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Dalla definizione di Industria culturale alla Popular culture

II.VI Ricapitolazione sull’industria culturale

Il concetto di industria culturale individuato dai francofortesi risulta sovrapposto a quello di cultura di massa, intimamente collegato al capitalismo maturo e al fordismo. La definizione di Adorno è stata ripresa, criticata e formalmente superata da alcuni intellettuali inglesi e francesi verso la fine degli anni Settanta. (Stazio 2007)

A partire da un cambiamento all’apparenza solo grammaticale nella formula ‘industria culturale’ a favore del plurale ‘industrie culturali’, sottendendo una risonanza ben meno banale, costoro volevano tentare di coniugare la carica critica della definizione ad una maggiore descrizione contestualizzata del fenomeno delle fabbriche di cultura.

Nel Regno Unito, Graham Murdock e Peter Golding pubblicano, sempre negli anni ’70, i due studi For a Political Economy of Mass Communication e Capitalism, Communication

and Class Relation, dai quali si evince che la terminologia ‘industrie culturali’ denomina:

quelle industrie che impiegano i mezzi caratteristici di produzione e di organizzazione delle società industriali per produrre e diffondere simboli sotto forma di prodotti e servizi culturali. (Stazio 2007, 18)

Per tutti gli studiosi che adottano l’approccio ‘political economy of culture’, parlare di industrie culturali non presuppone necessariamente il riferirsi né ad una cultura massificata, né tanto meno ad un particolare stadio di sviluppo industriale.

Parlare di industria culturale, in questa ottica post Francoforte, significa descrivere un modo di produrre e distribuire beni e servizi culturali all’interno e per mezzo di processi culturali che avvengono nel mercato. (Stazio 2007)

A proposito di processo, è interessante l’analisi del critico francese Edgar Morin sulla stampa, la radio, la televisione ed il cinema che egli definisce come industrie ultraleggere. In particolare: ‘leggere negli strumenti di produzione e ultraleggere nella merce prodotta’. (Morin 1963)

Nel suo saggio sulla cultura di massa, egli afferma che l’industria ultraleggera è organizzata sul modello dell’industria più concentrata tecnicamente ed economicamente ed è nelle mani di poche grandi e dominanti industrie di comunicazione di massa. Il potere culturale, quello dell’autore della canzone, dell’articolo o del progetto del film si ritrova imbrigliato tra il potere burocratico che

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regola l’industria ed il potere tecnico che regola la produzione. Questa concentrazione tecno-burocratica grava universalmente sulla produzione di massa ed è alla base della spersonalizzazione della creazione artistica. L’osservazione propositiva di Morin, al contrario di Adorno, è che questa tendenza standardizzante del sistema industriale urta contro l’esigenza naturale del consumo culturale che promuove un prodotto individualizzato e sempre innovativo. Se da una parte, l’industria culturale è costretta a ‘ridurre gli archetipi in stereotipi’ per raggiungere una platea di fruitori più ampia, dall’altra parte, la creazione culturale non può entrare completamente nelle logiche di un asettico sistema di produzione industriale. (Morin 1963)

Abbozzato l’iter della definizione dell’industria culturale secondo questa piccola parte della critica, è ora giunto il momento di concentrarsi sul ‘prodotto bene culturale’ e soprattutto sulla discussione, di base anche adorniana, riguardante l’estrazione sociale dei suoi fruitori.

Ripartendo ancora da Morin, egli afferma che:

La contraddizione invenzione-standardizzazione è la contraddizione dinamica della cultura di massa, il suo meccanismo di adattamento ai vari pubblici e di adattamento dei vari pubblici ad essa, la sua vitalità. (Morin 1963, 23)

In Parva Aestethica, raccolta di saggi che contiene il carteggio di una conferenza tenuta da Adorno e poi riportata nel testo Ricapitolazione sull’industria culturale, il filosofo della scuola di Francoforte prende esplicitamente le distanze dall’espressione ‘cultura di massa’, che invece Morin e buona parte della letteratura utilizzano tranquillamente. Adorno, riprendendo le dichiarazioni di intenti di Horkheimer e sue dei tempi di

Dialettica dell’Illuminismo, spiega con un’insolita chiarezza il motivo di questa scelta:

Nei nostri abbozzi si parlava di cultura di massa; sostituimmo questa espressione con “industria culturale” per eliminare subito l’interpretazione che fa comodo ai suoi difensori: che si tratti di qualcosa come una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse stesse, della forma che assumerebbe oggi un’arte popolare. Da cui viceversa l’industria culturale si differenzia nel modo più assoluto. (Adorno 1963, 113)

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Adorno ribadisce che i settori dell’industria culturale vengano confezionati in modo più o meno massificato e che il prodotto sia studiato per l’indistinto consumo di massa; il pubblico non è che l’oggetto, il target da raggiungere, quanto di più distante dalla soggettività del gusto.

La critica americana all’Estetica di Adorno non perde occasione per analizzare il ‘topic of popular mass culture’ corretto appunto poi dai francofortesi in ‘culture industry’. Tra i riferimenti bibliografici che contribuiscono alla stesura di questo paragrafo, si vuole porre l’attenzione sul capitolo dedicato a Theodor W. Adorno e al tema dell’arte e della sua resistenza alla società, tratto dall’opera del professore Ehrhard Bahr. Egli è uno studioso contemporaneo della lingua e della letteratura tedesca ed è stato impegnato nella ricostruzione delle cause della crisi del Modernismo e delle connessioni di quest’ultima con i temi portanti della poetica della così detta ‘German Exile Culture’, sviluppatasi attraverso le elaborazioni filosofiche degli esuli di Francoforte a Los Angeles nel periodo bellico, da cui il titolo Weimar on the Pacific.

Bahr, riprendendo gli studi dello storico Martin Jay, spiega che il cambio di definizione voluto da Adorno è motivato dalla connotazione antipopulista del suo pensiero. (Bahr 2007)

Sia Adorno che Horkheimer disdegnavano la cultura di massa non perché fosse democratica, ma precisamente perché, a detta loro, non lo era affatto:

The notion of ‘popular’ culture, they argued, was ideological: the culture industry administered a non spontaneous, reified, phony culture rather than the real thing. The old distinction between high and low culture had all but vanisched in the ‘stylized barbarism’ of mass culture. (Jay in Bahr 2007, 61) Ed infatti, Adorno canonizzando l’integrazione dall’alto dell’industria culturale, afferma che si è inevitabilmente giunti ad una forzata unione tra arte superiore e arte inferiore, rimaste separate da millenni, ed ora congiunte con conseguenti danni per entrambe:

la prima con la speculazione sull’effetto perde la sua serietà; e la seconda, con l’incivilimento che l’addomestica, perde l’indomabile forza di opposizione che ha posseduto fino a che il controllo sociale non è divenuto totale. (Adorno 1963, 113)

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Non è superfluo ricordare che Adorno abbia assunto nei confronti del giudizio all’opera d’arte una posizione prettamente kantiana e quindi conservatrice, come si è avuto già modo di dedurre e, per quanto possa risultare ridondante, non si dimentichi neanche che quando egli parla di ‘arte’, si riferisce alla musica, alla letteratura e alle arti figurative dell’Europa centrale nell’arco storico compreso tra il 1770 ed il 1955. (Geuss 2005) J. M. Bernstein, filoso americano della seconda metà del ‘900, accusa Adorno di sostenere an

‘uncompromising defence of modernist art and an uncompromising critique of mass culture as a product of a culture industry’ e di essere ‘an elitist defending esoteric artistic modernism against a culture available to all’. (Bahr 2007, 60)

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