La croyance e il corpo
III. Ouverture e profondeur: motivi dell’immagine aperta al cinema
Dove si pone la crisi della rappresentazione, è proprio lì, scrive Georges Didi-Huberman che si aprono le immagini. Si tratterà, pure in questo contesto, di riprendere allora il concetto di “immagine aperta” nel tentativo di ri-modularlo oltre che secondo le modalità dell’impensato, del sintomo, della sopravvivenza (modalità già abbondantemente criticate dall’autore del saggio: L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive) secondo quelle modalità che sono di ogni atto che voglia dirsi “di croyance”: un momento privilegiato, un evento di immagine.
Apertura, innanzitutto, implica sempre incarnazione; è quanto scrive lo storico dell’arte autore di Storia dell'arte e anacronismo delle immagini, che ricorda come il pensiero dell’apertura sia stato un tratto caratteristico di tutta l’estetica contemporanea da Bergson a Gilles Deleuze, da Rilke a Henri Maliney o da Bataille a Giorgio Agamben:
Il fatto è che l’immagine aperta attraversa il tempo secondo la modalità dell’impensato, del sintomo, della sopravvivenza (…) L’immagine aperta è, a suo modo, l’immagine sempre sopravvivente del motivo, remoto e immediato, dell’apertura. Come dire che, nell’immagine, i problemi di spazialità- aprire, infatti, ci indica per prima cosa una certa operazione sullo spazio- sono inseparabili dai problemi di temporalità346.
Proprio una certa spazialità dovrebbe essere allora compresa, anche e soprattutto al cinema, come temporalità nella sua apertura, nel suo squarcio, nella sua vocazione all’orifizio, alla ferita all’intervallo347
. Questo vuol dire alrimenti che proprio certe motivazioni patiche dello spazio hanno il potere di riconfigurarne le qualità estetiche. Se è vero che l’immagine è sempre un oggetto, è pur vero che essa è sempre anche un’operazione del soggetto. Non si districa infatti l’immagine dall’immaginazione. James George Frazer si è appunto interrogato sul mistero centrale nei fenomeni di credenza in questi termini: “Perché gli uomini desiderano deporre le loro vite fuori dai loro
346 G. Didi-Huberman, L’ immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Mondadori, Milano, 2008 p. 7 347
136
corpi348?” Tutto ciò che fa del corpo la scorza stessa dell’esserci verrebbe mostrato allora, a partire da un certo cinema affermatore di una croyance come la frontiera immediatamente sensibile tra l’individuo e il mondo.
Un cinema che si è voluto definire “moderno” è tutto insomma nella presenza dell’immagine. Proprio l’attenzione rivolta al dato materiale, all’elemento fisico che rifugge le complicazioni dell’intreccio ci sembra, per dirla con le parole Edoardo Bruno, distillare “la sobrietà di un cinema dell’interiorità349”. Occorrerà per questo aprire come su di un piano, squadernare, il corpo delle immagini che qui andremo ad analizzare affinché venga risvegliata, richiamata, con la loro intima temporalità, quale è stata catturata una volta e per sempre dall’occhio della macchina da presa, anche l’intima potenza capace di affermarsi qui e insieme in un altrove che però non è mai un altro mondo. Aprire significa anche cominciare, entrare in esercizio. Biosgna riconoscere dunque a questa operazione una qualità e una funzione decisamente positive. “In questo senso, spiega Didi- Huberman, “c’è la nascita, l’immagine concreta di un corpo che si apre per partorirne un altro. Quando si apre il bozzolo, chiamiamo imago la farfalla che se ne scappa dopo la sua lunga gestazione. Aprire significa scavare: scavare un rifugio, scavare una tomba. (…) Quando muore un uomo, viene preparato uno spazio per accoglierne le spoglie: si apre la terra, la si scava, la si organizza come uno scrigno, in modo da creare l’accesso immaginario tramite cui il morto in un certo senso possa ricominciare a vivere (…)350”
Si pensi in questo senso proprio al finale di uno dei più bei film “sul potere delle immagini”, come suggerito da Dario Cecchi, che siano stati prodotti negli ultimi anni: Silence di Martin Scorsese (2016).Il film si conclude con la morte di padre Rodrigues, quando la moglie giapponese che egli ha dovuto sposare dopo l’abiura, lo depone nel cilindro che gli fa da feretro. In quest’ultimo, estremo, frangente, scorgiamo attraverso un ultimo, delicatissimo movimento dell’occhio della macchina da presa volto a condurre un estremo atto d’indagine tra le pieghe di ciò che parrebbe impossibile celare, che egli reca ancora tra le mani il crocifisso che gli era stato donato durante la prigionia. Il film sembra porre allora, giusto in questi ultimi minuti, una questione essenziale che potrebbe essere riassunta come la questione dei volumi dotati di vuoti, attraverso la perdita- fisica- di questo corpo che contemporaneamente è apertura, forma insieme altissima e profondissima: una forma, insomma, che non può non riguardarci. Questo movimento ci è dato, letteralmente con un semplice movimento di macchina che, pur nella sua essenzialità, non potrebbe essere più vertiginoso. “Quel crocifisso”, si chiede Cecchi “è l’immagine del fatto che forse la fede
348 Cfr. Dieu, l’homme et l’immortalité, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris, 1928, p. 274 349
350
137
è rimasta viva nel cuore di padre Rodrigues. Ed è un’immagine che solo il cinema ci può mostrare: l’immagine di un segreto che il gesuita era riuscito a serbare lontano dagli occhi di tutti i suoi “sorveglianti” durante gli anni di soggiorno forzato in Giappone. È l’immagine che solo un dio può scrutare. Ma non il dio “aereo” e metafisico dell’inizio del film, che schiaccia le figure con il suo sguardo. Un dio, potremmo dire barocco, che si infila nelle pieghe dell’esistenza, che scruta i cuori ma anche i dettagli dell’essere. Un dio intimo, non più solo interiore ma carnale, anche se estraneo alle “attrazioni” della propaganda. Un dio che solo l’occhio del cinema poteva restituire, disfacendo d’un colpo all’ultima inquadratura tutte le figure del divino che ha attraversato nel corso del film”351. Si potrebbe pensare in questo senso che Silence di Martin Scorsese (2016) sia davvero un film sulla fede, anche se di una fede che si manifesta interamente attraverso le sue diverse immagini. Ma non è così, o lo è solo in via subordinata. “Toccando il cuore stesso della fede in dio nella sua immagine rinnegata, padre Rodrigues incontra un’altra logica dell’uso delle immagini, quella del potere dell’inquisitore Inoue che deve riportare l’ordine nell’impero eliminando ogni presenza cristiana sul suo territorio”352. In questo senso è vero che il film non si limita a raccontare una storia, vera o verosimile: esso ci fa comprendere cosa sia un potere che agisce con efficacia, ci fa entrare all’interno della logica attraverso cui il potere diventa azione e intercetta una croyance fondamentale. Con il gesto dell’abiura, con la richiesta di calpestare un’immagine sacra, il potere attiva, in effetti, la potenza della compassione e del perdono cristiano353. Si potrebbe dire dunque che nell’esperienza del vedere quello che questo il film c’invita a produrre è una sorta di “esercizio di fede”: l’affermazione, cristallizzata in dogma, che nella morte a questo mondo qualcosa d’Altro v’è suggerito se non iscritto e questo indubbiamente non può che conferirle anche un senso metafisico. Et vidit et credit. Niente da vedere per credere a tutto.
Il cinema sembra saper farsi carico, come nessun’ altra arte probabilmente, di quella complessa dialettica per la prima volta presentata da Aby Warburg tra astra e monstra come una dialettica di simboli e sintomi, di saperi e non-saperi. Se dovessi riferire a questo discorso un’immediato exemplum cinematografico sceglierei un altro movimento impossibile in grado di suggellare in apertura il Faust di Sokurov (2010): passando per questo mondo, trapassate dal cielo all’inferno, recita Goethe, ed ecco che da una volta stellata si finisce presto precipitati nella polvere della terra. Il film letteralmente “comincia” con il frugare delle mani del dottor Faust nelle viscere di un cadavere alla ricerca dell’anima. Siamo dunque proprio all’inizio di ogni creazione, e se è vero
351 D. Cecchi, “Le immagini della fede”, http://www.fatamorganaweb.unical.it/index.php/2017/05/22/silence-scorsese/,
corsivo mio
352 Ibid. 353 Ibid.
138
quanto affermato da Tertulliano, che non vi è materia che non testimoni la sua origine per quanto possa trasformarsi assumendo nuove proprietà (…) , che cos’è la carne se non terra, trasformata in sue raffigurazioni? I muscoli sono come zolle, le ossa come pietre, le vene come ruscelli sinuosi, i tesori nascosti nelle midolla come i minerali della carne. Il mondo corporale verrebbe già a configurarsi in questi termini come un mondo violento di crisi e di spasmi. Tipico rappresentante di quella razza sturmundraghiana solita lasciarsi pervadere dalla natura tutta attraverso i più oscuri tremiti e capacissima di identificare le proprie pulsioni con il libero battito della Vita come quella Legge che è dell’intero cosmo, Faust ci viene inizialmente mostrato nell’atto di operare una delle sue “visitazioni” in limine -limite dell’uomo nello scienziato e dello scienziato nell’uomo- tremendamente inquieto, animato solo dall’inesausta volontà di andarsi a cercare quell’unico legame indisollubile che sta tra soggetto e creato (che è poi sostanza stessa della poesia goethiana) e da qui rinvenire quelle profonde assonanze che solo possono prodursi in un’incessante ri- generazione di forme; incessante mutare d’immagine in immagine. Così, attraverso una delle sue pellicole più liriche, il cineasta russo sembra volerci suggerire che in fondo Goethe al pari di Nietzsche e Wittgenstein, hanno voluto dirci la stessa cosa: la Vita non potrà mai essere ridotta a un semplice schema causa-effetto, ma ciò che invece c’è, ed esiste è piuttosto il continuum: movimento indistinto della Vita intessuto di una rete dinamica di relazioni in cui ogni parte è libera d’influire sul tutto. Ricordiamoci di alcune definizioni del cinema che sono state portate avanti fino a questo momento. Goethe stesso ha potuto affermare più precisamente che “l’uomo ha sempre goduto più dell’immagine che della cosa stessa; aggiungendo, che se mai all’uomo fu dato godere di una cosa è solo in quanto questi ha potuto immaginarsela. Non stiamo parlando allora, nel caso del capolavoro di Sokurov, dell’uomo in quanto re della creazione, quanto piuttosto, per dirla nei termini di Deleuze e Guattari, di colui che è toccato dall vita profonda di tutte le forme o di tutti i generi, così come di colui che si incarica delle stelle come degli animali: stiamo parlando proprio di un “eterno addetto alle macchine dell’universo”, un’operatore del mondo. Ecco perché questa strana creatura composta tanto di fango quanto di polvere (elemento questo che non smette di turbinare anch’esso e tornare a più riprese nel film, e tornare comune, all’uomo come al mondo) non cessa un solo istante di credere e di gridare a una qualche divinità come un qualche Altro (mondo nel mondo, fino alla fine, ovvero fino al ribaltamento di quella stessa volta celeste che ci è stata mostrata fin dall’inizio e della terra con lei – “Che Dio mi salvi”) . E che questi si trascinino dietro pure i loro abissi, pocco importa all’uomo-Faust eterno viandante che ama errare fra le montagne e le valli delle vita, il cui corpo sembra tardare a gelare anche dopo la morte, tanto è caldo ancora il sangue che gli scorre nelle vene e che l’anima. Che anima la sua credenza in un ribollire violento che il gorgoglio dei
139
geiser fumante (ai bordi del quale egli nel finale va ad inginocchiarsi) di fatto amplifica, riecheggiandolo, questo fiotto di vita che proprio non vuole saperne di tacere e di tacere la Vita.
Proprio come dunque c’ insegnano la flora e la fauna dei personaggi portati in scena in questo Faust e che popolano questo triste mondo in grisaille, le cose della natura sembrano non finire mai di morire pur segnate nel loro destino di polvere, già cadute in cenere in un’aria che non potrebbe essere più livida. Con Sokurov la macchina-cinema pare svelare tutto un altro luogo di puro dispiegamento auratico. Perché soffiando uno spazio non si crea soltanto un luogo ma gli si insuffla il tempo. “Se mi chiedete cos’è Dio, vi risponderò che Dio è il tempo354” ha detto una volta il regista, non esitando a definire proprio il tempo il simbolo dei limiti e della non-libertà dell’arte: “Dando vita a un’opera cinematografica, noi ci intromettiamo negli affari di Dio, diamo vita a un altro mondo355”. Proprio Sokurov ci sembra allora uno dei cineasti contemporanei che più abbia saputo mostrarci come davvero non c’è fine all’immagine e che come il suo Faust il cinema non deve temere di andare “là, oltre e oltre”. Basti pensare al caso splendido delle sue Elegie-vere e proprie traversate di immagini come il magnifico Elegia del viaggio (2001).
Poiché, in fondo, cosa è mondo? Nell’idea di Lévinas, il mondo è immanenza. Immanenza che è anche soprattutto un modo temporale. Esso si impone come privilegiato: presenza che è anche il- fatto-di-essere. Presenza come esposizione nell’assoluta franchezza dell’essere significa anche raggruppamento e sincronia senza incrinature, senza scappatoie né ombre. Mondo è sempre un apparire e un darsi.356 Aprire, ancora una volta, equivale a uno svelare e un disporre, presentare la cosa ormai “aperta”: ora, se aprire equivale a presentare, la presentazione stessa pone la questione fenomenologica delle sue modalità di rivelazione o di apparizione. “Si sente già,” prosegue Didi- Huberman l’ambiguità essenziale che propongono certi dispositivi di chiusura e apertura, queste cornici o questi tagli mobili necessari alla lirurgia delle immagini: un po’ come se, affinché l’uomo creda a qualcosa di fronte all’immagine, fosse necessario inventare misteri che siano fisicamente, spazialmente percepibili, vale a dire delle matrici che li contegano e talvolta, durante il cerimoniale auratico dell’apertura, li facciano intravedere al credente, così da riesumatli, da crearli dialetticamente357.
Ma la nostra croyance, abbiamo detto, non può che avere come unico scopo la carne. Stiamo parlando allora qui di quella carne, di quella consistenza che è ad esempio della “grande passività delle cose senza ragione” come direbbe ancora Rancière. Ed è ancora sotto il profilo di
354
A. Sokurov, Nel centro dell’oceano, Bompiani, Milano, 2009, p. 228
355 Ibid.
356 E. Lévinas, Tracendenza e intelligibilità, p. 14 357
140
un’antropologia filosofica che una tale “apertura” delle immagini andrà riferita pertanto all’azione di un corpo sensibile e senziente (visibile e vedente). Un corpo estatico, o “deiscente” come lo definiva l’ultimo Merleau-Ponty (richiamato spesso da Didi-Huberman) introducendo il concetto fenomenologico di “carne”. Ciò significa che l’incarnazione né è l’ambito essenziale. Un ambito di relazioni interne -o meglio, estatiche- che, emancipato da ogni residuo di quella razionalità metafisica (esteriorità/interiorità, corpo/anima, sensibile/intelligibile ecc..) informa ora un’interpretazione metaforica e iconografica dell’apertura.
In questo senso l’espressione immagine aperta sembra rimandare quindi a un’economia molto particolare dell’immagine, nella quale forme, aspetti, somiglianze si lacerano per lasciare apparire una dissomiglianza particolare: una reale alterità, secondo la rilettura lacaniana358
apportata da Pietro Montani a questo motivo dell’apertura. Se l’apertura dell’immagine viene infatti riferita alla relazione con l’impensato-soglia e limite del contatto con un reale (come abbiamo visto)- non è tanto sulla natura auratica che bisognerà mettere l’accento quanto sulla possibile attinenza ai valori espositivi potenziati dal fenomeno della riproducibilità. Laddove infatti, scrive Montani: “i valori di culto attribuiti all’immagine costituiscono un potentissimo fattore di continuità, che oppone la più efficace resistenza a quella rottura del tempo omogeneo, rettilineo e vuoto dello storicismo359”, l’apertura dell’immagine (e l’apertura dell’immagine cinematografica in particolare) farebbe appello piuttosto alla condizione di discontinuità e a un’opera essenziale di ri-montaggio. Una posizione che è del tutto conforme all’approccio teorico di Benjamin che proprio della riproducibilità tecnica intese mettere in evidenza soprattutto le opportunità rivoluzionarie; e l’immagine aperta è proprio ciò che dischiude originariamente in vista di una diversa esperienza dell’immagine.
Ouverture e profondeur: occorre prendere allora la misura di questa doppia dimensione, scrive Didi-Huberman. Cos’è nel più profondo, l’emozione, se non essere questo movimento fuori di sé, fuori d’un certo “Io”: “C’est ainsi que l’émotion, ce mouvement hors de soi, apparaît comme un mouvement hors du “moi” (…) parce qu’il s’ouvre décisivement- se montre, s’expose, se déplie- au monde extérieur (la communauté humaine360). Jacques Lacan ha voluto distinguere non a caso un’
émotion supposta più superficiale da un émoi più profondo che a nostro avviso proprio il cinema sarebbe capace di suscitare. Quando allora nell’ultimo capitolo de L’evoluzione creatrice si pone l’essenziale questione del “meccanismo cinematografico del pensiero”, un movimento di traslazione
358
Sogno dell’iniezione di Irma
359 P. Montani, pp. 50-51
360 G. Didi Huberman, Peuples en larmes, peuples en armes, L’Oeil de l’histoire 6, Paris, Les Editions de Minuit, 2016
141
nello spazio esprime sempre qualcosa di più profondo e di un’altra natura: esso esprime propriamente, l’abbiamo già detto, un cambiamento qualitativo o un’alterazione: è, in altre parole, quello che Deleuze chiama il Tutto che non è né donato né donabile ma è, appunto, l’Aperto, la durata nella croyance. Ricordiamo ancora una volta che Deleuze distingue tre gradi, tre livelli di movimento nell’immagine cinematografica. L’occhio della macchina da presa ha potuto inaugurare così dei movimenti a tutti gli effetti “altri”, arrivando a generare addirittura dei veri e propri effetti di mondanizzazione in sostituzione a tutti quei momenti che il soggetto in primis, perduto o impedito, non poteva più compiere nel momento in cui il mondo stesso praeva essersi messo in fuga con lui e da qui sono derivati una sensibile estensione dello spazio e un importante “stiramento di tempo”.