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La “delega della gestione dei servizi sociali da parte dei Comuni” ha spinto le diverse Aziende Ulss a dotarsi di una specifica area dei servizi sociali a cui mi sono rivolto per verificare delle ipotesi di ricerca relative al processo di esternalizzazione all’interno dell’Azienda Ulss 9 di Treviso; detto altrimenti e col rischio di semplificare, l’Azienda socio-sanitaria di Treviso eroga una serie di servizi sociali, ad esempio nell’area del Contrasto alla marginalità sociale, che prevedono quote diverse di compartecipazione finanziaria dei Comuni a seconda dei casi e delle aree di intervento. In un paragrafo apposito riporterò alcuni passaggi dell’intervista con una responsabile della “Direzione amministrativa e programmazione dei servizi sociali” il cui punto di vista sembra negare alcune mie posizioni, di sicuro meno tecniche e formali. Ma prima di approfondire la questione, ritengo utile almeno un accenno all’organizzazione del sistema dei servizi sociali così come regolato dalla legge 328/2000, tappa decisiva nel processo di composizione del rapporto pubblico/privato nel welfare locale. Lo scarso sviluppo di un sistema pubblico dei servizi di cura era determinato, almeno fino a quel momento, da una serie di fattori: la prolungata assenza di un preciso quadro di responsabilità istituzionale in materia, a cui imputare sia la mancanza di un politica nazionale di indirizzo e finanziamento sia la delega effettiva agli enti locali delle risposte ai bisogni di cura emergenti; la preferenza verso trasferimenti monetari a scapito dei servizi diretti; l’enfasi sulla responsabilità primaria della rete familiare; una fornitura dei servizi organizzata sulla base dei rapporti tra le amministrazioni locali e un insieme variegato di enti pubblici autonomi (IPAB) e di soggetti privati (cooperative, fondazioni, associazioni volontarie etc.)72.

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Tale modello non ha retto alla pressione al cambiamento indotta dalla nuova domanda sociale e dai problemi finanziari, sempre più incalzanti, in nome dei quali si è proceduto ad una trasformazione del welfare nei suoi diversi ambiti.

La 328, attesa dal 1890, mirava ad orientare in senso universalistico un sistema a carattere residuale e con altri limiti come “la compartimentazione, la netta preponderanza dei trasferimenti monetari, le disparità territoriali e la standardizzazione dell’offerta dei servizi.”73

Tale progetto di “riforma” necessitava di nuovi modelli di governo e di implementazioni che si concretizzarono nella realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali ispirato ai principi di integrazione, sussidiarietà e localizzazione. Attraverso la sussidiarietà verticale lo Stato delega ai livelli di governo inferiori le funzioni che essi possono esercitare meglio a vantaggio dei cittadini, valorizzando il cosiddetto tessuto sociale e intervenendo solo in caso di necessità con risorse aggiuntive, non solo economiche, per stimolare la capacità di risposta autonoma; la sussidiarietà orizzontale, invece, si qualifica come strumento di promozione, coordinamento e sostegno che garantisce alle formazioni sociali (famiglie, associazioni, cooperative, organizzazioni non profit) l’espressione, in massima libertà, delle loro diverse e specifiche potenzialità74. Secondo l’art. 6 le attività di competenza dei Comuni, titolari delle funzioni amministrative relative agli interventi sociali, sono: programmazione, progettazione e realizzazione in ambito locale; individuazione delle priorità; autorizzazione, accreditamento e vigilanza delle strutture erogatrici; definizione dei criteri di selezione dei destinatari degli interventi. Tenuti a co-finanziarie gli interventi sociali, i Comuni si avvalgono del Piano di zona quale strumento principale per creare una rete integrata di servizi attivando risorse e ripartendo costi tra i soggetti firmatari dell’Accordo di Programma (Locatelli, 2009).

Con la progressiva contrazione della spesa sociale pubblica, la “riforma” rappresentava un ulteriore passaggio nella realizzazione del welfare mix nell’ambito dei servizi sociali alle persone e sanciva di fatto la legittimazione del Terzo Settore come uno dei protagonisti del sistema attraverso un suo coinvolgimento anche in sede di programmazione e progettazione; le diverse forme giuridiche assunte dai soggetti del Terzo settore includevano: organismi della cooperazione e del volontariato, organismi non lucrativi, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni ed enti di patronato, enti delle confessioni religiose aventi accordi o intese con lo Stato.

A fronte del ruolo di primo piano riconosciuto al Terzo Settore, bisogna sottolineare che la sua integrazione nel sistema “misto” di welfare si è compiuta a partire da una differenziazione delle forme di regolazione che ha assegnato alle organizzazioni volontarie un ruolo di stimolo e di promozione della partecipazione dal basso, mentre ha attribuito maggiore responsabilità gestionale (e conseguentemente un sostegno finanziario sempre più forte) alle organizzazioni che, per forma gestionale e cultura, hanno una fisionomia più aziendale e meno partecipativa. Il forte sostegno garantito alla cooperazione sociale e l’auspicata trasformazione delle IPAB sono in tal senso la prova di una nuova configurazione del welfare mix, in cui a fianco di

73 Cfr. M. E. Locatelli, Welfare S.p.A. A che punto è la privatizzazione dello stato sociale?, cit., p. 176. 74 Cfr. A. Battistella slide, la legge 328, Materiali I.S.A..

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un’amministrazione pubblica sempre più disimpegnata da compiti di natura gestionale si costruisce un settore formato da organizzazioni non profit forti sul piano professionale, adeguatamente sostenute dallo Stato, ben organizzate, in grado di esercitare pressione politica e di far valere l’insostituibilità della loro attività di servizio nella contrattazione finanziaria con le amministrazioni pubbliche locali (Ascoli, 2003). La successiva riforma del Titolo V della Costituzione assegnò alle Regioni competenza legislativa in ambito socio-assistenziale, mentre riconobbe allo Stato solo compiti di finanziamento e determinazione dei livelli essenziali. Ciò ha comportato un aumento delle disparità territoriali, ma non mancano perplessità anche in merito alla reale efficacia di politiche sociali e progetti di sviluppo locali così frammentati: se sono divergenti le finalità di ogni Regione, e finanche di ogni realtà territoriale, diventa velleitaria la “centralità” assegnata dalla legge ai servizi e agli interventi sociali e, inoltre, l’aumento delle competenze senza un relativo adeguamento dei finanziamenti rischia di compromettere, a volte in maniera radicale, tali politiche. In realtà, il Veneto si era dato le regole per i servizi alla persona già nel 1982, in assenza di una normativa nazionale a riguardo, con la legge regionale 55 che in un certo senso anticipava quel principio di sussidiarietà poi ratificato dalla stessa 328/2000; iniziava all’epoca una forma mista che prevedeva il governo della rete e finanziamento in capo al pubblico (Comuni e Ulss), mentre produzione effettiva dei servizi era affidata al cosiddetto Terzo Settore.

Un recente report della Regione, intitolato “Le strade del sociale in Veneto”, conferma il ruolo di primissimo piano attribuito dal PSSR 2012-2016 al Terzo Settore che, come si evince, già da tempo si è collocata tra gli attori del sistema; sempre secondo il report, ciò si deve al fatto che tale soggetto, nella sua accezione più ampia, “contribuisce alla costruzione di un welfare sostenibile” insieme ovviamente alle istituzioni pubbliche, “titolari e responsabili delle funzioni sociosanitarie e garanti della programmazione e dell’attuazione di servizi ed interventi assistenziali”; infatti subito dopo si legge:

Le attività cosiddette “fuori mercato” potrebbero rivelarsi essenziali per un welfare che si trova ad affrontare una situazione di crescente difficoltà, o meglio di crisi, a causa della scarsità delle risorse economiche. Laddove lo Stato è impossibilitato ad incrementare interventi nell’ambito sociale, in quanto obbligato a perseguire una politica di tagli di spesa, il carattere gratuito dell’impegno volontaristico e solidaristico appare una risorsa strategica nella gestione dei servizi relativi al benessere personale e collettivo dei cittadini. Se è vero che la crisi parte dal collasso di un modello economico che ha fatto precipitare il livello di risorse a disposizione del sociale, è altrettanto vero che non si tratta solo di un problema di soldi.

Se dunque, sempre in Veneto, tale soggetto ha contribuito grazie alle sua esperienza a creare dal niente un sistema di servizi alla persona, sempre più necessario con la chiusura dei grandi istituti, ad oggi il suo ruolo sembra fondamentale per la tenuta stessa del modello di welfare regionale.

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In questo lavoro non affronto il tema della trasformazione in imprese sociali del Terzo Settore75, la cui composizione è ampia e complessa, ma resta importante non dimenticare come quel processo abbia avuto profonde conseguenze sulle condizioni di lavoro dei cosiddetti soci-lavoratori.

75 Cfr. I. Colossi e A. Bassi, Da Terzo Settore a Imprese sociali. Introduzione all’analisi delle organizzazioni non profit,

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