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Per completare lo scenario normativo è opportuno, seppur a margine, illustrare brevemente l’evoluzione storica dell’integrazione socio-sanitaria che nel welfare italiano ed europeo odierno – sempre più carente di risorse – rappresenta un concetto di frontiera, “laddove non facilmente distinguibili risultano essere i confini che lo definiscono.”65

L’integrazione viene chiamata in causa quando la natura dei problemi, in termini di dimensioni e complessità, è tale da rendere velleitarie soluzioni “basate sull’autonomia e sull’autosufficienza delle risorse e delle responsabilità professionali o di singolo servizio.”66

L’integrazione sociosanitaria si presenta come questione insieme tecnica e strategica che può rimandare ad interrogativi di fondo alquanto diversi: integrazione delle risorse o delle responsabilità? Secondo Vecchiato, un approccio di sintesi dovrebbe combinare i diversi aspetti sottesi alla questione: quelli istituzionali (incontro tra risorse e responsabilità di natura istituzionale), quelli gestionali (governo manageriale di risorse da integrare in progetti comuni di intervento), professionali (integrazione di saperi e abilità professionali) e quelli forniti dalla domanda di partecipazione delle comunità locale.

Semplificando, si può definire l’integrazione sociosanitaria come sinergia di responsabilità nel coordinamento dei fattori produttivi e dei processi assistenziali tra servizi sanitari e sociali facenti riferimento a istituzioni pubbliche o private, nonché alla ripartizione dei costi a essi inerenti, allo scopo di rispondere in maniera globale e unitaria ai bisogni di salute della popolazione.

A questo proposito, va ricordata l’evoluzione della stessa visione di salute la cui definizione è stata così formalizzata in un documento dell’Oms nel 1949: La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale

e sociale e non semplicemente un’assenza di malattia o infermità.

Tale definizione sarà poi ulteriormente articolata nel documento della “Dichiarazione di Alma Ata”, dove nel 1978 si tenne la Conferenza internazionale sull’Assistenza sanitaria di base (Primary Health Care); al primo punto della dichiarazione si ribadisce che la Salute è un diritto fondamentale dell’uomo e il suo raggiungimento un obiettivo sociale “la cui realizzazione richiede il contributo di molti altri settori economici e sociali in aggiunta a quello sanitario.”

65 Cfr. G. Bissolo e L. Fazzi (a cura di), Costruire l’integrazione sociosanitaria. Attori, strumenti e metodi, Carocci,

Roma, 2005, p. 47.

66 Cfr. T. Vecchiato, Integrazione, in A. Campanini (a cura di), Nuovo dizionario di servizio sociale, Carocci, Milano,

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Seguiranno poi una serie di documenti (Carta di Ottawa, Carta di Lubiana, Dichiarazione di Jakarta) che confermeranno il passaggio da un paradigma biomedico (basato sulla cura dei singoli episodi di malattia e su un approccio paternalistico) ad uno biomedico-sociale (basato sulla prevenzione, sulla centralità delle cure, sulla costituzione di team assistenziali e su un ruolo più partecipativo dei pazienti nella gestione della malattia).

Attraverso l’integrazione sociosanitaria ci si prefigge di dare risposte unitarie a bisogni di salute la cui complessità, destinata tra l’altro ad aumentare, richiede interventi integrati e adeguatamente efficaci.

Protagonisti dell’integrazione sono anzitutto Asl e Comuni che fissano obiettivi specifici in termini di risultati di servizio e di esiti di salute.

In questa sede, però, accennerò solo brevemente alla normativa di riferimento nazionale per sottolineare alcuni aspetti concettuali ed operativi dell’integrazione sociosanitaria utili, a mio parere, ad affrontare alcune caratteristiche del sistema Socio Sanitario del Veneto.

La legislazione italiana cerca di delineare e regolare l’integrazione sociosanitaria a partire dagli inizi degli anni settanta, anche se tale problematica è da sempre aperta, tanto che la stessa Legge Crispi attribuiva tutti gli interventi di carattere sociale e sanitario al settore della beneficienza pubblica.

Con la legge 833/78 (art. 15 ultimo comma) si attribuì al legislatore regionale la responsabilità di definire norme per la gestione coordinata e integrata dei servizi dell’unità locale con i servizi sociali esistenti nel territorio.

Per la prima volta gli art. 32 e 38 della Costituzione furono messi in relazione al fine di attribuire un possibile diritto soggettivo sia alla tutela della salute sia alle condizioni richiamate dall’art. 38.

Ma a fronte di una solo parziale applicazione regionale del dettato della legge 833/78, una legge finanziaria introdurrà una differenziazione tra finanziamenti e competenze relative all’ambito sociale rispetto a quello sanitario.

Tale norma sancì per la prima volta che “sono a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario con quelle socio assistenziali”: ratio della legge era la preoccupazione del legislatore di salvaguardare il Ssn dagli oneri concernenti le attività socioassistenziali che invece spettavano all’utente o all’ente locale.

Nel contesto di differenziazione dei comparti sanitario e sociale, il Decreto della Presidenza del Consiglio 8 agosto 1985 precisò per la prima volta la tipologia di prestazioni sanitarie connesse a quelle sociali. Secondo tale decreto sono attività di rilievo sanitario connesse con quelle socioassistenziali:

le attività che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti67

.

67 Cfr. L. Degani e R. Mozzanica, Lo scenario normativo, in G. Bissolo e L. Fazzi (a cura di), Costruire l’integrazione sociosanitaria, op. cit., p. 49.

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L’ambito dell’integrazione venne ulteriormente definito attraverso la individuazione delle caratteristiche necessarie alla configurazione dell’attività sanitaria con quella sociale; l’art. 6 definisce, rispetto alle attività socioassistenziali, settori di intervento riconducibili alla cura per anziani non autosufficienti, alla tossicodipendenza, al trattamento dei malati mentali e all’area della riabilitazione per disabili.

L’articolo prevedeva anche che le attività socioassistenziali di rilievo sanitario fossero finanziabili dal Fondo sanitario nazionale e dovessero essere erogate in strutture protette.

Qualora poi non fosse fattibile separare l’intervento sanitario da quello socio assistenziale, le Regioni avrebbero potuto, a fronte delle disponibilità finanziarie del Fondo sanitario nazionale, ricorrere mediante convenzione a istituzioni pubbliche o, in assenza, a istituzioni private. In caso, l’onere era forfettariamente messo a carico, in misura percentuale, del Fondo sanitario nazionale o degli enti tenuti all’assistenza in proporzione all’incidenza rispettivamente della tutela sanitaria e della tutela assistenziale, e con possibile partecipazione del cittadino (Degani, Mozzanica 2005)68.

La ripartizione del costo, secondo quote forfettarie, è stata la soluzione rispetto alla determinazione del costo della prestazione da attribuire all’ambito sanitario piuttosto che sociale, mentre una certa approssimazione ha contraddistinto l’evoluzione dell’integrazione almeno fino agli anni novanta rispetto all’individuazione delle strutture dell’integrazione (requisiti strutturale e organizzativi, tipologia di gestione).

La cornice normativa ha inteso quindi regolare ruoli e competenze in relazione alle attività sanitarie connesse al comparto sociale, ma nel corso degli anni si sono realizzate anche norme regionali attuative degli indirizzi così come definiti a livello nazionale: le Regioni hanno dunque avviato in maniera diversa la qualificazione delle funzioni e la conseguente allocazione delle risorse; soprattutto nell’ambito della tutela minorile, della condizione anziana, della disabilità, l’attribuzione è stata recepita con parametri e differenziali individuati in modo diverso.

Nonostante gli incerti confini tra assistenza e sanità, il sistema così strutturato è stato confermato da successivi interventi legislativi almeno fino alla terza riforma sanitaria che ha affrontato il tema dell’integrazione per arrivare ad una sua più corretta e chiara implementazione. I deficit culturali e tecnici di questa prima impostazione risentivano forse di una visione ancora incentrata sul primato dell’assistenza ospedaliera e residenziale e quindi non in grado di guardare ai contenuti tecnici delle prestazioni, alla loro complessità, alla personalizzazione dei processi assistenziali, che non è meccanicamente riconducibile ai contesti (ospedale, residenza, centro diurno, domicilio) in cui l’assistenza viene erogata.

Una risposta più approfondita a tali problemi viene data dal Piano Sanitario Nazionale (1998-2000), dove si afferma che “l’integrazione delle responsabilità e delle risorse rappresenta una condizione essenziale per migliorare l’efficacia degli interventi. Essa incide sulla continuità assistenziale, investe i rapporti tra ospedali e territorio, tra cure residenziali e domiciliari, tra medicina generale e specialistica”.

Poco dopo, la riforma ter, appellandosi ai principi costituzionali prima esposti, fornì una spiegazione dell’integrazione sociosanitaria partendo dalla definizione delle stesse prestazioni sociosanitarie: attività atte

68 A tale scopo viene istituita, presso ogni Regione o Provincia autonoma, una commissione di verifica dei necessari

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a soddisfare mediante percorsi integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione.

La prestazioni sociosanitarie comprendono:

 prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite;

 prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, finalizzate a supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di handicap o di emarginazione condizionanti lo stato di salute69.

Le prime pesano maggiormente sul fondo sanitario, con maggiori costi per le aziende sanitarie e copertura dei restanti costi da parte dei comuni; le seconde, viceversa, richiedono maggiori oneri per i comuni e minimi per le aziende sanitarie.

Il primo gruppo di prestazioni integrate (sanitarie a rilevanza sociale) include anche le prestazioni definite, sempre dal D.lgs. 229/99, “ad elevata integrazione sanitaria” e che sono a totale carico del fondo sanitario dovendo poi essere garantite dalle aziende sanitarie.

Un passaggio fondamentale si concretizzò con la legge 8 novembre 2000 n. 328 che infatti affrontò la questione del coordinamento e della integrazione sociosanitaria, proponendo di disciplinare la materia ai diversi livelli (nazionale, regionale, locale) e nelle differenti dimensioni (istituzionale, organizzativa, operativa, etc.); il nuovo quadro di riferimento del sistema dei servizi sociali si baserà proprio sull’integrazione : “gli obiettivi di benessere, di socializzazione, di salute possono essere perseguiti solo con l’azione convergente di più politiche e azioni e assegnando alla politica e ai servizi sociali una funzione di collegamento tra queste.”

Il D.P.C.M. 14 febbraio 2001 precisò chi siano i destinatari degli interventi sociosanitari, la tipologia delle prestazioni e gli enti di competenza, nonché i criteri di finanziamento, mentre quello del novembre 2001 stabilì le prestazioni sanitarie essenziali per rispondere ai bisogni di promozione, mantenimento e recupero della salute e definisce l’area dell’integrazione sociosanitaria a favore di minori, donne, famiglie, anziani, etc. di competenza delle Aziende sanitarie ed erogabili in ambulatori, strutture residenziali, semiresidenziali e al domicilio; inoltre, sempre il D.P.C.M. 29 novembre 2001 distinse tra prestazioni sanitarie a carico del Ssn e prestazioni sanitarie a rilevanza sociale che, in virtù della complessa presenza di componenti sociali e sanitarie, avrebbero gravato in percentuale di costo sul Comune o sull’utente70.

Bisogna inoltre considerare poi le modifiche apportate dai successivi Piani sanitari, sociali o sociosanitari emanati dalle diverse Regioni che, nell’approfondire i contenuti delle leggi nazionali in merito al tema della integrazione sociosanitaria, delineeranno i contorni dei diversi modelli regionali di gestione e di intervento dei servizi alla persona.”

69 Cfr. L. Degani e R. Mozzanica, Lo scenario normativo, in G. Bissolo e L. Fazzi (a cura di), Costruire l’integrazione sociosanitaria, cit..

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La questione richiederebbe ulteriore approfondimento in merito, ad esempio, ai diversi livelli di integrazione (istituzionale, gestionale, professionale) e agli strumenti operativi come i Piani di zona, agli organi politici (Comitato di distretto) o alle attività del distretto e all’organizzazione dei servizi (programma delle attività territoriali), ma mi sono limitato ad introdurla perché fornisce, a mio parere, alcuni concetti utili a comprendere le peculiarità del Sistema Socio Sanitario veneto.