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The thoughts that once we had: divenire nel cinema del concetto di croyance.

Ma esiste un secondo movimento che va dal concetto all’affetto, o che ritorna dal pensiero all’immagine. Si tratta di restituire al processo intellettuale la sua “pienezza emozionale” o la sua “passione.”

G. Deleuze

“When did Griffith discover the affection-image? Who inspired this discovery? Mary Pickford? Lilian Gish? The history books don’t tell me!” Sfilano volti, volti lunari rasenti un muro,

108 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889 p. 90 109 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p. 95

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luminosissimi prima di svanire, evaporare in fondu, in quelli che sono i primi istanti di scorrimento del film The thoughts that once we had di Thom Andersen (2015); e Volti come composti di elementi. Se è infatti del concetto rendere le componenti al suo interno inseparabili; distinte, eterogenee e tuttavia inscindibili: questo è pure lo statuto delle componenti, “ciò che propriamente definisce la consistenza del concetto, la sua endo-consistenza111”. Ogni componente verrebbe a costituire allora una zona di vicinanza o una soglia di indiscernibilità con un’altra: per esempio nel concetto di “altri” il mondo possibile non potrebbe esistere al di fuori del volto che lo esprime (sebbene se ne distingua come la cosa espressa si distingue dall’espressione), e il volto è dal canto suo la prossimità delle parole di cui esso è già il portavoce112”. Tutte questi primi piani sorgenti da pellicole incandescenti e mute, altro non sono che delle ecceità113, non più soggetti. Sono appunto volti che non si compongono che per soli gradi di potenza cui corrispondono un potere di affettare e di essere affetti: affetti attivi o passivi, comunque delle intensità. Il discorso per immagini sostenuto dal filmmaker e saggista americano è sicuramente fondato sul riconoscere nell’immagine un dispositivo tale da scatenare degli intrecci affettivi intesi come nuove pratiche di sguardo. Solo in questo senso, infatti, abitare l’immagine potrà iniziare indicare un altro modo di abitare il mondo e il pensiero.

Come giungere allora ad abitare delle simili immagini? Raggiungere insomma quella postura capace di illustrare il momento in cui ci si immerge in una certa materia al solo fine di renderla vivente? Se l’immagine è innanzitutto “le double, mal éclairé, de nos pratiques affectives, sociales, intellectueles (…) elle est aussi une “ruine future” que l’on nomme indȗment l’image. Cette idée de double, voire de doublure de soi, de figure indistinte, place le sujet dans la perte de l’intériorité, d’un soi vivant pour une extériorité de l’instant e du fragment de temps114

. In un certo non si smette mai di guardare le immagini affettivamente, e di guardarne l’altro che c’è dentro; come nel caso di Godard per il quale “essere nell’immagine” significa in primo luogo proprio abitare il processo stesso di creazione: “Ce que je voulais, c’est passer à l’intérieur de l’image, puisque la pluspart des films sont faits à l’extérieure de l’image. L’image en soi, c’est quoi? Un reflet sur une vitre, est-ce que ça a une épaisseur? Ce que je voulais, c’était voir l’envers de l’image, la voir par derrière et non

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112 Cfr. Che cos’è la filosofia? P. 9-10 Le componenti restano distinte, ma qualcosa passa dall’una all’altra, qualcosa di

indecidibile tra le due: c’è un campo ab che appartiene sia ad a sia a b dove a e b “diventano” indistinguibili. Queste zone, zone di soglia o di divenire, questa inseparabilità, definiscono la consistenza interna del concetto. Il quale peraltro possiede ugualmente un’eso-consistenza rispetto ad altri concetti, di modo che la loro creazione rispettiva implica la costruzione di un ponte sullo stesso piano. Le zone e i ponti sono le giunture del concetto112

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“Ecce homo ordina ciò che prima chiamavamo l’ecceità dell’uomo: la sua presenza, per se stessa, in questo o in quel “qui”, indipendentemente da tutti i suoi attributi e dalla sua stessa essenza. L’ecceità è l’essere spogliato di tutto ciò che non è il suo esser-qui- o il suo esser-ci. “ J.-L. Nancy, L’essere abbandonato, p. 21

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devant. Au lieu d’être derrière le véritable ècran, on était derrière l’image et devant l’écran. Ou plutôt à l’intérieur de l’image.115

E proprio in questo straordinario film di found footage Godard si trova accanto a Griffith, catturati insieme in una dinamica tutt’altro che esplicativa finalizzata piuttosto a dare un volto, una carne alle idee di Deleuze e fra queste – su tutte – la tematica della croyance sembra assumere un’importanza nevralgica, non ancora sufficientemente esplorata. A partire dalla prima didascalia scopriamo che The Thoughts That Once We Had, è “una personale storia del cinema, parzialmente ispirata da Gilles Deleuze”. Tuttavia se si cercherà nel film un’illustrazione del testo deleuziano in immagini si rischierà di rimanere molto delusi. Andersen non è certo un ingenuo e sceglie il cinema per il cinema. Sceglie insomma di innescare una tensione feconda proprio tra teoria e storia attraverso degli assai sofisticati gesti di montaggio, usando quindi l’immagine come potente vettore: “Così, il commento sul “voltarsi e svoltarsi del volto”, riferito a Dreyer, è inserito dopo immagini di Pedro Costa. Il privilegio concesso all’immagine-affezione, su cui Andersen apre e chiude il suo discorso, suggerisce un interesse per le soglie critiche dell’immagine-movimento, quelle che sconfinano in un al di qua (l’immagine-affezione appunto) o al di là (l’immagine-relazione) dell’azione vera e propria. Il carattere di sospensione dell’immagine-affezione, individuata nell’intervallo tra percezione e azione come qualità-potenza pura, priva di relazioni, insinua una potenziale rottura nella catena di azioni e reazioni del cinema classico”, ha scritto Tommaso Isabella116.

Molto qui sembra giocarsi sulla potenza della ri-proiezione, quindi della ripetizione, come Altra rivelazione. Quando ad esempio si è ancora una volta davanti a delle immagini come le strade piene di cadaveri nella Leningrado assediata del 1942, e ancora, le strade deserte di Parigi percorse dal corteo hitleriano; e Corea e Vietnam, e poi Hiroshima, è chiaro che ciò che avviene si compie ben aldilà di una semplice comunicazione. L’arte d’altronde si sa, si guarda bene dal comunicare. L’arte fa dell’altro; l’arte spalanca. L’arte, e il cinema in special modo è questa impura Visitazione, per riprendere un’idea molto potente di Badiou. Proprio la carica virtuale di un montaggio che non potrebbe essere definito altrimenti che “affettivo” viene a cortocircuitare con la disarmante attualità delle immagini documentarie. Ecco allora che il cinema nel film di Andersen risuona come “A vestige of the thoughts that once I had”, secondo il verso della poesia della pre-raffaellita Christina Rossetti (1830-1899) .

115 J.-L. Godard, Scénario de Passion, Film, France-Suisse, 1982

116 T. Isabella, “Il cinema, il pensiero e le sue tracce”, Filmidee 16 , 1 febbraio,

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Si tratta quindi, ancora una volta, di un film dedicato al cinema – non certo alla sua morte. The Thoughts That Once We Had è un film spaventosamente affermativo; è lo è in quanto concatenamento, cioè agecement, un assemblage, un montaggio. Cinema come medium modernista per antonomasia, dicevano Stanley Cavell e Annett Michelson, perché critica feroce della rappresentazione, ma forse ancor di più proprio in quanto montaggio. Il film di Thom Andersen è “questo montaggio del pensiero che fa pensiero, un pensiero per immagini (la definizione deleuzeana del cinema) che non è legame né chiusura, compimento, catena significante, ma ansia di riscatto e rapporto con il fuori, con un fuori irriducibile, come irriducibile è la storia così disseminata e sperimentale del cinema”117

. Forse davvero il miglior omaggio a Deleuze, morto vent'anni fa.

Lo schermo nero che proprio la croyance veicola non è allora solo indice di un’assenza, ma propriamente un vuoto scavato nella saturazione di un mondo divenuto cinema, uno spazio liberato, quindi una purissima possibilità di immagine. Così dallo spazio sonoro del disco si passa a immagini di natura elementare, paesaggi privi di ogni presenza umana: il cielo e il mare che riempiono l’inquadratura, pura materia a-significante, mondo al di qua dell’uomo, inabitabile, capace tuttavia di prefigurare quella terra promessa che tanto interessa il nostro discorso e che il cinema offre a coloro che non hanno nulla118. Eccola allora dispiegata quella nouvelle vague che è dell’affezione moderna- “A new wave for the affection- … the invention of a people to which a necessarily political art must contribute”. Nei suoi sogni implicati, il cinema propaga il suo movimento di mondo. “The sky and the sea are more beautiful than any landscape” (Il cielo di Puissance de la parole, il mare di Film Socialisme) “..it is the suspension of the world, rather than mouvement, that gives the visible to the thought”: ecco la nascita nascosta del pensiero (The hidden

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Un concatenamento di associazioni, connessioni, tagli, che a sua volta libera, decontestualizza e fa dialogare oppure entrare dialetticamente in urto le immagini del Novecento, il secolo della guerra e del cinema: Hiroshima e Korea, il Vietnam e la Rivoluzione d'Ottobre, proletari e capitalisti e tutte le immagini-cinema descritte nella tassonomia di Deleuze: immagine-affezione, immagine-percezione, immagine-azione – con i rispettivi rimandi a Peirce e Bergson. I volti griffithiani di Lillian Gish e Mary Pickford come lastre in cui si riflette l'emozione, il volto di Marlene nei film di Sternberg che si fa supporto e arena di una drammatica alternativa etica, fino allo svoltarsi dei volti della modernità (Godard, Cassavetes), un volto nella tenebra (Costa). e poi le musiche (“Skip” James, Rolling Stones, Miles Davis, Hank Ballard, Charles Ives...) così co-essenziali per Andersen anche in Get Out of the Car, che è diventato filmmaker ascoltando i nastri di un film di Howard Hawks con Bogart... Film e moving-images, quelle della tv (con un Norman Mailer imperlato di sudore che con passione racconta e decostruisce lo Skyline verticale di Manhattan), dei reportages, dei documentari, le interviste ai musicisti neri che hanno scalato le classifiche e messo un po' di twist nel mondo dei bianchi (“Come-on Baby!”). Andersen innesta del produrre (il suo montaggio) nel prodotto (i film già prodotti). L'ha fatto anche in Reconversão (2011), un assemblaggio cinematico di alcuni progetti dell'architetto portoghese Eduardo Souto de Moura (case, edifici già fatti e prodotti), a sua volta, sempre attento a combinare vecchio e nuovo, passato e presente, elementi della tradizione e caratteri della contemporaneità, caratteristica che fa della sua architettura una giustapposizione di elementi eterogenei – un montaggio potremmo dire – che non poteva che fare eco con la prassi filmica di Andersen. Toni D’Angela, “The Thoughts That Once We Had (Thom Andersen). Un pensiero per immagini”, http://www.lafuriaumana.it/?id=434

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birth of thought). È questa l’essenza del cinema “…as thought as its higher purpose, nothing but thought and its functioning”. La percezione della catastrofe, il mondo che guarda la sua stessa lacerazione, che fa della sua stessa violenza uno spettacolo, questo pure è mostrato nel film. E poi le fughe, le veloci corse in auto, le camminate-ba(l)lades che liberano, sogni implicati, movimenti di mondo, danze senza peso, quelle di Jeanne Moureau (nel film di Malle musicato da Miles) e quella magnifica del tunnel di Millenium Mambo (2001). Le passioni, gli stermini, i volti, gli sguardi, le azioni, le relazioni mentali, i divi e i piccoli attori “mostruosi” (Timothy Carey). Griffith, Aldrich, Pedro Costa, Kubrick, De Toth, Hsiao-Hsien, Brando, Cassavetes, Welles, Demy, Gena Rowlands, Kaurismaki, Lang, Langdon, Marx Brothers, Chaplin, Errol Morris, Ida Lupino. Le immagini si legano tra loro intimamente mediante segrete corrispondenze con quel qualcosa d’altro che proprio i segni inviluppano. Al di là di ogni possibile narrazione, queste immagini sono già presenza, quell'analogon di cui parlava Jean Mitry, “che tuttavia non si limita ad essere semplicemente una presenza, ici, giustificata da ciò che la precede o che attende di essere sanzionata da ciò che sta per venire, ma che è di per sé pulsazione, cioè non è identica a sé ma differenza, mostra e significa, ailleurs119. Questa loro presenza d’immagini non si dà insomma già che come fuga, ma è in questa fuga la loro potenza; una fuga impressa nello sguardo che ne fa un’immagine: il nostro sguardo di spettatori di cinema.