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la forzata congiunzione tra culturale e creativo

III.II Creativo agg e s.m [der di creare]

Per rigore narrativo, dopo l’introduttiva presentazione delle Industrie culturali e creative, in questo paragrafo si vuole provare a ricostruire brevemente un più sistematico prospetto dell’argomento ed un apparato di definizioni con alcuni opportuni riferimenti a pensatori e fonti autorevoli della letteratura.

Risale al 1994 il primo impiego della terminologia ICC per indicare una politica governativa dell’Australia che rapportava l’arte alle nuove tecnologie, ma il vero contributo edificante per l’argomento è quello del DCMS, il Department of Culture, Media and Sport del Regno Unito, che nel 1997 ufficializza il binomio cultura e creatività e adotta la definizione di ICC che include nel cultural sectors

the sum of activities and necessary resources (tools, infrastructure and artefacts) involved in the whole cycle of creation, making, dissemination, exhibition/reception, archiving/preservation, and education/understanding relating to cultural products and services. (in Tamma e Curtolo 2009)

Tra il 2000 ed il 2010 sono stati molti gli sforzi teorici volti all’inquadramento del cambiamento culturale in atto. La nuova centralità del ruolo della creatività, della conoscenza e dell’accesso all’informazione viene riconosciuta come motore di un nuovo paradigma di sviluppo sociale ed economico che prende il nome, come si accennava, di Economia della creatività. (Tamma e Curtolo 2009)

Il core di questo rinnovato sistema è costituito da una complessa interazione tra cultura, economia e tecnologia, in un mondo globalizzato e dominato da simboli, testi, suoni e immagini. (UNCTAD-UNDP 2008; Hesmondhalgh 2008)

Si propongono qui alcune definizioni raccolte non per diletto archivistico ma perché esse colgono l’evoluzione del concept Industrie culturali e creative negli anni e secondo il pensiero di vari nobili menti. In particolare, è interessante comprendere quanti e quali prodotti siano stati codificati come testi culturali e creativi nel corso degli ultimi venti anni ed anche tentare di appurare dove questi si vadano poi ad inserire nello specifico all’interno dei vari modelli di definizione delle ICC.

Il primo riferimento è a Richard Caves, che nel 2001 guarda alle industrie culturali come a quei settori

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che producono e distribuiscono beni e servizi cui viene in generale associato un valore culturale, artistico o semplicemente di intrattenimento. Tale insieme di settori comprende quello dell’editoria libraria e periodica, quello delle arti visive (pittura e scultura), quello delle arti rappresentate (teatro, opera, concerti, balletto), quello discografico, quello cinematografico e dei film realizzati per la televisione, perfino quello della moda e dei giocattoli. (Caves 2001 in Tamma e Curlolo 2009)

L’aspetto peculiare di questa definizione è l’accenno alla semplice capacità del prodotto delle ICC di intrattenere la propria platea di fruitori. Ed in effetti tra le varie categorie qui riportate, prendendo a campione l’editoria libraria e periodica ed il settore dei giocattoli, riecheggia il propositivo interesse verso l’Edutaintment perseguito dal progetto Artonauti, il quale attraverso un meccanismo di ‘gioco ed imparo’ educa all’arte ma anche intrattiene il suo giovanissimo pubblico.

Nel 2003 Ruth Towse utilizza l’espressione ‘industrie creative’ come sinonimo contemporaneo di ‘industrie culturali’. L’economista britannica considera che le ICC

mass produce goods and services with sufficient artistic content to be considered creative and culturally significant. The essential features are industrial-scale production combined with cultural content. The cultural content mostly results from the employment of trained artists of one sort or another (creative artists, performers, craftspeople) in the production of goods in the cultural industries, but it may also arise from the social significance that attaches to the consumption of goods. (Towse 2003 in Tamma e Curtolo 2009)

Quindi, per essere realmente considerate industrie culturali e creative, a detta della Towse, queste devono produrre beni e servizi con un sufficiente grado di contenuto artistico. Si parla di una combinazione tra le caratteristiche proprie della produzione industriale in scala ed il contenuto culturale, riportando alla mente diverse delle già note considerazioni di Adorno sull’argomento. Interessante è anche la scelta della parola ‘employment’ in riferimento alla natura del contratto economico che lega l’artista all’industria culturale e creativa. In questa definizione non è inoltre nettissima la differenza tra creativo ed artista, inteso come singola persona dotata di estro creativo,

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performers o artigiano. Si avrà modo di comprendere che il creativo, in una fase più matura della critica, è sollevato da una sua funzione pratica di effettiva creazione dell’opera, che lo renderebbe molto più simile ad un artista canonicamente inquadrato, ma più che altro il suo talento diventa una risorsa in ottiche sviluppatesi all’interno di politiche culturali volte all’innalzamento del valore attrattivo di un luogo, allo sviluppo specifico del settore, all’affermarsi dell’imprenditorialità creativa, per fare solo alcuni iniziali esempi.

Si arriva nel 2005 alla definizione proposta da David Throsby. Egli individua l’insieme delle produzioni culturali e creative come composto da quelle attività i cui beni e servizi:

a) comportano una certa forma di creatività nella produzione;

b) riguardano la creazione e la comunicazione di un significato simbolico; c) implicano, almeno in potenza, una qualche forma di proprietà

intellettuale. (Tamma e Curtolo 2009)

Specialmente gli ultimi due punti sono molto vicini anche al pensiero di David Hesmondhalgh, il quale sottolinea l’aspetto simbolico della produzione di testi, quindi di prodotti culturalcreativi che hanno una profonda risonanza che va al di là del supporto tecnico materiale che le concretizza fisicamente. Anche il concetto di proprietà intellettuale è ben radicato in diverse considerazioni della scena critica; esso è strettamente connesso al core arts del modello proposto da Throsby che si avrà ampliamente modo di analizzare a breve.

A tal proposito si approfitta di questo passaggio testuale per aprire una parentesi che avvicina al modello di Throsby quello proposto da Santagata nel 2001. Per questo tipo di schematizzazione riassuntiva del settore dell’industria culturale, sono previste tre fasce concentriche: al centro vi è il core del sistema, ossia le attività e gli attori della creatività pura; nella seconda fascia risiedono gli addetti alla produzione, quindi vengono enucleate tutte quelle attività che permettono la concretizzazione dell’idea in prodotto materiale o servizio; l’ultima fascia è quella che ospita le infrastrutture e le organizzazioni che cooperano per la distribuzione ed il consumo del prodotto culturale. Citate queste definizioni, non è forse ancora completamente chiaro il ruolo della creatività all’interno dell’industria culturale. La creatività mantiene una sua autonomia rispetto alla cultura? Occupa un ruolo più o meno funzionale rispetto ad essa?

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Il Libro verde redatto dalla Commissione Europea nel 2010 offre diversi spunti di riflessione, anche molto disturbanti per gli attori culturali ed i policy makers, in materia di Industrie culturali e creative considerate come un potenziale da sfruttare per il futuro. L’aggettivo disturbante è utilizzato per sottolineare che il testo non contiene molte risposte univoche, definitive e rincuoranti, ma al contrario pone molte domande, provoca quasi i lettori al fine di spronarli nella ricerca di soluzioni attuabili. Anche in materia di definizioni, il tono incalzante non cambia. Nel testo la definizione di industria culturale e creativa è scissa nelle due definizioni di ‘industria culturale’ ed ‘industria creativa’.

Le ‘industrie culturali’ sono le industrie che producono e distribuiscono beni o servizi che, quando vengono concepiti, sono considerati possedere un carattere, un uso o uno scopo specifici che incorporano o trasmettono espressioni culturali, quale che sia il loro valore commerciale.

Le ‘industrie creative’ sono le industrie che utilizzano la cultura come input e hanno una dimensione culturale, anche se i loro output hanno un carattere principalmente funzionale. Comprendono l'architettura e il design, che integrano elementi creativi in processi più ampi, e sottosettori come il design grafico, il design di moda o la pubblicità. (Libro verde 2010)

Nella seconda definizione fa capolino nettamente per la prima volta una considerazione funzionale del creativo all’interno del settore. La cultura è un input dal quale la creatività sviluppa output con determinate finalità economiche.

Storcere il naso davanti a questa pratica economica di employment della creatività è un plausibile residuo del retaggio puritano storico artistico europeo, ormai grossomodo superato dallo sviluppo stesso delle Industrie culturali e creative.

Hesmondhalgh nel suo testo sulle industrie culturali del 2008, si è interrogato sul binomio creatività e commercio, enucleato come problematica che l’Industria culturale tende a sollevare. Per le concezioni romantiche dell’arte nelle società occidentali è difficile coniugare la creatività simbolica alla ricerca del profitto, egli parla di vera incompatibilità di fondo e affida l’argomento ad una tensione dialettica non facilmente risolvibile. (Hesmondhalgh 2008)

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È proprio grazie al termine ‘creativo’ che l’industria culturale volta le spalle agli anni di cattiva economicità che l’hanno resa accusabile di non aver saputo gestire i sussidi, le sovvenzioni, le donazioni o le poche entrate autonome, di non essere stata in definitiva sostenibilmente produttiva. La svolta imprenditoriale creativa apre la strada ad una chiara nuova politica economica della quale le imprese creative sono i principali attori del sistema e si configurano come parte attiva nella generazione di valore economico. Per un’organizzazione culturale integrata nel sistema delle ICC, le risorse talentuose e creative sono sì messe a servizio della ricerca di un profitto, ma non è di certo questa l’unica finalità ultima. Ben più dignitoso è forse parlare di valore e non di profitto in termini di creatività pura. Il valore che il core creativo è in grado di mettere in moto produce benessere per la società tutta e non per i singoli. L’apertura alla creatività porta con sé un’azione democratica ed inclusiva di diffusione culturale che si traduce in clusters, incubatori culturali, distretti culturali, intere città creative che codificano un nuovo linguaggio di sviluppo ben lontano dalle logiche delle istituzioni culturali canoniche.

In conclusione, per dare un esempio vivido della creative power e della creative trust affidata alle ICC, o per dirla in termini più banali per dare l’idea di cosa può fare l’industria culturale e creativa, si fa riferimento qui ad alcuni generici risultati attesi da progetti culturali e creativi recenti: la riqualificazione urbana di luoghi in decadimento o spopolamento; l’aumento dell’occupazione giovanile e non; l’affermazione dell’imprenditorialità creativa con l’attenzione anche alla sostenibilità ambientale di determinate opere; l’attrazione culturale con finalità di sviluppo di nuovi percorsi turistici anche in termini di competitività territoriale… and little is left to tell.

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