Dalla definizione di Industria culturale alla Popular culture
II.IV Riproducibilità dell’arte: anestetizzare la platea
La visione meccanicista della geminazione dell’arte non è altro che il riflesso dell’influenza del lavoro industriale del tardo capitalismo. I vari ‘Serafino Gubbio operatore’ aspirano a sottrarsi al processo lavorativo meccanizzato a fine turno, per poi affrontarlo nuovamente al mattino, distraendosi attraverso prodotti di svago che non richiedono alcuno sforzo mentale se non quello della copia e della riproduzione, al pari del processo lavorativo. Secondo Adorno, anche il divertimento prodotto dall’industria culturale non consiste in altro se non nel meccanico e obbligato ricongiungimento del particolare al generale.
Quindi, è possibile sfuggire al processo lavorativo della fabbrica e dell’ufficio solo adeguandosi ad esso nell’ozio, riproducendolo senza nessun altro tipo di sforzo intellettivo al fine di rimanere all’interno delle proprie consolanti associazioni mentali consuete.
Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. (Adorno, Horkheimer 1966, 145)
All’ingresso della sala cinematografica, l’uomo moderno, non può che aspettarsi la riproduzione del quotidiano, la pellicola non apporterà alcuna novità alla sua vita, nessuna tensione immaginifica al suo pensiero, niente che lo costringa a pensare. Questa anestesia delle idee crea il perfetto ambiente per la manipolazione commerciale, per la mistificazione di massa e, in definitiva, per l’apologia della società.
Nell’era del capitalismo divertirsi significa essere d’accordo, non dover pensare, semplicemente lasciarsi andare al processo sociale totalizzante. Di conseguenza, l’industria culturale non deve fare altro che disciplinare il consumatore, fornire un amusement non più illuminato, non più borghese. Non conta di certo cosa il pubblico voglia effettivamente vedere, dal momento che non è dotato di soggettività e pensiero autonomo né tanto meno di forza reazionaria. Per Adorno, le masse sono talmente
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ricadute nell’istupidimento che, anche volendo, non riuscirebbero mai a emergere dalla legge dei grandi numeri e riconoscere il bello autonomamente, ossia senza la lente della macchina da presa che ne fornisce già una riproduzione.
Consumare un prodotto dell’industria culturale non implica sforzo né impone una certa concentrazione, al contrario, Adorno parla di una ‘liberatoria distrazione’ ben lontana dalla faticosa ricerca di senso conquistata dalla grande opera d’arte borghese. Non dovendo compiere sforzi per comprendere un contenuto stereotipato ma dovendosi solo soffermare sulla forma ripetuta, al consumatore è dato in cambio quello stesso tetro senso di protezione dell’epoca di Hitler (‘Nessuno soffrirà il freddo o la fame ‘) per il quale il mercato provvede a tutto e tutti. L’epoca borghese garantiva la libertà di gusto a tutti ma esponendoli ai rischi insiti alla società; la stagione dell’industria culturale, così come la Germania hitleriana, sempre a detta di Adorno ed Horkheimer, garantisce invece la libertà formale di massa, resa possibile solo attraverso un sistema di generale controllo sociale. (Adorno, Horkheimer 1966)
Il concetto di riproduzione, così presente in questo paragrafo, chiama inevitabilmente in causa Walter Benjamin ed il suo testo del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica. Proprio tra le pagine di questo scritto, Adorno trova linfa vitale
per l’elaborazione della propria teoria estetica, ancora qui solo abbozzata. Benjamin aveva già rilevato l’influenza distruttiva della fotografia e del cinema sulle forme tradizionali dell’arte, in particolare si era soffermato sul ruolo dell’arte di massa (non folk, ma arte per le masse) e soprattutto sulla riproducibilità tecnica come parte integrante del processo produttivo.
Adorno, da subito rapito da questi studi, aggiunge all’analisi di Benjamin sul cinema e sulla fotografia uno studio sociologico sulla musica, sua area di competenza specifica, sollevando una polemica negativa e catastrofica sugli effetti sociali del suono registrato e della radio.
Le principali posizioni estetiche di Benjamin che si intrecciano con gli studi della scuola di Francoforte possono essere sintetizzate in tre punti: la perdita dell’aura, la distrazione del fruitore e l’utilità sociale dell’arte.
In primo luogo, egli sostiene che la concezione e la funzione dell’arte nella società moderna abbiano affrontato una fase di profondo cambiamento, causato principalmente dalle piccole e grandi rivoluzioni tecnologiche. Infatti, specialmente nel
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cinema e nella fotografia, la circolazione dell’opera d’arte è abbondantemente amplificata dalle molteplici copie rese disponibili dalle tecniche di riproduzione. Da un contesto unico ed autentico, il manufatto artistico passa ad un contesto molteplice e artificialmente riproposto. La conseguenza per Benjamin è definita come la perdita dell’aura dell’opera d’arte, ossia di quel velo sacrale che l’opera come unicum etereo ed imperturbabile porta con sé e che viene invece squarciato dalla modernità a causa dell’asservimento dell’arte stessa a scopi quotidiani, politici e sociali. L’opera d’arte nasce senza finalità alcuna se non quella di essere esposta e venerata come un’icona religiosa, non duplicata e collocata su un carro circense che la conduce in ogni dove per essere fotografata e riprodotta ancora ed ancora.
Il secondo aspetto è quello della ‘distrazione’, argomento già affrontato dal punto di vista di Adorno. Benjamin trae le proprie conclusioni osservando l’industria cinematografica: il medium che consente la diffusione del prodotto culturale e che è parte integrante di esso (‘The medium is the message’ dirà poi Marshall McLuhan) modifica la percezione e la fruizione dell’opera da parte dell’utente. L’esperienza di visione di un film può essere anche condotta in maniera distratta, non per disinteresse, ma a causa della tecnica stessa. Nel buio della sala cinematografica viene riprodotto un film che può essere ulteriormente riproducibile centinaia di altre volte nel tempo e nello spazio, di conseguenza il prezzo del biglietto non vale lo sforzo dell’attenzione assoluta. L’ultimo punto riguarda la preponderante funzione sociale e politica che l’arte assume nella modernità. Benjamin e Adorno guardano con molta preoccupazione a questa nuova utilità dell’arte, che nasce teoricamente ‘senza utilità’. La sua trasformazione in pratica collettiva connessa a diverse funzioni sociali può essere usata, ed è stata indubbiamente usata, in maniera forzata da organizzazioni politiche con chiare finalità persuasive o di propaganda. La così detta ‘aestheticization of politics’ messa in atto dal Fascismo costituisce un celeberrimo esempio dell’asservimento dell’arte per scopi ben lontani dalla sua pura aura, senza dover rintracciare altri e numerosi esempi simili in un passato ben più remoto. (Miller 2014)
Benjamin nei suoi scritti dedicati al disincanto dell’arte, affronta l’argomento, già molto caro ad Adorno, della dialettica auto distruzione del mito. La posizione di Adorno si allontana da quella dissolutrice di Benjamin riguardo il magico, mitico, sacrale aspetto dell’opera dell’arte che, a detta di quest’ultimo, si disgrega completamente nel
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momento in cui il prodotto culturale si colloca nella realtà sociale. Per Adorno, l’aura, la quale corrisponde all’autonomia dell’arte nella sua estetica, non si esaurisce nell’incontro con l’arte leggera, non autonoma, non auratica, ma al contrario trova la sua forza nel rapporto dialettico che instaura con essa.
Un altro elemento di non affinità tra il pensiero di Benjamin e quello dei teorici di Francoforte consiste nella prospettiva di liberazione realizzabile attraverso i mass media teorizzata dal primo, e, completamente avversa, invece, ai toni negativi utilizzati dalla Scuola per riferirsi all’arte per le masse o all’industria culturale. (Brantlinger 1983) La ricerca di Benjamin porta alla luce un indubbio grande cambiamento della società, dei mezzi di comunicazione di massa e di diffusione dell’arte, ma tra le sue pagine non vi è una diretta condanna alla Modernità. L’epoca della riproducibilità del prodotto culturale finalizza la gestazione dei processi meccanici e li riconosce come grandi conquiste rivoluzionarie per l’umanità. Conquiste che generano innovazione, innovazione che promuove emancipazione.
For the first time in world history, mechanical reproduction emancipates the work of art from its parasitical dependence on ritual. To an ever greater degree the work of art reproduced becomes the work of art designed for reproducibility. From a photographic negative, for example, one can make any number of prints; to ask for the "authentic" print makes no sense. But the instant the criterion of authenticity ceases to be applicable to artistic production, the total function of art is reversed. Instead of being based on ritual, it begins to be based on another practice-politics. (Benjamin 1969 cit. in Brantlinger 1983, 239)
L’arte, nonostante tutti i media di cui si serve, nonostante tutte le tecniche riproduttive figlie dell’innovazione del ‘900, (ad esempio la litografia prima fra tutte e particolarmente densa di significato in questo contesto) vive per Benjamin una fase di emancipazione dal rituale ed anche dal monopolio aristocratico ottocentesco.
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