anni al 12,5% l’aliquota unica applicabile sulle rendite, la più bassa in Europa; dal 2012 un decreto legge l’ha elevata al 20% per adeguarsi agli standard europei. Per quanto riguarda le imposte sulla società, la KPMG, società di servizi finanziaria, ha mostrato come il tasso medio dell’imposizione fiscale sia stato ridotto dal 38 al 25% in 15 anni (tra il 1995 e il 2010). Cfr. L. Gallino, op. cit., p.24.

91 Si fa riferimento ad una disuguaglianza calcolata rispetto ai redditi disponibili equivalenti; “il reddito familiare

disponibile si ottiene sommando i redditi da lavoro dipendente e autonomo, quelli da capitale reale e finanziario, le pensioni e altri trasferimenti, al netto del prelievo contributivo, tributario e di eventuali imposte patrimoniali. Dunque esso tiene conto di tutti i redditi di mercato e dell’azione redistributiva del Welfare.” Cfr. M. Franzini, Ricchi e poveri.

L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Università Bocconi Editore, Milano, 2010, p. 6. 92

Larry Elliot, referente per l’economia del quotidiano inglese “The Guardian”, pungola la Fmi che “non ha previsto la crisi e non sa saper uscire” da questa probabile “stagnazione secolare”, ovvero da un declino strutturale dei tassi di crescita potenziali; in un articolo apparso il 14 ottobre 2014 su “Il Foglio”, Alberto Brambilla così scrive: “Nessuno sembra sapere che fare. C’è un cupo presagio che emerge dalle premesse e dalle conclusioni della convention annuale del Fondo monetario internazionale tenutasi a Washington lo scorso fine settimana (...) a livello globale nessuno degli attori sa offrire indizi su come uscire dalla spirale negativa, faceva notare il Wall Street Journal.”

93 Solo a titolo di esempio valga lo studio “Gini-Growing inequality impact” commissionato dalla Ue, nell’ambito del

VII programma quadro e pubblicato su “ilsole24ore” con un articolo che così esordisce:”L’Italia è tra i paesi che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di Cenerentola si avvera con sempre minore frequenza, nel senso che le coppie tendono a formarsi tra precettori di reddito dello stesso livello; inoltre, gli estremi si allontanano, ovvero i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E la ricchezza si sposta sempre più nei portafogli della popolazione più anziana, a scapito delle giovani generazioni.”

94 Cfr. F. Perocco, op. cit., p.70, che ricorda a p.71 che “tra i lavoratori precari (specialmente quelli con un basso titolo

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Se il risanamento dei bilanci statali, impegnati nel salvataggio delle banche e delle istituzioni finanziarie in crisi, passa anche attraverso i tagli alla Sanità, la tenuta di quest’ultima sembra garantita, ulteriore paradosso, dai lavoratori meno tutelati e più “consumati”95, destinati a pagare il nuovo corso liberista anche come utenti privati di garanzie e con scarse risorse economiche.

E allora, la esternalizzazione dei servizi nella Sanità non è forse una forma cosiddetta di “privatizzazione

funzionale”96 e di abbattimento dei costi? E in ultima analisi, anche in ragione delle perplessità in merito al suo reale impatto sugli oneri di gestione, dove si realizzerebbe il risparmio?

Anche se le domande sono in parte retoriche, una riflessione su tale pratica può e deve partire dai lavoratori esternalizzati.

Inoltre, anticipando alcune mie considerazioni in merito, preciso subito che, secondo la presente ricerca, le ragioni del processo di esternalizzazione sono essenzialmente di carattere economico; anche perché la supposta valorizzazione di “competenze distinitive”97

, in base ad una riorganizzazione aziendale secondo aree cosiddette di “core” e “non-core business”, si rivela una spiegazione tutt’altro che “tecnica”98

, e tra l’altro insufficiente, di fronte alla progressiva esternalizzazione di quei servizi cosiddetti produttivi, in corso anche nell’Azienda Ulss 9.