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Un altro fenomeno che di recente ha contribuito – e contribuisce tuttora - in misura molto consistente alla crisi del welfare state, peggiorandone la situazione già delicata a causa delle trasformazioni economiche e socio-demografiche che da alcuni decenni stanno interessando - sebbene con intensità variabile – tutte le società occidentali, è costituito dalla crisi scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti. La crisi emerge inizialmente come crisi finanziaria, ma poi si trasforma in una grave crisi economica – quindi crisi dell’economia reale - con cui ancora oggi ci si trova a dover fare i conti, in alcuni paesi più che in altri, anche perché essa non li ha colpiti tutti allo stesso modo. Originatasi negli Stati Uniti la crisi si espande in tutto il mondo - poiché, come si è visto, la globalizzazione comporta una forte integrazione e stretti legami di interdipendenza tra le varie

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economie su scala globale - oltrepassando i confini nazionali, impattando così su paesi che presentano differenti varietà di capitalismo, approdando in Europa, Italia compresa, nel 2008. La crisi ha interessato anche i paesi emergenti (i BRICS) – proprio a causa della globalizzazione economica - laddove in un primo momento sembrava circoscritta al mondo industrializzato. Si tratta della crisi del capitalismo più profonda e grave che si sia registrata dopo la Grande depressione, che seguì al crollo di Wall Street del 1929, e da diverse parti si sostiene che la ripresa sarà faticosa: gli alti tassi di crescita conosciuti dall’economia globale nel periodo pre-crisi ad oggi sembrano un lontano ricordo (Batić, 2011).

La causa della crisi finanziaria è da ricondurre all’elevato numero di mutui subprime concessi dalle banche statunitensi. Dal momento che si tratta di mutui che la banca concede a persone che non è sicuro che riusciranno a saldare il debito - poiché sono detentrici di un reddito basso e/o insicuro - per la banca questa costituisce un’operazione rischiosa. Nonostante ciò le banche si dedicarono di buona lena a tale attività, nella misura in cui tale operazione da rischiosa che era, diveniva conveniente grazie a una serie di circostanze, quali la forte crescita dei prezzi delle case (producendo la cosiddetta “bolla immobiliare”), i bassi tassi di interesse, il meccanismo finanziario della cartolarizzazione, e la mancanza di regole rigide per il “leverage”. Si è generata, quindi, per l’intrecciarsi di tali fattori e per il cambiamento di direzione di alcuni di essi (i prezzi delle case interruppero la loro salita, e iniziarono a diminuire, mentre i tassi di interesse crebbero) una crisi finanziaria, che si è successivamente trasmessa drammaticamente all’economia reale tramite una serie di meccanismi – tra cui la stretta creditizia, gli effetti sulle aspettative di imprese e famiglie, l’interdipendenza economica mondiale.

Il ritorno ai ritmi di crescita registrati nel periodo precedente allo scoppio della crisi appare – come si accennava sopra - ancora lontano, e su quale sarà l’andamento, e quindi la velocità, della ripresa, diverse sono le posizioni che si fronteggiano nell’attuale dibattito (Ibidem). Da una parte ci sono quanti, in maniera molto ottimistica, sostengono che la ripresa sarà sostanzialmente rapida, così come lo è stata la discesa, seguendo dunque una forma a “V”. Dall’altra parte si collocano, invece, quanti si mostrano più cauti nel prospettare quella che sarà la ripresa, ritenendo che essa procederà lentamente, vale a dire secondo un modello a “U”. Un’ulteriore posizione si differenzia da entrambe quelle precedenti, nella misura in cui quanti vi si riconoscono sostengono che la ripresa, lenta o rapida che sia, non sarà netta e lineare, poiché ad una prima e breve ripresa seguirà un nuovo declino, dopo il quale tornerà la ripresa che porterà al superamento della crisi, per cui secondo un andamento a “W”. Infine ci sono i più pessimisti, i quali affermano che alla crisi farà seguito non una ripresa ma piuttosto un lungo periodo di stagnazione, similmente a quanto avvenne dopo la crisi del 1929, che fu seguita dalla Grande Depressione, insomma un andamento a forma di “L”. Nel

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momento in cui si riflette sulle previsioni di ripresa dell’economia globale, si dovrebbe procedere con molta cautela, evitando eccessivi e facili ottimismi, e considerando accuratamente quello che è lo scenario attuale, così come le tendenze che lo caratterizzano. Esso, infatti, presenta dieci aspetti che suggeriscono quanto sia saggio e opportuno tenere un atteggiamento di cautela laddove si ragiona di ripresa. Si tratta di aspetti che possono essere così indicati: i problemi dell’economia americana; i ridimensionamenti negli squilibri dell’economia globale; la crescita della disoccupazione, soprattutto nella zona euro, e la pressione sui consumi; la politica di bilancio e la riduzione del debito pubblico; i problemi di politica monetaria; la politica dei redditi e la distorsione nella concorrenza all’interno dell’Unione europea; le crisi nell’Europa centrale e occidentale; le incertezze nel mercato mondiale del petrolio; l’importanza dell’accredito; l’insufficiente azione di regolamentazione dei mercati finanziari a livello globale.

Per quanto riguarda tale fenomeno, ciò che all’interno del presente lavoro rileva è che la crisi finanziaria del 2007 si è tramutata in una crisi fiscale del welfare state (Farnsworth e Irving, 2011). La crisi finanziaria e la recessione economica che ne è derivata hanno impattato sulla finanza pubblica per quattro differenti motivi. In primo luogo l’entità della crisi richiese l’intervento dei governi dei vari paesi, che intervennero al fine di evitare il tracollo del sistema finanziario – che sarebbe stato determinato dal fallimento delle banche e dalla perdita di fiducia nelle istituzioni finanziarie - cui sarebbe inevitabilmente seguito quello del sistema economico. In secondo luogo al fine di prevenire un peggioramento della depressione nell’economia reale, i vari governi posero in essere una serie di stimoli fiscali discrezionali. In terzo luogo, vi furono anche dei fattori non discrezionali che ebbero un impatto sulle finanze pubbliche. Infine, tale crisi di dimensioni globali agisce come inibitore di una ripresa futura dei tassi di crescita, cosicché, a parità di altre condizioni, ciò va a ridurre ulteriormente le entrate fiscali e dilata le spese. L’esito di un tale stato di cose consiste nel fatto che si registra un aumento dei disavanzi pubblici e del debito pubblico accumulato, specialmente per quei paesi in cui il livello del debito è già molto alto e in continua ascesa, come l’Italia. Il che si riverbera negativamente sul welfare state e quindi sul benessere dei cittadini, soprattutto di quanti occupano una posizione sociale più marginale. Si deve poi aggiungere a tale quadro la circostanza per cui la politica, soprattutto italiana, persiste, imperterrita, nel considerare il welfare state come un costo da contenere, in specie in una fase di congiuntura

economica negativa piuttosto che un investimento sul benessere della società10 - una

10 Se la classe politica italiana continua a ritenere che il welfare state rappresenti un costo da contenere, gli italiani non

sembrano essere della medesima idea. Un sondaggio condotto da Swg per Legacoopsociali, in occasione del III Congresso Nazionale tenutosi nel novembre 2013, ha rilevato un miglioramento nella percezione del welfare state da parte dell’opinione pubblica. Per il 70 per cento degli italiani, infatti, il welfare state costituisce un investimento, non un costo. Il 46 per cento degli intervistati sostiene, inoltre, che le risorse da investire nel sociale vadano recuperate dalla lotta all’evasione fiscale, mentre per il 14 per cento dalle fondazioni bancarie.

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argomentazione questa palesemente insensata. L’entità dell’impatto di una tale situazione sul, potremo dire con un gioco di parole, welfare del welfare state, tuttavia, dipende da alcuni fattori, quali la rapidità e l’entità delle misure predisposte dal governo per ridurre i livelli del debito; l’equilibrio tra i tagli alla spesa e l’incremento della tassazione necessario per raggiungerlo; la misura con cui i tagli si ripercuotono sulla spesa necessaria per finanziaria le politiche sociali. La crisi economica globale, dunque, si ripercuote direttamente sul finanziamento del welfare state – con conseguenze più o meno negative - principalmente per due ordini di motivi (Batić, 2011). Con l’incremento del tasso di disoccupazione, lo Stato, per salvaguardare un minimo livello di benessere sociale ai tanti che hanno perso il lavoro a causa della crisi, deve incrementare le risorse da destinare agli schemi assicurativi e alla protezione sociale. Il che però si scontra con il fatto che, in un contesto che vede una crescita economica frenata (quando non del tutto assente) e bassi salari – aspetti questi che in Italia si presentano come particolarmente marcati, quindi più negativi che negli

altri paesi colpiti dalla crisi11 - le entrate provenienti da tasse e contributi diminuiscono.

Nell’eurozona, gli stati membri si trovano a dover fare i conti con deficit, sempre più gravi, nei bilanci statali e nei fondi di assicurazione sociale. Il punto è che se la crisi fosse superata in tempi relativamente brevi e con il ritorno dell’economia europea agli alti livelli di crescita conosciuti nel periodo precedente al 2008, gli stati membri riuscirebbero presumibilmente senza grandi difficoltà a liberarsi della condizione di indebitamento, in cui attualmente versano. Ad oggi, tuttavia, quello di una rapida ripresa, e soprattutto il ristabilirsi di alti ritmi di crescita, pare essere uno scenario di

alquanta difficile realizzazione. Se, superata la crisi12, la crescita economica nell’eurozona rimenerà

frenata e i tassi di disoccupazione si manterranno a livelli elevati per un lungo lasso di tempo – e bassi i tassi di occupazione - quello che si profilerebbe per i bilanci statali sarebbe un quadro problematico, certamente più grave di quello attuale. Un connubio drammatico, composto da spesa sociale ridotta e innalzamento di tasse e contributi, determinerebbe una espansione e intensificazione del disagio sociale, specialmente di certi segmenti della popolazione. Quella che si delineerebbe, dunque, sarebbe una situazione potenzialmente esplosiva, in cui sarebbe lo stesso ordine sociale ad essere minacciato: a fronte di un tasso di disoccupazione che non accenna a ridursi, e di un tasso di occupazione che non aumenta - a causa di una crescita economica che persiste nel procedere a ritmi inferiori di quelli del periodo pre-crisi - per risolvere il dissesto dei conti pubblici, si decide di tagliare le risorse destinate al welfare state e di incrementare tassazione e contribuzione – con conseguenze negative sui livelli di consumo, che, in un circolo vizioso,

11 Rispetto agli altri paesi europei, nel caso italiano il quadro si fa ancora più problematico a causa di una base

occupazionale tradizionalmente ristretta - come si vedrà meglio più avanti.

12 Nell’eurozona – ma non in Italia - si iniziano a registrare timidi segnali di ripresa, come si specificherà meglio in

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mantengono bassa la crescita economica. Il risultato inevitabile consisterebbe in un abbassamento del livello di benessere della società nel suo complesso, accompagnato da un approfondirsi delle diseguaglianze sociali, e quindi dal potenziale emergere di nuovi conflitti sociali, o dal riemergere

di quelli rimasti fino ad ora latenti. La Commissione Europea in un rapporto redatto nel 200913,

sulla sostenibilità finanziaria a lungo termine degli stati membri, ha individuato le azioni che essi devono porre in essere per affrontare le sfide che la crisi ha portato, vale a dire riduzione del debito, innalzamento del tasso di occupazione, riforma del welfare state. L’indicazione rivolta dalla Commissione Europea agli stati membri appare alquanto positiva, dal momento che l’unico modo per preservare la tenuta della coesione sociale - che sarebbe minacciata laddove con un’economia stagnante si decidesse di tagliare la spesa sociale e di innalzare tasse e contributi - consiste nell’intraprendere in modo serio e deciso un percorso di riforma del welfare state. Aspetto quest’ultimo che vale soprattutto per quei paesi in cui la situazione sociale e economica è più delicata, Italia compresa.

La crisi economica globale, da evento negativo qual è stato fino ad ora, potrebbe tuttavia trasformarsi in un fondamentale punto di svolta non solo per la politica sociale degli stati membri - che dovrebbero riformare il proprio sistema di protezione sociale per affrontare gli effetti della crisi - laddove, con un maggiore sforzo, lo potrebbe divenire anche per il processo di integrazione europea, nella misura in cui si riuscisse a costruire un unico welfare state europeo. In tal modo la UE compierebbe un primo importante passo lungo il percorso di transizione da semplice unione monetaria quale è oggi - in cui la politica sociale così come quella fiscale e dei redditi rimangono sotto la giurisdizione nazionale - a unione politica.

Per quanto riguarda il come affrontare la crisi fiscale – che, dal momento che interessa la finanza pubblica, investe inevitabilmente anche il welfare state - diverso è stato (ed è) l’atteggiamento assunto dai paesi industrializzati, che, in misura maggiore o minore, ne sono stati colpiti. Alcuni hanno messo a punto in maniera chiara e decisa una certa strategia, cui hanno fatto seguire azioni concrete, come la Gran Bretagna. Altri paesi, invece, si presentano come incapaci di trovare una soluzione. Ciò accade principalmente in Italia, poiché in tale paese si è dinanzi a una situazione di stallo, di inazione – come si è in precedenza accennato. Di fronte a un problema così serio e fondamentale, per la vita di un Stato e per il benessere dei suoi cittadini, non solo mancano interventi, poiché manca proprio una presa di posizione esplicita e ferma da parte dei policy makers: non si riesce a capire cosa questi vogliano o non vogliano fare, in quale modo intendano affrontare la situazione. Un atteggiamento che contribuisce ad accrescere l’insicurezza sociale e l’ansia per il 13 Commission of the European Communities: Long term sustainability of public finances for a recovering economy,

Communication from the Commission to the Euroepan Parliament and the Council, SEC (2009), 1354, Brussels in Batić, 2011.

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futuro tra i cittadini. L’inazione della politica, altresì, non fa altro che aggravare i problemi. Se non si decide di intervenire, infatti, le cose non si risolvono certe da sole, semmai accade il contrario, cioè peggiorano, rendendo così più difficile – e costosa in termini sociali e finanziari - la soluzione. Come paese agli antipodi dell’Italia da questo punto di vista si trova, appunto, la Gran Bretagna, che si presenta, tra i paesi industrializzati, come quello in cui la crisi finanziaria e la recessione economica assumono un aspetto più grave che altrove, vista la centralità che nel mondo finanziario riveste la City of London. Il governo britannico, infatti, di fronte alla crisi fiscale, per raggiungere l’obiettivo di ridurre un deficit salito ad un livello mai registrato in precedenza, ha stabilito che si dovesse intervenire non con un incremento della tassazione, ma con netti tagli alla spesa pubblica, vale a dire tramite «una completa rivalutazione del ruolo del governo nella fornitura di servizi pubblici» (HM Treasury, 2010, in Farnsworth e Irving, 2011, traduzione nostra). Il ridimensionamento fiscale complessivo previsto per il 2014/2015 è pari a £110 miliardi, equivalenti a circa un quinto del budget complessiva nel 2010. Si tratta di una serie di misure che non hanno precedenti nella storia del governo britannico successiva alla fine della seconda guerra mondiale. L’impatto di un tale inasprimento fiscale deciso nel 2010 sarà regressivo, e chi trarrà svantaggi da ciò, vale a dire un peggioramento delle condizioni di vita - nella misura in cui interventi e servizi sociali verranno sottoposti a drastici tagli - saranno le persone più ai margini della società, bambini e donne soprattutto. Ciò significa che una crisi generatasi nel settore finanziario verrà arrestata nel suo procedere mediante interventi che comportano un abbassamento del tenore di vita della maggior parte dei cittadini britannici, nello specifico di quanti si trovano in una situazione in bilico tra l’inclusione e la vulnerabilità sociale. La Gran Bretagna, tuttavia, non è l’unico paese industrializzato ad aver messa a punto una ricetta di inasprimento fiscale e tagli al welfare state, come risposta alla crisi fiscale indotta dalla crisi finanziaria. Anche altri paesi dell’Occidente industrializzato – non tutti, diciamo pure, fortunatamente - hanno, infatti, optato per una tale modalità di intervento, ma è anche vero che quanto a rapidità, durezza, e regressività dei tagli apportati al welfare state la Gran Bretagna non vanta concorrenti – primato che non ci pare certo fonte di orgoglio, anzi. Non è certamente legittimo rimediare ai danni provocati dal mondo finanziario, e dagli attori che in quello operano, sottraendo risorse al welfare state, vale a dire riversandone il peso sui cittadini – peso che, tra l’altro, non è distribuito equamente sugli stessi, poiché alcuni sono, diciamo, più sovraccaricati di altri. Un tale modo di procedere, infatti, comporta l’elevato rischio che le condizioni di vita della popolazione peggiorino. Una strategia, dunque, che anche da un punto di vista etico è ampiamente criticabile. Innanzitutto agire in tale modo significa mantenere al sicuro tutto il sistema finanziario, dal momento che si decide che la crisi lì generata venga risolta effettuando tagli sulla spesa sociale, ossia andando a reperire i soldi in un settore del

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tutto estraneo (mercati finanziari da un lato, welfare state dall’altro), ma lo stesso si potrebbe dire laddove invece di tagliare, si fosse deciso di incrementare la tassazione generale. La soluzione più naturale, e quindi anche più rispettosa nei confronti della giustizia sociale, avrebbe consistito semmai nel fare in modo che gli artefici dei danni siano anche coloro che vi debbano mettere riparo. Pretendere, quindi, che fosse lo stesso mondo della finanza a rispondere delle proprie sregolatezze e dei propri errori – ad esempio tramite una tassazione su operazioni e profitti delle istituzioni finanziarie - invece che riversarne il peso sulla popolazione, e soprattutto sui segmenti sociali più marginali del tutto ignari delle trame elaborate dagli attori finanziari, così come delle loro logiche di azione, e molto più interessati agli andamenti dell’economia reale (dinamiche del mercato del lavoro, PIL, inflazione), visto che è da quest’ultima che deriva un impatto diretto sulla vita di tutti i giorni. La tassazione sul mondo della finanza avrebbe potuto essere affiancata efficacemente, per rastrellare le risorse necessarie per risolvere la crisi fiscale dello Stato, con una decisa lotta all’evasione fiscale, dal momento che si tratta di un fenomeno che fa mancare alle casse pubbliche una consistente quota di denaro, rappresentando in tal modo un danno per la società nel complesso e per il benessere di ogni cittadino. Quella di affrontare una crisi fiscale causata dalla finanza ridimensionando il welfare state oltre a essere una strategia insensata, come si è detto sopra, è anche una strategia destinata a fallire, poiché piuttosto che risolvere certi problemi ne crea di nuovi. Una conseguenza sociale negativa consiste certamente in un allargamento del divario tra ricchi e poveri, quindi in un incremento delle diseguaglianze sociali, con ricadute negative per la società nel suo

complesso14. Questo si verifica a causa del fatto che i tagli – in specie se rapidi e violenti in una

situazione di congiuntura economica negativa - agli schemi di protezione sociale si ripercuotono negativamente soprattutto su quanti occupano i gradini più bassi della scala sociale, mentre chi si colloca al vertice se ne è toccato, lo è solo di striscio. All’interno di una società, però, i benestanti, che possono anche fare a meno dei programmi welfare state, sono una risicata minoranza. Praticare tagli alle politiche sociali, in un momento in cui le risorse a esse destinate dovrebbero essere incrementate per affrontare le condizioni di disagio sociale portate e/o acutizzate dalla recessione economica, rappresenta un’azione che in definitiva implica un peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Si tratta dunque di un’azione politica praticamente auto distruttiva, che indebolisce progressivamente la tenuta della coesione sociale, visto che essa va a danneggiare la maggior parte dei cittadini, lasciando inalterata, se non migliorata, la condizione di una piccola porzione, provocando in tal modo una pericolosa spaccatura all’interno della società.

14 Del rapporto tra livello delle diseguaglianze sociali e benessere complessivo della società, se ne tratterà nel capitolo

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La crisi globale e la conseguente recessione economica hanno provocato, quindi, forti pressioni sui

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