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Cosa ci resta Credere al corpo

La croyance e il corpo

I. Cosa ci resta Credere al corpo

Questione delicata quella della tomba che, in un certo senso, sembra già in sé invitare alla resurrezione. Delicata almeno quanto quella che ci impone di domandarci oggi “cosa resta” del cinema, perché se è vero che l’arte è una cosa del passato, come voleva Hegel, ecco che questa è anche, rispondono Malraux e Deleuze, la sola cosa che resta. Questione da declinarsi ancora una volta nella sua forma interrogativa (allo stesso modo di Jacques Aumont che, riagganciandosi nel titolo di un suo recente studio, all’importante saggio di André Bazin Qu’est-ce que le cinéma?) prova a discuterne a partire del contesto esperienziale contemporaneo nel quale ci troviamo a consumare oggi le immagini-movimento. Cosa vuole allora intendere lo studioso francese affermando in Que reste-t-il du cinéma? che la forma cinematografica si è dissolta a beneficio di nuove circolazioni di immagini? Altra declinazione della domanda sarà ancora quella del cosa resta dunque della pratica artistica inventata nel XIX secolo? Ebbene, iniziando a rispondere, il cinema oggi è tutt’altro che scomparso ma è innegabile che i cambiamenti avvenuti nei media e nei médiums (modi di comunicazione e mezzi di comunicazione, dunque) sono venuti riconfigurando in maniera sostanziale il campo delle immagini in movimento. Tuttavia, sostiene Aumont, queste nuove apparizioni non avrebbero di fatto cambiato una certa “capacità di distinzione” del cinema, aderendo a una sua differenza consustanziale capace di farsi veicolo di certi valori di cui, sì, il cinema sembra possedere ancora l’esclusività. Valori estetici e non solo, che i suoi eredi sono ben lontani dall’esibire con una tale evidenza. Bisogna allora ancora intendersi bene anche su cosa oggi significhi ancora il termine “film”: termine ripreso in inglese verso la fine del XIX secolo per designare propriamente la pellicola forografica in un primo momento, successivamente quella cinematografica. Da molto tempo con questo termine si è soliti infatti indicare par catachrèse un’opera di immagini in movimento destinata ad essere vista da un pubblico in condizioni assai precise; una certa tecnica di registrazione orientata insomma al continuum (Aumont riporta l’esempio di Arca russa di Sokurov del 2002, opera sicuramente più propizia ad assicurare una certa impressione di fluidità, anche se innegabili sono una serie di interventi di composizione-

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filtrages, modificarions de l’éclairage ecc..- che sembrano situare questa pellicola ben lontano dalla concezione baziniana di piano-sequenza). D’altronde battezzare come “montaggio” i gesti che affettano gli innumerevoli “événements numériques” di questo film non è poi così ovvio; va senz’altro riconosciuta un’estensione al senso della parola che va molto al di là del suo significato ordinario (assemblamento di piani successivi). E non sarebbe certo questa la prima volta che una tale estensione viene proposta. Ma nelle condizioni in cui esso si dà, fenomenicamente, non si può mettere in discussione il fatto che si tratti proprio di un film.

Divenire immagine e divenire corpo. Per Daney il piacere del cinema era qualcosa di molto semplice, voleva domandare in altri termini: cosa può un corpo296? Che cosa ha fatto, del resto, la fotografia rispetto alla pittura? Ha aperto la via all’istantaneità, in altre parole si è resa sensibile alle “pose” che la realtà assume ad ogni istante e che prima ci sfuggivano solo perché mancavano i mezzi per “bloccarle”. “Ha inventato il “movimento qualunque” di cui parla Deleuze, sono parole queste dello stesso Daney. Che cosa ha fatto allora il cinema rispetto alla fotografia? Ha moltiplicato la foto per ventiquattro per ottenere un secondo di movimento. Ha demoltiplicato i movimenti qualunque, gli interstizi, creando, anch’esso un tipo di “posa” (e di bellezza) che non è esattamente quello della pittura e della fotografia. La bellezza di un’inquadratura è di tipo diverso e nuovo. Siamo stati noi che spingendo le cose più lontano (feticismo barthesiano, “terzo senso” ecc.) abbiamo riconosciuto diritto di cittadinanza al “fotogramma”, di volta in volta “carne” del film, inconscio dell’immagine, ma anche, a partitre da un certo movimento, immagine tout court anch’essa con una sua bellezza “bloccata”297

Bisognerebbe formulare allora la stessa domanda oggi e domani: partire dai gesti, dal sistema nervoso, dal corpo (e non dal contesto sociologico) e cercare di capire a cosa corrisponderà la sovra- percezione futura. “Quella delle persone nate non solo sotto il segno della televisione, ma con un videoregistratore, il fermo immagine, lo zapping, gli schermi, i computer e le immagini digitali.” Dice Daney: “Capire in quale momento spunta qualcosa di simile a un bisogno , in quale momento servire la macchina (o sfruttare fino in fondo le sue possibilità) non basta più perché diventa necessario che essa serva a qualcosa298

La crescente proliferazione di immagini che caratterizza la cultura contemporanea rende sempre più necessaria, a detta di uno dei più importanti teorici dei media oltre che critico d’arte e specialista di imagologia, Hans Belting, l’elaborazione di una iconologia critica che si faccia carico

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For Daney ‘[t]he pleasure of cinema is quite simple, it is to ask oneself only one question: what can a body do? And what can that body do? I even think that this question is at the heart of every popular art’ (Daney 2002, 22)

297 S. Daney, Il cinema e oltre p. 27 298

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di uno studio antropologico delle immagini stesse. Nel progetto dello studioso il concetto di immagine non può essere compreso in maniera adeguata senza far riferimento ad altri due concetti che con esso comporrebbero una triade fondamentale: quelli di medium e di corpo, appunto. Se è vero infatti che un medium è propriamente ciò che rende visibile un’immagine consentendone la trasmissione, allora diventa automaticamente impossibile distinguere immagini mentali (quelle della memoria e dell’immaginazione) dalle immagini cosiddette materiali (come un quadro o una fotografia). È solo grazie al nostro corpo, il nostro primo medium, che ci è dato percepire, ricordare, immaginare ecc. Questo legame tra immagini, media e corpi risale alla stessa produzione di immagini ed è importante tenerne vivo il legame anche proprio alla luce del percorso affettivo che qui si intende seguire e sostenere.

Per quanto più propriamente ci riguarda, la croyance al cinema ci pone, a sua volta, di fronte a questa essenziale domanda, ma lo fa – se possibile- assottigliando ancora i termini della questione; la domanda che la croyance deleuzianamente ci pone è infatti: cosa (ci) resta? E, specificamente riprendendo il quesito essenziale de L’immagine-tempo, cosa ci resta in questo mondo diventato per noi tanto intollerabile? Una prima soluzione ci viene suggerita ancora tra le righe dell’Immagine- tempo, nel momento in cui Deleuze afferma: “L’uomo stesso non è un mondo diverso da quello in cui sente l’intollerabile e si sente incastrato. L’automa spirituale è nella situazione psicihica del veggente, che vede tanto meglio e tanto più lontano di quanto non possa reagire, vale a dire pensare299.” Una seconda risposta invece non può che venirci da alcune considerazioni svolte ancora una volta dal filosofo nel corso delle sue lezioni dedicate al rapporto cinema/pensiero. Facciamo bene a chiederlo, afferma Deleuze in questo frangente, a reclamare cioè delle ragioni per continuare a credere non in un altro ma in questo mondo qui. Ma allora che cosa vuol dire esattamente chiedere delle “ragioni”? E, nello specifico delle “ragioni” per continuare a credere in questo mondo e non in un altro? Deleuze ha affermato che credere in questo mondo qui non ha mai voluto significare in fondo che credere nella possibilità di vita che ci si dà in questo stesso mondo” ; credere cioè a nient’altro che alla vita qui. E credere alla vita qui, non vuol dire altro: vuol dire credere al corpo.

Che la nostra croyance abbia un corpo o sia un corpo: ecco la nostra ossessione, ha scritto ancora Nancy: “Il questo in cui si presenta l’Assente per eccellenza: incessantemente lo abbiamo chiamato, convocato, consacrato, abbordato, captato, voluto, voluto assolutamente. Abbiamo voluto l’assicurazione, la certezza pura di un ECCO: ecco, senz’altro, assolutamente, ecco, qui, questo, la

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115 stessa cosa300.” Ebbene, provando ancora a risalire all’origine stessa della domanda: tolto il sapere “cosa ci resta?”, saremmo portati a concludere: “Ci resta un corpo”. “Datemi delle ragioni per credere in questo mondo qui” non equivale ad altro: “Datemi un corpo”, dice Deleuze. Ma ecco allora che questo corpo non potrebbe essere più lontano dal glorioso “corpo greco”: modello di sapere, composto essenzialmente da una materia “informata”, con-formata301. Questo nostro corpo

qui è ben altra cosa; pur nella sua povertà di corpo paziente, capace di assorbire il tempo- di trattenerlo presso di sé - di trascriverlo e di renderlo in qualche modo, nelle sue carni, leggibile. C’est un corps qui est le corps du temps ci dice infatti Deleuze. Spinoza sosteneva che non conosciamo affatto ciò che può un corpo e Deleuze stesso ha pure scritto: “parliamo della coscienza, dello spirito, ne facciamo occasione di chiacchiere, ma non sappiamo di che cosa un corpo sia capace, quali siano davvero le sue forze e cosa preparino (….) : in tutta l’evoluzione dello spirito si tratta forse del corpo302”.

Che cos’è allora il corpo? Sarebbe forse inadeguato definirlo come campo di forze, luogo che una molteplicità di forze si contende per trarne alimento, giacché un “luogo”, un campo di forze o un campo di battaglia non esistono di per sé; non c’è quantità di realtà, ma ogni realtà è già quantità di forze “in un rapporto di tensione” le une con le altre. E poiché ogni forza ha un rapporto di dominio o di obbedienza con altre forze, un corpo verrà a definirsi in base al rapporto tra forze dominanti e forze dominate. Affinché si costituisca un corpo- chimico, biologico, sociale, politico- è sufficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra loro. Un corpo è perciò sempre frutto del caso nel senso nietzscheano del termine: per questo è la cosa più “meravigliosa”, molto più della coscienza e dello spirito303.

È interessante, a questo proposito ricordare che nella ben nota lettera che Deleuze scrisse a Serge Daney sempre a proposito della rottura operata dal cinema moderno rispetto al modello classico, si faccia riferimento non a caso a nuove possibilità di ri-concatenamento delle immagini (non più raccordate fra di loro seguendo l’ordine univoco dei tagli e dei loro raccordi); “cambiava”,

300 J. –L. Nancy, Corpus, p. 8 301

(…) En d’autres termes, les raisons de croire en ce monde-ci, c’est le corps : « donnez-moi donc des raisons de croire en ce monde-ci », c’est « donnez-moi un corps ». Au point où nous en sommes, on considérerait comme une objection tout à fait déplacée qu’on réponde : « croire en ce monde-ci, ça se fait tout seul », ou bien « Un corps ? Vous l’avez déjà ». Sans doute je l’ai déjà en fait, et sans doute je crois dans ce monde-ci en fait ; mais d’une certaine manière, je pose une question de droit : je réclame des raisons de croire en ce monde-ci. Et je demande un corps, qu’on me donne un corps. (…) Donc ce n’est pas un beau corps grec que je demande quand je dis « donne-moi donc un corps ». Oui, ça peut être un corps fragile. Même pire, un corps fatigué - un corps fatigué... qu’est-ce que ça veut dire ça ?... - ou bien un corps qui attend quelque chose. La fatigue et l’attente, la fatigue, l’attente... C’est le contraire du corps informé, c’est le contraire de la matière informée par une belle forme ; la fatigue et l’attente marquent une inadéquation du corps avec soi.”

302 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p. 59 303

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scrive allora Deleuze, “anche il rapporto delle immagini con i corpi e gli attori cinematografici: i corpi, diventavano più danteschi, cioè non erano più presi in azioni, ma in posture, con i loro specifici concatenamenti (ciò che lei mostra anche qui, a proposito della Akerman, di Straub, o in una pagina stupefacente dove lei dice che l’attore, in una scena d’alcolismo, non deve più accompagnare il movimento, e barcollare come nel vecchio cinema, ma al contrario deve acquistare una postura, quella tenuta da un vero alcolizzato”304.

Cosa implica tutto questo e quali ripercussioni immediate si avranno allora nel cinema? Il cinema è indubbiamente un’arte capace di sostenere intense relazioni con i corpi, come ci ricorda ancora Rancière: “Le cinéma est l’art du temps des images et des sons, un art construisant les mouvements qui mettent le corps en rapport les uns avec les autres dans un espace. Il n’est pas un art sans parole. Mais il n’est pas l’art de la parole qui raconte et décrit. Il est un art qui montre des corps, lesquels s’expriment entre autres par l’acte de parler et par la façon dont la façon dont la parole fait effet sur eux305. Il cineasta è pertanto colui che per primo si interessa ai corpi, alla maniera in cui essi stazionano o si muovono nello spazio. Il cineasta moderno, in particolare poi, si interessa alle situazioni che li abbracciano e ai loro movimenti piuttosto che alle storie e al loro sviluppo drammaturgico. Si direbbe infatti che una data situazione se troppo costruita sia quasi costitutivamente impossibilitata a liberare quella potenza che solo può darsi nello scarto. Spiega ancora Rancière: “Une situation ne délivre sa puissance que par l’écart qu’elle creuse avec la simple logique d’une histoire: le temps passé à suivre la marche uniforme de personnage dans une plaine dépourvue de tout accident, à tourner autour d’un visage silencieux ou à cadrer en plan fixe la gesticulation sans fin des corps”306. I film realizzati da Béla Tarr, come abbiamo potuto vedere in special modo, sono pensati proprio per essere nutriti di una tensione capace di crearsi tra le storie circolari dai fini illusori che queste contemplano e la possibilità di costruire uno scenario visuale come estratto dalla finzione. Lasciando susseguire la potenza delle situazioni che durano, ma che anche rompono la circolarità conferendo tutta un’altra forza alle linee dritte, alle linee di fuga in avanti al seguito di un’ombra. Lo stesso Tarr non ha mai smesso di ripetere che non ci sono allegorie nei suoi film ma tutto é impietosamente materiale.

Il cinema è, ancora, un’arte dalle forti impressioni; esso ci ricorda, nella sua costitutiva materialità, di una comune sensibilità d’ “impressionare” come d’essere “impressionati” che è del nostro unico, possibile, stare al mondo. Essere nel mondo. Se dunque noi siamo sensibili, lo siamo nello stesso grado e con la stessa intensità in cui viviamo di sensibile, come ha scritto Emanuele

304 G. Deleuze, Ottimismo, pessimismo e viaggio, p. 10 305 J. Rancière, Bela Tarr, corsivi miei, p. 12

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Coccia nel suo La vita sensibile. .E sensibile in tutto e per tutto è proprio il nostro stesso corpo: “La nostra pelle e i nostri occhi hanno un colore, la nostra bocca ha un certo sapore, il nostro corpo non cessa di emettere luci,odori o suoni muovendosi, parlando, mangiando, dormendo. Viviamo di sensibile (…) Il nostro rapporto al mondo è vita sensibile: sensazioni, odori, immagini, e soprattutto un’ ininterrotta attività di produzione di realtà sensibili (…). Essere-nel-mondo significa innanzitutto essere nel sensibile, muoversi in esso, farlo e disfarlo senza interruzioni307.

Come nell’esperienza di Lancillotto, lo spettatore di cinema è colui che se ne sta a osservare venire a comporsi nella neve - la tela bianca dello schermo - il ritratto rosso sangue di Blanchefleur per vederlo svanire subito dopo. Ma che importa? Questo è il cinema, questo è del cinema; e, ancora una volta, chi ha descritto meglio di Jean Louis Schefer questa esperienza?: “(…) è un fiume che trasporta degli uomini e in questo solo scorrere vi vedete vivere degli uomini; e noi vi abbiamo amato delle donne come Werther Charlotte, come Lancillotto questo accidente di sangue che dipinge sulla neve il ritratto della sua ragazza. La prima immagine che abbia visto, tre gocce sulla neve e che il sole fa sciogliere. Solamente qui, in un’immagine, vede la vita e la sua interpretazione: questa macchia è proprio l’inizio della sua memoria e questa superficie l’abisso dal quale risale lungo tutta la sua vita308. Questo dal lato dell’eccesso. Dal lato diametralmente opposto, abbracciando sensibilmente le immagini, in un certo senso, arriviamo anche a disfarci dei nostri stessi corpi (privazione)– come ha scritto Georges Didi-Huberman, “per rivestirci di una qualche irrealtà e insieme di eternità”. È proprio nel corpo, infatti, che possiamo fare esperienza di una sorta di opacità senza fondo: “le immagini ci abbracciano: si aprono a noi e si richiudono su di noi nella misura in cui suscitano in noi qualcosa che potremmo chiamare un’esperienza interiore309. Più incarnato, più impensato310 allora. Si dirà ancora, non a caso, che in un regime di croyance il sacro non scompare dai film ma trova nuove strade attraverso cui manifestarsi; e si potrebbe descrivere questa metamorfosi come il passaggio da una sacralità dell’ascesi a una sacralità dell’incarnazione. Bisogna intendere dunque questo passaggio esattamente come il contrario del processo ascetico dove lo spettatore viene portato fuori di sé e, da qui, egli viene spinto a riconoscersi come parte di un insieme più vasto (il Trascendente), di cui il mondo fenomenico non sarebbe che un riflesso superficiale. L’incarnazione del sacro prevede invece un movimento del tutto diverso. Non è più l’uomo a superare le distinzioni individuali e a scoprire la vera natura del mondo ma la realtà di tutti i giorni a farsi teatro di un evento soprannaturale311. La nostra croyance non può che avere come

307 E. Coccia, La vita sensibile, pp. 13-14 308

J.L. Schefer, Du monde et du mouvement des images, Cahiers du cinéma, Paris, 1997

309 G. Didi-Huberman, L’immagine aperta, Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Milano, Mondadori, 2008, p. 1 310 Ivi, 3

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unico scopo la carne, dice infatti Deleuze. È questo il germe di vita cui allude il filosofo scrivendo: “Dobbiamo credere al corpo, ma come al germe di vita, al seme che fa spaccare i selciati che si è conservato, perpetuato nella sacra Sindone o nelle bende della mummia e che testimonia la vita in questo mondo così com’è”. Proprio per questo abbiamo bisogno di un’etica o di una fede (…)”312

. Date queste premesse, l’emergenza della centralità del discorso attorno al “corpo” che mai come ora (sulla soglia di quella che abbiamo visto accompagnare una specifica modernità cinematografica) sembra sentire e patire come mai aveva fatto prima e in riferimento all’esperienza “affettiva” di Lancillotto realizzatasi davanti all’immagine (cercando di capire “dove questa nascita avrà luogo313” e comprendere a partire da cosa un’immagine riesca a nascere allora in questo mondo), ci verrebbe da dire che la croyance è dunque, per essenza, una delicata questione d’affezione. E che cos’è d’altronde un’affezione se non innanzitutto una composizione di corpi? In termini generali Deleuze riferisce ancora, via Spinoza, che un’affezione consiste “in uno stato causato dall’azione di un corpo su un altro corpo314”: come a dire mi sento addosso il calore del sole. Ne deriva che l’affectio altro non è che la combinazione di due corpi: uno che agisce e l’altro che viene segnato dalla traccia del primo. La natura del corpo segnato è centrale nel discorso spinoziano, molto più di quella del corpo che affetta. E qui forse non si può fare a meno di tornare ancora una volta a Bergson (e andare possibilmente oltre Bergson) per comprendere a fondo la relazione che si stabilisce tra immagine-movimento e immagine cinematografica. Se image=matière=movimento occorre ricordare che contrariamente alla fenomenologia l’autore di Matière et mémoirenon pensa affatto che “ogni coscienza sia coscienza di qualcosa” ma piuttosto che “ogni coscienza sia qualcosa”. In quest’ottica tutte le immagini sono portate a reagire le une sulle altre secondo delle leggi costanti, alimentando così dei veri e propri “divenire” che mi è dato