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Messianesimo del cinema?

Una delle più belle considerazioni sul potere del cinema, potere capace di esercitarsi proprio in virtù di una croyance sembra venirci da Giorgio Agamben a proposito del cinema di Guy Debord e di un certo legame instaurato da questo con la storia. Ma, ancora una volta, bisogna chiedersi di quale storia si tratta? Dato che in questione qui è la funzione specifica dell’immagine. L’uomo, scrive il filosofo italiano, è il solo essere “che si interessa delle immagini in quanto tali”. Gli animali, ad esempio, si interessano molto alle immagini ma solo nella misura in cui ne sono ingannati. Se tuttavia l’animale si rende contro che si tratta di un’immagine, infatti, ecco che egli se ne disinteresserà totalmente. L’uomo, è dunque al contrario, “un animale che si interessa alle immagini una volta che le ha riconosciute in quanto tali” : è per questo che s’interessa alla pittura e va al cinema, perché comincia a interessarsi veramente alle immagini solo una volta che ha riconosciuto che non sono reali. Come ha mostrato Gilles Deleuze, prosegue Agamben, “l’immagine cinematografica non è più qualcosa di immobile, non è più un archetipo, cioè qualcosa che sta fuori o prima della storia: è essa stessa una sezione mobile, un’immagine-movimento, come tale carica di una tensione dinamica. É questa carica dinamica che si vede nelle foto di Marey e di Muybridge, le quali sono all’origine del cinema, in esse ogni fotogramma sembra carico di un potenziale di movimento. Ed è una carica di questo genere che Benjamin scorgeva in quella che chiamava “immagine dialettica”, che era per lui l’elemento stesso dell’esperienza storica81.” Proprio per questo, allora, l’esperienza storica si fa attraverso l’immagine, e le immagini sono esse stesse cariche di storia. Ma, ancora, di quale storia si tratta? Occorre precisare che non si tratta di una

79

G. Bataille, Sulla religione, p. 11

80 Ivi, p. 12

81 G. Agamben, “Il cinema di Guy Debord” in Guy debord (contro) il cinema, (a cura di) E. Ghezzi e R. Turigliatto, Il

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storia cronologica, ma di una storia messianica. La storia messianica si definisce innanzitutto attraverso due caratteristiche:

É una storia della salvezza, c’è qualcosa da salvare. Ed è una storia ultima, una storia escatologica, dove qualcosa deve essere compiuto e giudicato. Per questo essa deve accadere

qui e, insieme, in un altro tempo; deve sottrarsi insomma alla cronologia senza trasferirsi in

un altrove. È la ragione per la quale la storia messianica è essenzialmente incalcolabile. (…) Ma nello stesso tempo ogni istante della storia è quello del suo avvento, il Messia, per così dire, è sempre già arrivato, è sempre già presente (o, come diceva Kafka, arriverà solo il giorno dopo il suo arrivo). Ogni momento, ogni, ora, ogni immagine è carica di storia, perché essa è la piccola porta attraverso la quale il Messia- la salvezza- può entrare”82.

Quando allora Serge Daney, a proposito delle Histoire(s) du cinéma di Godard, si soffermava sulla questione essenziale del montaggio affermando che se il cinema cercava un qualcosa, ebbene, questa cosa era proprio il montaggio, “è di questo che l’uomo del XX secolo aveva terribilmente bisogno”, a cosa voleva alludere? Non voleva forse anch’egli riferirsi proprio a certe condizioni di possibilità proprie del montaggio? In filosofia, da Kant in poi, le condizioni di possibilità di qualcosa si chiamano “trascendentali”. Quali sono allora i trascendentali del montaggio? Due e due soltanto: la ripetizione e l’arresto, scrive Agamben. “Non c’è più bisogno di girare, non si farà altro che ripetere e arrestare. Si tratta di un evento epocale nella storia del cinema. La tecnica compositiva non è cambiata, è sempre il montaggio, ma ora il montaggio passa in primo piano, viene esibito in quanto tale. È per questo che si può considerare che il cinema entri oggi in una zona d’indifferenza dove tutti i generi tendono a coincidere, il documentario e la narrazione, il telegiornale e la storia romanzata, la realtà e la finzione, il già fatto e il da fare. Si fa del cinema pa partire dalle immagini del cinema”83. Ma soffermiamoci proprio sulle condizioni di possibilità del cinema cui abbiamo fatto riferimento, la ripetizione e l’arresto. Cos’è una ripetizione? Ci sono nella Modernità quattro grandi pensatori della ripetizione: Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger e Gilles Deleuze, prosegue nella sua trattazione ancora Agamben, tutti e quattro ci hanno mostrato che la ripetizione non è il ritorno dell’identico, lo stesso che fa ritorno come tale. Ma la forza e la grazia della ripetizione, la novità che essa ci dona, è il ridiventar possibile di ciò che è stato. La ripetizione dunque non fa che restituire la possibilità di ciò che è stato, rendendolo nuovamente possibile. Ripetere una cosa non significa altro: renderla di nuovo possibile. Di qui la prossimità tra ripetizione e memoria. Che se la

82 Ibid. 83

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memoria non può restituirvi il passato semplicemente come è stato, come un fatto inerte (questo sarebbe propriamente infernale) essa restituisce tuttavia al passato la sua possibilità. È questo il senso dell’esperienza teologica che Benjamin vedeva nella memoria, quando diceva che il ricordo fa dell’incompiuto un compiuto, e del compiuto un incompiuto. La memoria è per così dire l’organo di moralizzazione del reale, che può trasformare il reale in possibile e il possibile in reale. Basta riflettere un secondo, per rendersi conto che questa è anche la definizione del cinema84.

Si può definire il deja-vu come il fatto di percepire qualcosa di presente come se fosse già avvenuto. Il cinema ha luogo in questa zona di indifferenza. Si capisce perché allora lavorare con le immagini può avere una tale importanza storica e messianica: perché è un modo di proiettare la potenza e la possibilità verso ciò che è per definizione impossibile, verso il passato. Il cinema fa, cioè, il contrario di quello che fanno i media. I media ci danno sempre il fatto, ciò che è stato (o pretende di esserlo), ma senza la sua possibilità, senza la sua potenza; ci danno quindi un fatto in rapporto al quale siamo assolutamente impotenti. I media amano il cittadino indignato, ma impotente. Proprio questo è lo scopo del telegiornale: la cattiva, impotente memoria, quella che produce l’uomo del risentimento. 85

E se ciò che varrebbe di diritto nella ripetizione, come spiega Deleuze, è ‘n’ volte come potenza di una sola volta86, è proprio a tale evoluzione del gesto come causa agente che occorre fissare lo sguardo: pratica rivoluzionaria espressa in modo peculiare da certo cinema contemporaneo attraverso un particolare uso del montaggio che chiede di essere trattenuta e registrata come possibilità indefinitamente rilanciata in un incessante mutare “di segno.” Sarebbero infatti queste relazioni più o meno celate, tra un’attualità del dato fenomenico e la sua virtualità di una messa in scena da compiersi, a tenere in vita l’organismo del film (vivo di una sua vita propria) influenzandone costantemente lo sviluppo. Ed è proprio a questa natura escatologica dell’immagine che la nostra croyance sembra fare appello, mostrando di saper rilevare, insieme a quello che dell’immagine è un inconfondibile indice storico, come una data incancellabile, quello che è anche lo straordinario potere del gesto (cinematografico) capace di rimandare a un altro tempo, più attuale e forse anche più urgente di qualsiasi tempo cronologico87. Sono allora proprio quelle condizioni trascendentali che il cinema sarebbe in grado di attivare attraverso il montaggio, nelle sue due

84

Ivi, p. 105

85 Ibid.

86G. Deleuze, Différence et répétition, cit. p. 8- 10 87

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dinamiche fondamentali di arresto e ripetizione88, a dover essere esibite ora in quanto tali per poter accedere a quello che è a tutti gli effetti un altro ordine temporale. Solo in questo modo, infatti, si renderebbe possibile sottrarre alla ripetizione quel qualcosa di veramente nuovo, quella differenza che stando a Deleuze, costituirebbe la funzione stessa dell’immaginazione nei suoi stati multipli e frazionati, essendo la ripetizione stessa nella sua essenza, immaginaria, e facendo esistere pertanto ciò che contrae solo “come elementi o casi di ripetizione”89. E se c’è una considerazione, ancora da Differenza e ripetizione, che a mio avviso merita pienamente di essere ricordata e annotata a questo punto del nostro discorso a proposito delle straordinarie possibilità di innescare una “memoria trascendentale” a ragione delle importanti risonanze che un simile movimento di pensiero sembra liberare proprio nella direzione di un’esperienza di memorabilità che non può che “suonare” intimamente cinematografica (anche se proprio il cinema sembrerebbe qui, ad uno sguardo di superficie, non poter essere più lontano dal discorso di Deleuze), è la seguente:

Ma la memoria trascendentale coglie ciò che già la prima volta, sin dalla prima volta, può essere solo ricordato: non un passato contingente, ma l’essere del passato come tale del passato di ogni tempo. Obliata, la cosa appare così nella sua verità alla memoria senza rivolgersi all’oblio della memoria. Il memorandum è anche l’immemorabile, l’immemoriale. L’oblio non è più un’impotenza contingente che ci separa da un ricordo essenziale come l’ennesima potenza della memoria rispetto al suo limite o a quanto può essere solo ricordato. È così anche per la sensibilità : all’insensibile contingente, troppo piccolo e troppo lontano per i nostri sensi nell’esercizio empirico, si contrappone un insensibile essenziale, che si confonde con ciò che può essere solo sentito dal punto di vista dell’esercizio trascendente. Ecco dunque che la sensibilità, costretta dall’incontro a sentire il sentiendum, costringe a sua volta la memoria a ricordarsi del memorandum, di ciò che può essere solo ricordato. E infine come terzo carattere, la memoria trascendentale costringe a sua volta il pensiero ad affermare ciò che può essere soltanto pensato, il cogitandum, l’Essenza (….) Dal sentiendum al cogitandum si è dispiegata la violenza che costringe a pensare. Ogni facoltà è uscita dai suoi cardini90.

Non è un caso, inoltre, che proprio qualche riga dopo Deleuze faccia ancora riferimento a un “divenire qualitativo” a costituire il segno o il punto di partenza di ciò che costringe a pensare. Quest’altra cosa è tutta inviluppata nel segno; solo in questo tipo di reminiscenza che molto ha a

88 G. Agamben , “Il cinema di Guy Debord”, in Guy Debord (contro) il cinema, p. 104 89 G. Deleuze, Différence et répétition, cit. p.102

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che fare con il meccanismo del cinema, sarebbe introdotto il pensiero come tale, il pensiero come opacità scosso dal di fuori.

Dunque, riassumendo ancora una volta: la crisi che affetta il cinema è sicuramente inerente il cinema stesso e si tratta pertanto di una vera e propria "crisi del cinema" ma è anche qualcosa che sembra chiamare in causa proprio questo qualche cosa d’altro che decisamente esula dalla forma della rappresentazione. Com’è possibile infatti che qualcosa derivi dalla storia? - scrive ancora Deleuze con Guattari nel loro testo del Che cos’è la filosofia?: “Senza la storia il divenire rimarrebbe indeterminato, incondizionato, ma il divenire non è storico91”. L’evento stesso, infatti, ha bisogno del divenire quale elemento non-storico; e l’elemento non-storico, come sostenuto da Nietzsche, assomiglia piuttosto “a un’atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi, per sparire di nuovo con la distruzione di quest’atmosfera92”, “è come un momento di grazia”, e ancora, “dove si trovano le azioni che l’uomo sarebbe capace di fare, senza essere prima entrato in quello strato vaporoso di ciò che non è storico?”93

L’evento è ciò che mette in crisi ogni idea di storia. Ciò che accade, e in quanto accade e rompe con il passato, non appartiene affatto allo storia e non vi sarà mai esplicato. La storia sarà solamente la reappresentazione omogeneizzante di una successione di eventi irriducibili che si sottomettono ancora a un giudizio trascendente. A nostro parere invece una certa comprensione della storia sembra non poter derivare da altro che dal riconoscimento del suo andamento irregolare e discontinuo, dalla capacità sempre rilanciata di suscitare dei punti di faglia o di frattura, di aprire insomma dei crepacci lungo una superficie, quella delle immagini della Storia, che si vorrebbe liscia ma che in realtà non fa che tremare, terremotare in se stessa, in quella sua fondamentale messa in presenza “di una tensione tra movimenti e tempi diversi, dove viene ad operarsi un’attualizzazione storica, come resa sincrona, o meglio anacronica, di passato e presente94.” Nelle parole dello stesso Benjamin: “non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione95”.

È

da qui che, riportando la questione a un piano prettamente cinematografico, si può far risalire la profonda spaccatura che separa il pensiero di Ėjzenštejn da quello di Artaud : c’è infatti qualcosa di completamente diverso in quest’ultimo, come una constatazione di impotenza, appunto, che non verte ancora sul cinema ma che definisce al contrario il vero e proprio oggetto-soggetto del

91 G. Deleuze, Che cos’è la filosofia?, cit. p. 89 92 Ibid

93

Ibid

9494 R. De Gaetano, “Il potere redentivo del cinema”, in Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard, Pellegrini, Cosenza, p. 172

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cinema. Il cinema non anticipa la potenza del pensiero, ma il suo « non-potere », e il pensiero non ha mai conosciuto altro problema, scrive Deleuze. Molto più importante del sogno è allora questa difficoltà a essere, questa impotenza nel cuore del pensiero. Per questo Artaud fa l’oscura gloria e profondità del cinema. Non si tratta infatti di una semplice inibizione centrale, di questo crollo e pietrificazione interiori, di questo « furto dei pensieri » di cui il pensiero sarebbe continuamente vittima e agente. Artaud smetterà di credere nel cinema quando penserà che il cinema sfiori a lato le cose e possa creare soltanto l’astratto, il figurativo o il sogno. Ma crede nel cinema finchè ritiene sia essenzialmente adatto a rivelare questa impotenza a pensare nel cuore del pensiero96. Si tratta proprio di « congiungere il cinema con la realtà intima del cervello », ma questa realtà intima non è il Tutto, al contrario è una fessura, un’incrinatura. Finché crede nel cinema, Artaud gli attribuisce non il potere di far pensare il tutto, ma al contrario una « forza dissociatrice » che introdurrebbe una « figura del nulla », un « buco delle apparenze ». E ancora, finchè crede nel cinema, egli vi attribuisce non il potere di ritornare alle immagini e di concatenarle secondo le esigenze di un monologo interiore e il ritmo delle metafore, ma di « sconcatenarle » secondo voci multiple, dialoghi interni, una voce sempre dentro un’altra voce97

. Si direbbe che Artaud abbia interamente capovolto l’agomentazione di Ejzenštejn : se è vero infatto che il pensiero dipende sempre da uno choc che lo fa nascere (il nervo, il midollo), non può più pensare che una sola cosa, il fatto che noi ancora non pensiamo, l’impotenza a pensare il tutto come a pensare se stesso, pensiero sempre pietrificato, dislocato, crollato. Un essere del pensiero sempre a venire è allora quanto, in forma universale, scoprirà Heidegger, ma anche quanto Artaud vive come il probelma più individuale, più proprio. Da Heidegger a Artaud ; nessuno come Maurice Blanchot sa restituire ad Artaud la questione fondamentale di ciò che fa pensare, di ciò che forza a pensare : ciò che forza a pensare è « il non-potere del pensiero », la figura del nulla, l’inesistenza di un tutto possibile da pensare98. Si rammentino ancora una volta le profonde considerazioni di Heidegger (riportate anche in Differenza e ripetizione) quando egli dimostra che finché il pensiero si ferma al presupposto della sua buona natura e della sua buona volontà, nella forma di un senso comune, di una ratio, di una cogitatio natura universalis, esso non pensa affatto ma resta prigioniero dell’opinione, irrigidito in null’altro che in una possibilità astratta… « L’uomo è in grado di pensare nella misura in cui ne ha la possibilità. Solo che questa possibilità non ci garantisce ancora che noi ne siamo capaci »99 . Si comprenderà meglio allora come il nostro problema non possa che rimandare a una fondamentale

96 G. Deleuze, L’immagine-tempo, p. 186 97 Ivi, p. 187 98 Ivi, p. 188 99

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questione di immaginazione, un φανταστέον che sia già un limite, l’impossibile da immaginare che impone la nascita di facoltà nuove : una sorta di empirismo trascendentale sembra essere allora l’unico mezzo utile per non ricalcare il trascendentale sulle figure dell’empirico. Si tratta di liberare stati liberi e selvaggi che sono, appunto, della differenza in sé. Non si tratta dell’opposizione qualitativa nel sensibile, ma di un elemento che è in sé differenza e crea la qualità del sensibile nonché l’esercizio trascendente nella sensibilità : questo elemento è l’intensità come pura differenza in sé. E proprio quando la sensibilità trasmette la sua costrizione all’immaginazione, quando l’immaginazione scrive Deleuze « si leva a sua volta all’esercizio trascendente, è il fantasma, la disparità nel fantasma a costituire il φανταστέον, ciò che pusò essere soltanto immaginato, l’inimmaginabile empirico100

» .

La memoria cinematografica è dunque tutt’altro che assimilabile alla reminiscenza, è ciò che impone invece il dissimile nella forma pura del tempo. Un Io incrinato da questa forma del tempo è quello che dice « io credo » ; qualcosa che non si ferma alla forma del senso comune, che non resta proigioniero dell’opinione o irrigidito in una possibilità astratta. Non gli dei sono incontrati (essi non sono che forme del riconoscimento) ma i demoni, le potenze del salto e dell’intervallo, dell’intensivo e dell’istante ; essi solo sono capaci di colmare la differenza nel differente. È allora proprio nel mezzo di questa frattura che crediamo un certo cinema possa installarsi ed opporsi al vuoto come una saldatura viva. “Noi abbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo così com’è”, ci dice Deleuze, e dunque alle possibilità d’azione e di vita che questo stesso mondo veicola (“Croire en ce monde-ci, c’est croire à la possibilité de la vie dans ce monde. C’est croire à la vie ici101”). Non ci stancheremo mai di ripetere che Deleuze pensa l’arte esclusivamente come composizione di rapporti di forza materiali, e questa stessa composizione come ecceità o vitesse102. Come per la filosofia di Nietzsche, essa concerne innanzitutto le forze. Ogni rapporto di forze alimenta una semiotica e quest’ultima una carta segnaletica di potenze. Sintomo è, non a caso, uno dei termini più frequentemente usati da Deleuze nel momento in cui scriveva dell’autore di Zarathustra. Ora questo sintomo di rapporti di forze non rinvia in alcun modo a un significante, ma solo a uno stato di potenza o più esattamente, a un rapporto di forze (semiologia) che corrisponde a un certo affetto (ontologia e etica). Proprio come il segno, l’immagine cinematogarfica, lei pure, si

100 Ibid. 101

Cinema/pensiero

102 Scrive Sauvagnargues: “l’ensemble des éléments matériels qui appartiennent à un corps sous tels rapports de

mouvement et de repos de vitesses et de lenteurs, sont dits longitude; l’ensemble des affects intensifs dont ce corps est capable, sous tel pouvoir ou degré de puissance, latitude.” Deleuze et l’art. p. 60 E aggiunge: “Or, cette determination deulle de vitesse et d’affects définit l’image, qui reprend, avec ses compositions de vitesses et de lenteurs et ses variations intensives de puissance, la division en longitude et latitude de l’heccéité, c’est-à-dire la complémentarité entre typologie des signes et éthique”. P.. 61

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fonda su un rapporto di forze, ed è tanto composta da velocità quanto capace di affetti. Questo consente a Deleuze di sviluppare una semiotica come tipologia di immagini e di segni. Per questo il concetto di forza dovrà intendersi necessariamente al plurale poiché ogni forza si trova in un rapporto essenziale con un’altra forza, in maniera tale che non si dà forza senza rapporto di forze. Questo rapporto tra segno e immagine, forze e forme, traccia nell’opera di Deleuze una diagonale che connette Nietzsche a Foucault passando per Spinoza.