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Il popolo che manca è un divenire, esso si inventa: di una forza genetica, di una forza etica.

La croyance, l’azione

I. Il popolo che manca è un divenire, esso si inventa: di una forza genetica, di una forza etica.

Nel cinema moderno i più grandi cineasti politici dell’occidente sono stati forse Resnais e gli Straub, ha scritto Deleuze, “ma stranamente non per la presenza del popolo, al contrario perché sanno mostrare come il popolo sia ciò che manca, ciò che non c’è383”. É questa la prima grande differenza tra cinema classico e moderno; perché nel cinema classico il popolo c’è, anche oppresso, ingannato, assoggettato, anche cieco o inconsapevole: il popolo è già presente, reale prima d’essere attuale. Da qui l’idea che il cinema come arte delle masse possa essere per eccellenza l’arte rivoluzionaria. Tuttavia, prosegue Deleuze, molti fattori avrebbero compromesso successivamente questa credenza: l’avvento di Hitler che offriva al cinema come tema non più le masse divenute soggetto ma le masse assoggettate; lo stalinismo che sostituiva all’unanimismo dei popoli l’unità tirannica di un partito; la disgregazione del popolo americano, che non poteva più credersi il crogiuolo di popoli passati, né il germe di un popolo futuro. Insomma, dice Deleuze: “se esistesse un cinema politico moderno, si fonderebbe su questa base: il popolo non esiste più, o non ancora… il popolo manca384.” Ora, proprio questa constatazione di un popolo che manca rappresenta tutt’altro che una rinuncia al cinema politico, al contrario è la nuova base su cui esso si fonda, allora, specie nel terzo mondo e nelle minoranze. L’arte, e soprattutto l’arte cinematografica, deve partecipare a questo compito: non rivolgersi allora a un popolo presupposto che c’è già, ma contribuire all’invenzione di un popolo. Nel momento in cui il padrone, il colonizzatore proclamano “qui non c’è mai stato un popolo”, il popolo che manca è un divenire, esso si inventa, nelle

383 G. Deleuze, L’immagine-tempo, p. 239 384

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bidonville e nei campi, oppure nei ghetti, “in nuove condizioni di lotta alle quali un’arte necessariamente politica deve contribuire.” (M. Gomes)

“Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell’umanità” scriveva già Aby Warburg nel suo splendido saggio, altra sublime ‘cronaca di una visione o sogno’, sugli indiani pueblo del nordamerica. Quella tensione che è dell’uomo ed è nell’uomo da sempre, ci fa capovolgere la testa all’indietro ed è l’“excelsior” dell’uomo deambulante, dell’uomo delle balades cui abbiamo fatto riferimento all’inizio: nobiltà del capo levato, rivolto verso l’alto. Così in quel “Ta-pa-na-ma” (ritorno alla fine del tempo) parola “indiana” più volte scandita da Jakob Simon c’è abbastanza spazio per accogliere ancora una volta tutto il respiro del tempo. Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht ( "L'altra patria – Cronaca di una visione", 2013) ultima fatica del cineasta tedesco Edgar Reitz - passato qualche anno fa alla Mostra del cinema di Venezia fuori concorso- ha saputo fissare nella magnifica fotografia di Gernot Roll- certi vibranti e limpidi scenari come solo sanno imprimersi nella nostra memoria giusto i miracoli, tra echi di Ford (“How Green Was My Valley”, 1941) Borzage, Kazan. In questo “capitolo” si fa ritorno a Schabbach, piccolo villaggio immaginario dell’Hunsrück, un paio di generazioni prima (siamo precisamente a metà Ottocento) da quel Paul Simon che dopo la prima guerra mondiale per un periodo vi si ristabiliva prima di ripartire un’altra volta (Heimat, 1984). A partire da quel primo Heimat non avevano tardato a far seguito altri due capitoli: Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza (1992) e Heimat 3 - Cronaca di una svolta epocale (2004). Collante del poderoso excursus condotto in trenta capitoli, attraverso i quali il maestro tedesco riesce a scolpire i fatti più salienti della Storia tedesca del ventesimo secolo, è non a caso lo stato di erranza, il camminare senza cammino prestabilito che è poi la condizione prima di ogni slancio, e ogni slancio di croyance. Tutto il cinema di Edgar Reitz, il quale non ha non ha mai voluto tenere nascosta la fondamentale ascendenza proustiana del suo immenso lavoro di narratore-demiurgo, ancora ad oggi, non sembra aver mai smesso di cantare una cosa e una cosa sola: l’epopea della bellezza del corpo pulviscolare del cinema cui sembra far eco direttamente la nostra stessa sostanza di uomini itineranti, zigani del cosmo solo nutriti di una fede in questo mondo; risonanza altamente sentimentale: il nostro essere fatti di tempo. E se è vero che la sola nostra heimat è probabilmente nella perdizione, nel nostro addensarci come totalità granulose, frattali, disperse, su questo stesso mondo che ci tiene pure così radicati a sé, ecco, se proprio dobbiamo “starci”, su questo mondo- sembra volerci dire Reitz- ci stiamo come costellazioni. Regista delle estremità, Reitz ha saputo rappresentare finanche le più sottili e impercettibili estremità di un’epoca anche nei limiti di una stessa inquadratura; così le insanabili fratture di un tempo disgiunto, quasi sospendendole nell’atmosfera di un tempo che non potrebbe essere più

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cinematografico e più bergsoniano, forse. Non smettono di turbinare infatti, e turbinare assieme, durante l’intero arco tracciato da questi duecentotrenta minuti di pura “voyance” cinematografica, uno stato vivente del cinema e uno stato cinematico che è della vita stessa. A suggellare l’ esperienza liberatoria di un’illimitata possibilità di correlazione (ancora, il nostro unico legame) tra l’uomo e il mondo, Reitz è pronto a convocare tutte quelle figure ricorsive del racconto romanzesco che lo stesso cineasta ha dichiarato di prediligere. Sarà anche per questo che ogni movimento di macchina finisce davvero per essere una lezione di cinema. Ogni inquadratura, una monade attraverso la quale “nessuna distanza t’impedisce/ di venire volando affascinato” (Goethe); come luogo dell’a-venire, della diserzione di chronos in molteplici sfavillii, spesso il vetro di uno specchio può accogliere, ri-potenziato, quell’altro vetro/iride lucido dell’obbiettivo del metteur en scène capace di governare un poderoso ensemble giostrando complessi andirivieni di diverse messe a fuoco su uno stesso soggetto-oggetto. Come nessun altro, Reitz ha saputo filmare quello che potremmo definire l’approssimarsi stesso dell’uno verso l’altro, dell’uomo verso l’uomo come fondamentale inclinazione dell’esistenza verso il suo fuori: il suo comparire insomma nella “singolare pluralità del mondo”, istante prezioso capace di incamerare tutto il tempo invitandolo a fermarsi presso di noi. È questo il momento in cui storia verticale e storia longitudinale finiscono per intrecciarsi l’una nell’altra. Ecco Reitz ha saputo renderci cinematograficamente la palpabilità di questa curvatura tra la macrostoria del mondo e la microstoria dei suoi personaggi. Perché condurre una riflessione radicale sulla nostra origine comporta questo: un’eternità di sfavillii in uno spazio di tempo a tal punto dispiegato che sembra non cessare un solo istante di andare e venire. Ricordiamoci ad esempio il vibrante ritratto della Fuchsbau di Monaco in Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza. Come in quel caso, anche in quest’ultimo lavoro, i corpi sono scelti come intima possibilità d’iscrizione del tempo in un noi come incessante sciabordio tra un attuale e un virtuale. Eduardo Bruno ha scritto che Reitz riesce a trasferire la sua posizione dialettica “in una prospettiva critica che riflette sui movimenti ideologici e politici (…) e lo fa rifrangendo in tutti i vari personaggi il senso espressivo di un dire che diviene linguaggio385”. L’ottica dialettica ha sempre coinciso del resto con un’ottica della trasparenza, laddove ciò che si rende possibile è a tutti gli effetti un’illuminazione che consente all’Io di non restare segregato nel suo spazio immaginale ma di tendere a realizzarlo. Nell’uno e nell’altro caso sarebbe in gioco ancora una volta un’ex- posizione, nel senso di Nancy, è cioè letteralmente un far venire in presenza quelle “scegge di senso che noi siamo386”. Ci si vuol riferire qui ancora una volta a quella finitezza affermativa di ciò che è senza fine in senso assolutamente non privativo, secondo quell’idea di costituzione singolare-

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plurale dell’esistenza che proprio con lo spazio-tempo del suo ek-sistere si manifesterebbe attraverso, all’interno di e come singolarità plurale387

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Un altro cineasta contemporaneo che, come nota lucidamente Bruno Roberti, sembra capace di racchiudere “in una cifra segreta insieme classica e obliqua, infuocata e alla deriva, terrigena e liquida, arcaicamente fossile e proiettata intutti i futuri possibili, non soltanto un pensiero di cinema ma forse un intero fiume sotterraneo di immagini e immaginari, di corpi sottili e di simulacri, di idee-forza filosofiche e labirinti congetturali (nel senso borgesiano), di figure reviviscenti (nel senso warburghiano)388 è sicuramente il filippino Lav Diaz. L’opera del cineasta si concentra infatti sul tema dell’identità nazionale del suo popolo tradotto spesso in lamento per un paese martoriato da occupazioni e dittature, come da calamità naturali. Autore di film dalle durate oceaniche –che possono arrivare a toccare anche le dieci ore- Diaz, rappresenta senz’altro uno dei nomi di spicco del nuovo cinema filippino. I suoi film si addensano attorno a un nucleo tematico forte che potrebbe essere riconosciuto proprio nell’identità nazionale del suo popolo; ma la sua opera “è anche un discorso di estrema complessità sull’arte e sul suo ruolo nella società e nella Storia, giocata sull’intertestualità, sempre in bilico tra rappresentazione e registrazione del reale, e sull’essenza delle immagini.”389

Si è parlato e non a torto, a proposito del cinema di Lav Diaz, di un certo “respiro”. Nelle opere del cineasta il tempo non scorrerebbe mai liscio e si direbbe piuttosto una fessura si aprirebbe al suo interno; da lì il cinema coglierebbe la sua propia chance di esercitare la sua “azione maieutica”, come ha potuto evidenziare già Marco Grosoli: è lí infatti, che “con un lavoro registico paziente, certosino e capace di cancellare le proprie tracce, c'è la possibilità di rinvenire la compatibilità miracolosa tra il darsi amorfo, insalvabile del tempo, e la cristallizzazione che lo salva”. Ora, questa dimensione spaziale che è in definitiva il “respiro” del cinema diaziano consisterebbe innanzitutto nell’affiancare blocchi di durata tendenzialmente autonomi che spesso si richiamano l'un l'altro attraverso connessioni evenemenziali disposte a una distanza reciproca anche molto grande all'interno delle ore di proiezione richieste dal film. Di norma si tratta di lunghi piani- sequenza; in ognuno di questi blocchi, occorre innanzitutto trovare l'angolazione giusta affinché l'inquadratura, spesso larga (oltre che lunga), fissa, tutt'al più “aggiustabile” tramite qualche leggero movimento laterale, raggiunga una sorta di soglia minima di compostezza e stabilità figurativa,

386 J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, p. 20 387 Ibid.

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B. Roberti “L’incantamento magico di Bressane”, Alfabeta 2https://www.alfabeta2.it/2014/09/15/lincantamento- magico-julio-bressane/

389 G. Raganelli, “Lav Diaz. Il cinema e la casa dell’essere”, in Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli

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scrive ancora Grosoli. All'interno di essa, gesti, spostamenti, parole, ambienti, trovano nel tempo non una camicia di forza, ma un'occasione di reciproca coordinazione – anzi: coreografia – e di scansione ritmica. Il tempo insomma è assai meno il veicolo della storia che una diversa dimensione di quest'ultima: la dimensione dello spessore, la stessa incontrata già nell’opera dell’ungherese Tarr, la trasfigura trasfigurando la nostra percezione di essa, immergendoci in una congerie organica di dettagli che merita ancora il vecchio nome di “romanzesca”.

In questo senso "From What is Before" (Mula sa kung ano ang noo, 2014) Pardo d’Oro a Locarno ha le carte in regola per confermare la leggenda di un cinema perennemente sulle barricate e dalla parte dei più deboli, raccontando la vita degli abitanti di un remoto villaggio, colti in un momento cruciale per il destino della nazione. Siamo infatti nelle Filippine del 1972, alla vigilia della proclamazione della legge marziale, promulgata dal presidente Marcos, che restringe la libertà di un paese tenuto in ostaggio da una feroce dittatura. È un tempo interamente pervaso di mestizia e dolore, quindi, nel quale “accadono” una serie di eventi misteriosi oltre che drammatici, i quali si riversano su un mondo già fortemente provato. “Se l'argomento in sé, con la persecuzione di un apparato statale kafkiano e repressivo, non poteva mancare di fare breccia sulle coscienze più intransigenti, bisogna dire che lo sguardo del regista riesce a fare convivere i motivi personali con la descrizione di una condizione esistenziale che diventa universale, e per questo coinvolgente. Per arrivarci Diaz lascia fuori campo per tre quarti di film riferimenti storici e geografici (limitati alla sola didascalia indicante anno e località in cui si svolge la vicenda), e satura il quadro con rumori e suoni provenienti da una natura incontaminata e matrigna, che si sostituisce alle psicologie dei personaggi, rappresentandole mediante una drammaturgia scandita dall'elemento meteorologico e climatico.”390

È in questo che, a mio avviso, risiede tutta la forza di un certo cinema politico moderno che trova ancora la forza di fare appello a una croyance come a una possibilità di vita rinnovata in questo e non in un altro mondo. Perché indubbiamente il popolo cui si trova davanti Diaz è un popolo doppiamente colonizzato dal punto di vista della cultura, così come colonizzato da storie provenienti da altri paesi, ma anche dai propri stessi miti divenuti entità impersonali al servizio del colonizzatore: non è un caso, infatti, che in un micrometraggio di una novantina di secondi commissionato nel 2013 dalla Mostra del Cinema veneziana in occasione del suo settantesimo anniversario, Ang Alitaptap (La lucciola), si possono udire in voce over questi versi (composti dallo stesso Diaz): “arriverà il giorno in cui prenderemo il largo dai misteri della mitologia. Allora canteró delle canzoni che ti renderanno libero”. Ecco allora dove sta il valore dell’atto di

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fabulazione innescato dal cinema, nella parola in atto, letteralmente, nella canzone che renderà di nuovo liberi. Così molti degli intercessori di cui si serve il cineasta filippino che fanno un passo verso di lui mentre lui lo compie verso di loro in un doppio divenire. Così gli improvvisi cambi di temperatura, la persistenza delle piogge monsoniche, i flutti del mare in tempesta e le inestricabili ramificazioni della foresta pluviale, diventano veri e propri enunciati collettivi. Per riprendere una bella espressione di Daney (che all’epoca si riferiva al cinema africano), quello di Lav Diaz sembra pienamente incarnare “un cinema dell’atto di parola”. Scrive Deleuze: “L’atto di parola deve essere creato come una lingua straniera in una lingua dominante, proprio per espirmere un’impossibilità di vivere sotto la dominazione. Il personaggio reale esce dalla propria condizione privata, mentre l’autore esce dalla propria condizione astratta (…)”.

Il caso del cinema di Lav Diaz testimonierebbe dunque, anche per queste ragioni, in maniera esemplare del nuovo complesso rapporto tra immagine e realtà, dove il reale non si disperde nell’immagine elettronica ma si conserva nelle sue potenzialità formali. Sembra certo, che la nuova tecnologia delle immagini “è insieme una tecnica e un’estetica che determina uno sguardo nuovo, in grado di inventare un nuovo occhio elettronico, ma che non implica una separazione ontologica tra immagini analogiche e digitali”391

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Aspettare un evento, un disastro che sembra sempre all’orizzonte ma che non pare arrivare mai, un senso di ecatombe immane, paura totale ma allo stesso tempo speranza di un cambiamento, quest’attesa carica di energia statica dove le persone si muovono in balia degli eventi che le trascendono è appunto la cifra principale di quest’ultima fatica di Lav Diaz.