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Verso un’estetica dello choc

Croyance vs conoscenza

II. Verso un’estetica dello choc

Contemplavamo le rovine dalle quali sbucavamo coperti di polvere. Uscì dai nostri cuori un bisogno profondo e sincero di riconoscerci e individuarci222.

R. Rossellini

In Italia molti film realizzati nel 1945-46 sono punteggiati da veri e propri choc visivi che accompagnano il racconto del ritorno in patria dei reduci, immergendo lo spettatore nella spirale antitetica di vissuto e memoria. “Le rovine di Napoli e l’apocalisse di Cassino aprono La vita ricomincia di Mario Mattoli; le campagne piemontesi distrutte e una Torino sventrata costituiscono il prologo di Il bandito di Alberto Lattuada; mentre in una Frascati rasa al suolo è ambientata la storia di Un americano in vacanza di Luigi Zampa. Quasi nessun regista si sottrae alla straziante fotogenia delle macerie” riporta Stefania Parigi nel suo studio sul Neorealismo italiano: “Le macerie ingombrano i nostri schermi fino all’inizio degli anni cinquanta, passando gradualmente dall’effetto choc all’effetto cliché (…) Con maggiore radicalità rispetto agli altri ambiti artistici, il cinema partecipa, dunque, alla formazione di una nuova estetica della maceria, che si sostituisce alla vecchia mitologia ottocentesca della rovina.” Come è stato già sottolineato, questo passaggio dalla rovina alla maceria rappresenta un mutamento sostanziale nella percezione della storia, della natura, del tempo e dell’arte. Secondo Georg Simmel- che scrive nel 1907, prima dei due conflitti mondiali- proprio il fascino della rovina deriverebbe dal fatto che un’opera dell’uomo, della sua “spiritualità formativa”, venga percepita come “prodotto della natura223”. Il tempo e gli eventi naturali corrodono

221 Ivi, p. 22

222 R. Rossellini, Prefazione a B. Rondi, Il neorealismo italiano, Parma, Guanda, 1956, p. 10

223 “Il senso di quiete e di pace comunicato dalla rovina è dovuto al fatto che le due spinte contrastanti, verso l’alto e

verso il basso, intorno alle quali ruota, secondo Simmel, ogni forma di esistenza, compongono uno squilibrio in cui entrambe sono capaci di persistere. Nella rovina, dunque, l’arte e la natura convivono, così come il passato e il presente. La rovina è la “forma presente di una vita passata”. Al contrario, la maceria è celata dall’azione devastante della storia: è il vuoto del presente che ha annientato la forma del passato. Se l’Ottocento è il secolo della rovina esaltata dal Romanticismo, il Novecento è contraddistinto dalla maceria: effetto e causa di un processo incessante di distruzioni e ricostruzioni. Commentando il quadro di Klee, Angelus Novus, Walter Benjamin ci offre l’immagine più incisiva dell’azione catastrofica del progresso, che accumula incessantemente ai piedi dell’angelo massi di rovine per poi spingerli verso il cielo. Le rovine benjaminiane hanno perso, però, l’incanto e la pace evocati da Simmel; sono

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pertanto proprio quella materia che l’architetto ha plasmato, riportando dunque verso il basso ciò che l’uomo ha spinto in alto. Nella rovina la natura, in un certo senso, si riappropria della storia, facendo “dell’ opera d’arte il materiale di una sua formazione, proprio come l’arte si era servita in precedenza della natura come della sua materia”. Lungi dal costruire astrazioni, questo sguardo investe fin da ora fatti concreti, fermati “nella terrena verità del loro svolgersi” e produce dunque sogni materici, nitidi come “le nervature delle foglie224.” Sono parole di Cesare Zavattini:

Il senso di sorpresa e meraviglia- parole-chiave, destinate a tornare copiosamente nel dopoguerra- non è più affidato alle capacità affabulatorie del cinema e alle sue prodezze tecniche, ma scaturisce dal rapporto conoscitivo che si instaura tra il soggetto che guarda e l’oggetto guardato. Le palpebre del cieco si schiudono su un mondo “mai visto”, pre- grammaticale, scavalcando le retoriche consolidate della visione e della rappresentazione. I

sogni migliori enunciati dal titolo dell’articolo sono allora prima di tutto sogni di nuove

strumentazioni e di nuovi itinerari per la conoscenza dell’uomo immerso nel proprio tempo225

.

La parola rinnovamento finisce con l’essere sempre più spesso associata a quella di realismo, e con quest’ultimo concetto aprirsi a prospettive moderne, coinvolgendo la crisi dei modelli ottocenteschi. Punto di riferimento di questo cinema non potrà che essere pertanto il romanzo naturalistico ottocentesco e, in campo nazionale, il verismo di Verga (Alicata e De Santis). Modello di un’arte rivoluzionaria il cinema “nuovo” è quello che ora s’ ispira a un’umanità che soffre e che spera, come nel caso unico dell’umanesimo rosselliniano capace di ammetere la vita “di cui ogni aspetto addita qualcosa al di là di se stessa226”. Esemplare, in questo senso, la sequenza della tortura in Roma città aperta assunta poi da Serge Daney come emblema della fondazione di uno sguardo cinematografico “moderno” che si costituisce sulla rivelazione e la coscienza dell’orrore della storia227. Le forme create dalla distruzione della guerra assumono insomma un eccezionale rilievo

divenutee, appunto, macerie: esse rappresentano l’ “infranto” che l’angelo vorrebbe ricomporre, ridestando i morti. La visione dell’angelo- definito da Benjamin angelo della storia- non è molto diversa da quella offerta dai paesaggi bellici. La sua allegoria si presta perfettamente a suggerire una chiave di lettura del mondo distrutto del dopoguerra, anch’esso interpretabile come catastrofe della storia, apocalisse moderna. Adattando le argomentazioni di Simmel ai nuovi scenari delle città bombardate, si potrebbe dire che l’uomo ha invertito la direzione della “spiritualità formativa” (dal basso verso l’alto) posta dal filosofo alla base dell’esperienza estetica. Con la conquista del cielo ha riportato verso il basso ciò che egli stesso aveva innalzato. Le città bombardate sono uno spazio inabitabile di detriti, che la “tempesta” benjaminana del progresso fa turbinare nell’aria. Il loro fascino non risiede nell’imitazione, da parte dell’uomo, della forza plasmatrice della natura ma nello scontro violento ingaggiato sia con la natura sia con la storia, da cui si origina un mutamento di orizzonte dell’estetica che ingloba progressivamente nel suo perimetro il rifiuto, l’informe, il decostruito, il disarmonico”223. S. Parigi, Neorealismo, op. cit. P.

224

C. Zavattini, I sogni migliori, ora cfr. S. Parigi, p, 31

225 Ibid.

226 S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, p.291 227

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figurativo. “Il paesaggio umiliato- dichiara nel 1951 Ungaretti- era tra i più stupendi che l’arte dei secoli abbia mai reso magnifici”. “Diversi studiosi”, scrive ancora Parigi, “hanno sottolineato che la sua consistenza di spettacolo traumatico può essere interpretata come una rivisitazione del sublime teorizzato da Burke e da Kant nel Settecento. L’aspetto orrorifico è alla base di una vertigine dello sguardo che si misura con il mai visto, con l’inimmaginabile228

.

Ci sembra interessante ricordare proprio in questo frangente quanto da Jacques Lacan fosse rubricato proprio nel registro del Reale; in esso rientrerebbe a pieno titolo quell’ambito che William James aveva definito nei termini di “esperienza pura”: un’esperienza che non ha né soggetto né oggetto, e che non ha nemmeno bisogno di una coscienza di supporto. Un’ esperienza dunque che non conosce appropriazione ma che, proprio in forza della sua impersonalità, è originariamente “comune”, cioè di nessuno in particolare. William James sosteneva che una tale esperienza pre- istorica può farsi sensibile solo per via di un’ “intrusione” nel mondo dell’esperienza “umana”, cioè dell’esperienza costituita e strutturata secondo le categorie messe a disposizione del linguaggio. La modalità essenziale nella quale essa si annuncia è infatti quella del trauma. Il Reale, insomma, non lo si “incontra” che nelle situazioni limite, e come tali vengono indicate da Deleuze nel suo volume sul cinema le esperienze compiute da i suoi personaggi veggenti. Se proprio quest’ultimo, il veggente, si trova allora a subire il Reale ecco che l’unico modo per rielaborarlo è quello di assecondare il ritmo di una temporalità non certo cronologica, piuttosto seguendo la logica dell’ après-coup229. Situazioni ottico-sonore pure le definisce Deleuze. E cosa vuol dire in filosofia “puro”? Puro significa ab-solutus, as-soluto, sciolto, slegato. “Il reale è allora l’uno assoluto della relazione, è ciò che viene prima del rapporto e che funge al fondo di ogni rapporto come l’intangibile da quel rapporto230”. “Esperienza pura”, scrive William James, “ è il nome che ho dato all’immediato flusso della vita che fornisce il materiale della nostra successiva riflessione con le sue categorie concettuali. Soltanto bambini appena nati, o uomini quasi in coma per sonno profondo, droghe, malattie, traumi, si può dire che abbiano un’esperienza pura nel senso letterale di un questo che non è ancora un che cosa di definito, quantunque sia pronto ad essere qualsiasi tipo di cosa, ricco sia di unicità che di molteplicità, ma in modi che non apppaiono231”. Deleuze, scrive Rocco Ronchi, sottoscriverà in toto questa tesi jamesiana. Per lui il cominciamento del pensare è infatti

228 S. Parigi, Neorealismo, pp. 122-123 229

R. Ronchi, Deleuze, op. cit. p. 37

230 « Questa sovraessenzialità dell’uno, cioè del reale, è il senso del celeberrimo slogan lacaniano « non c’è rapporto

sessuale (…) Deleuze non lo commenta ma se lo avesse fatto, indubbiamente vi avrebbe colto una limpida enunciazione della tesi dell’univocità dell’essere, vale a dire dello spirito affermativo del 68. Non bisogna infatti lasciarsi ingannare dalla negazione contenuta nell’enunciato. « Non c’è rapporto sessuale » vuole infatti dire, e di fatto dice, che c’è solo del non-rapporto, che c’è sempre e solo dell’uno, dell’uno senza l’altro, dell’uno senza negazione, sebbene l’uno (il non- rapporto) si dica di modi individuanti infinitamente differenti » Ronchi, p. 38

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sempre la violenza di un trauma e la filosofia “è una forma di veggenza, della stessa natura di quella vagheggiata, psichedelica degli anni sessanta (la filosofia speculativa come sguardo lucido e sobrio sul medesimo fondamento frequentato anche dai corpi vetrificati e vuoti dei tossici: bisogna arrischiarsi in quel territorio e saper fare la differenza tra buoni e cattivi divenire!”)

Nel divenire “positivo” della croyance il tempo vi è introdotto essenzialmente come durata, durata del tempo nel pensiero come tale. Quello che le immagini-tempo mettono in luce rispetto alle immagini-movimento è proprio l’intervallo tra due immagini che rivelano un’essenziale assenza di legame. Scrive Zabunyan: “L’un des éléments de la transformation de l’ image de la pensée avec l’Image-temps réside dans l’abandon du motif du “choc” comme raison de l’enchaînement des faculties” tale era ancora nel cinema così definiteo “classico”. E precisa: “Non que cet abandon s’accompagne d’une remise en question du thème de la “rencontre”, mais celle-ci a changé de forme et s’inscrit désormais dans un réseau facultaire où c’est l’ absence de réaction qui prédomine. Il convient d’envisager la possibilité d’une rencontre “qui force à penser”, sans que cette rencontre soit rabattue sur une “esthétique du choc”. Le développements consacrés au motif insistant de la “voyance” avaient pour tȃche d’appréhender la manière dont cette rencontre pouvait simultanément repondre à l’exigence génétique qui caractérice l’empirisme (trascendental) deleuzien232”. Proprio la facoltà di vedere “dans son usage supérieur”, raggiunge la voyance nel momento in cui arriva a cogliere l’intollerabile nella “banalità quotidiana” in maniera tale da condurre la facoltà di pensiero a confrontarsi con il suo limite proprio “l’impensé ou l’impensable”, di cui testimonia proprio questo intollerabile.

É sullo sfondo di una fondamentale crisi dell’esperienza che la poesia moderna trova infatti la sua situazione propria, come anche evidenziato da Agamben: da Baudelaire in poi ecco che con disinvoltura lo choc entra nel lavoro artistico. Nell’opera del poeta l’uomo è qualcuno che si offre senza alcuno schermo alla ricezione degli choc: questi non è certamente più il soggetto moderno della conoscenza, piuttosto un infinito derivare e un casuale scontrarsi di oggetti e di sensazioni, uno stato crepuscolare (per dirla in termini proustiani) come nel dormiveglia o nella perdita di coscienza: “je ne savais pas au premier instant qui j’étais”. É dunque l’emergere di un singolare materialismo; questo star sospeso come fra due mondi, come un “diseredato”, è anche l’esperienza centrale della poesia di Rilke che come molte opere che passano per esoteriche, non ha per contenuto nulla di mistico ma appunto l’esperienza quotidiana di un cittadino del xx secolo.233

231 J. James, Saggi di empirismo radicale, p. 51 232 D. Zabunyan, Voir… p. 183

233

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Qualcosa di profondamente vicino all’esperienza interiore bataillana, se è vero come riportato dall’autore de L’azzurro del cielo: “L’esperienza stessa mi aveva ridotto a brandelli, che la mia impotenza a rispondere finiva per lacerare. (…) Posi la domanda ad alcuni amici, lasciando scorgere una parte del mio sgomento: uno di loro* enunciò semplicemente il principio che la stessa esperienza è autorità (ma che l’autorità si espia)234

. Da quel momento tale risposta mi appagò, lasciandomi appena (come la cicatrice lenta a rimarginarsi di una ferita) un residuo di angoscia. Ne misurai la portata (…). Mi accorsi allora che essa metteva fine a tutto il dibattito dell’esistenza religiosa, che possedeva inoltre la portata galileiana di un rovesciamento nell’esercizio del pensiero, che si sostituiva a un tempo alla tradizione delle Chiese e alla filosofia235. Incredibile che si faccia riferimento qui proprio a un rovesciamento di pensiero come profonda conversione “immanentista”. Sempre a questo proposito ci sembra interessante un altro articolo di Cesare Zavattini che appare nell’aprile del 1940 I sogni migliori, in cui sono inscritte in nuce quelle teorizzazioni che egli avrà modo di sviluppare ampiamente del dopoguerra. Vi si legge: “ I ciechi sono in grado di attendere avventure ben più profonde di quelle care ai soggetti internazionali; essi solo permetterebbero e aiuterebbero la rivoluzione vera e propria: il film dell’uomo che dorme, il film dell’uomo che litiga, senza montaggio e oserei aggiungere senza soggetto. Un episodio senza centro e casuale. Poter tornare all’uomo come all’essere “tutto spettacolo”. Certi metraggi ottenuti piazzando la macchina in una strada, in una camera, vedere con pazienza insaziabile, educarci, che grande conquista, alla contemplazione del nostro simile, nelle sue azioni elementari236.” Contro una certa uniformità e convenzionalità della grande macchina spettacolare Zavattini si trova a invocare piuttosto “lo sguardo di un cieco”, proponendo con tale paradosso, scrive Stefania Parigi, “un terremoto della visione”: l’occhio è chiamato a sovvertire i percorsi abituali a cui il cinema corrente l’ha abituato e “a sondare nuove possibilità visive, ai confini della veggenza. Esso viene considerato fin da subito come un occhio straniato, in senso sklovskijano, più che come un occhio riproduttore delle apparenze: un organo che non rispecchia la realtà, ma che tende piuttosto a illuminarla e a rivelarla, secondo quanto Zavattini stesso affermerà con insistenza più tardi237.”

Il cinema insomma torna pienamente a riacquistare una valenza conoscitiva piuttosto che d’intrattenimento : “Nello slancio della ricostruzione post-bellica si cerca di reimpostare il rapporto tra storia ed esistenza, tra pubblico e privato. Un grande investimento emotivo, sorretto da uno slancio utopico, caratterizza il delinearsi di una nuova cultura, che cerca nuovamente di attribuire

234

G. Bataille, L’esperienza interiore, p. 35

235 Ibid.

236 C. Zavattini, I sogni migliori, in “Cinema”, 92, 25 aprile 1940; poi in Id. Neorealismo ecc. p. 39 237

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all’individuo la centralità nelle vicende collettive. L’impegno antifascista viene a coincidere con un generale sentimento antiborghese, che conduce a spostare lo sguardo verso le classi inferiori, soprattutto verso la lunga serie di umiliazioni da loro subite. Nessuno aspira più a frugare all’interno delle case borghesi, ma si perlustrano le strade, i rioni, le periferie e gli appartamenti popolari.”238Ancora André Bazin aveva definito il “realismo” attraverso una esseniziale tendenza estetica volta a mostrare un reale più reale del reale, a manifestare un certo “grain de réalité” e diceva che proprio il neorealismo aveva lasciato venire a manifestarsi una nuova forma di realtà, più complessa, più ambigua, più difficile da decifrare. Per questo veniva a caratterizzarsi attraverso l’invenzione di un’ “immagine-fatto”. Nello stesso momento in cui il cinema viene a liberarsi dei suoi schemi senso-motori, ecco che sorgono delle immagini pure, ottico-sonore che ci dicono letteralmente del terrore e dell’indicibile bellezza delle cose. Si noterà inoltre, come ha potuto evidenziare Montebello, che proprio il sorgere di situazioni puramente ottico-sonore contrasta fermamente con il mondo solido dell’azione senso-motrice e i cliché necessari all’azione. In quest’ottica, allora, non ha alcun senso opporre l’oggettivismo di Antonioni (i tempi morti e la geofisica del quotidiano) e il soggettivismo di Fellini (sogni e fantasmi), l’oggettività critica del primo contro i sentimenti e le credenze di personaggi, e l’empatia complice dell’altro : poiché essi sono di fatto il dritto e il rovescio di una stessa derealizzazione del mondo, di una distanza abolita che fa sì che il mondo passi crudamente nel soggetto e il soggetto fantasticamente nel mondo (come nel caso celebre di Ozu dove si avrebbe un’identità assoluta « du moi et du monde », passagio ininterrotto « du moi dans le monde, dans un monde plein qui n’est plus le moi 239».

Ricollegare il nostro quotidiano al cosmico, questa sembra essere l’essenziale scommessa del nuovo cinema del dopoguerra, capace di cambiare nel tempo, come pure di durare senza cambiare. Perché se è vero che le cose mutano, non muta la durata che è piuttosto l’infinità del tempo, sempre già passato e sempre ancora a venire ; l’eterna verità del tempo come pura forma vuota del tempo che si è liberata del suo contenuto corporale. Scrive ancora Zabunyan : « On ne saurait simplement définir ce modèle comme renvoyant à l’acte de reconnaissance d’un objet quelconque. Plus profondément, la récognition est affaire de facultés ; elle désigne un modèle qui règle le rapport de facultés entre elles. Elle engage non seulement la pensée comme faculté (imagination, mémoire, etc .) qu’elle s’efforce de faire concorder ensemble. C’est que la récognition sous-tend un processus d’identification qui immobilise nos rapport aux choses ; elle fixe nos facultés, qui sont autant de manières d’exprimer ces rapports, en vue de consacrer la forme d’identité de l’objet . « La

238 Ivi, p. 55 239

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récognition se définit par l’excercise concordant de toutes les facultés sur un objet supposé le même : c’est le même objet qui peut être vu, touché, rappelé, imaginé, conçu”.240

La domanda da porsi, a questo punto con Lévinas è la seguente: ma è ancora possibile dunque nominare tra gli intelligibili, la nozione di trascendenza, di alterità, di novità assoluta-la nozione di assoluto-se roprio in quanto nozione dell’altro, del trascendente, dell’assoluto, deve necessariamente contrastare con il sapere, deve distinguersi cioè dal mondo in cui essa potrebbe apparire solo facendosi immanenza ? “È sufficiente mantenere questa intelligibilità in modo puramente negativo rispetto al sapere, all’apparire e alla presenza ? A meno che l’intelligibilità dell’alterità dell’altro, della trascendenza, non faccia appello a un’altra fenomenologia, fosse anche quest’ultima, distruzione della fenomenologia dell’apparire e del sapere”241

. A proposito della Critica della ragion pura, Lévinas ne ricorda l’insuccesso a partire dal suo uso filosofico delle contraddizioni formali, alle quali perviene il « lungo vagare alla ricerca della verità assoluta al di là del dato e oltrepassando la portata della critica dell’appercezione trascendentale” non aver abolito insomma il senso stesso della meta della metafisica. Non è un caso allora che il filosofo francese torni a soffermarsi ancora una volta in occasione della sua celebre conferenza tenuta nel 1983 all'Università di Ginevra proprio sul messaggio radicalmente antikantiano di Bergson per il quale il cammino della filosofia occidentale alla ricerca di un ordine assoluto- o trascendente- dell’Eterno non sarebbe stato altro che la deformazione di uno spirito tecnico teso ad agire sulla materia e sullo spazio (preparazione misconosciuta delle critiche heideggeriane della metafisica derivanti dalla volontà di potenza). L’ attenzione che Lévinas dedica a Bergson242, e l’importanza che assume per lui il concetto di « durata reale » collegato alla « novità » intelligibile apportata dalla croyance, evidenziano un possibile rapporto ancora poco studiato tra le rispettive concezioni del tempo. Scrive allora Lévinas: “Il vero significato della fine della metafisica, da Kant a Heidegger, non consiste