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Un ulteriore fenomeno che negli ultimi anni ha esercitato una forte pressione sul welfare state, contribuendo alla sua crisi, è rappresentato dalle trasformazioni intercorse nel mercato del lavoro. L’avanzare deciso della globalizzazione, la crescita della competitività a livello internazionale, lo sviluppo economico galoppante e la conseguente affermazione sullo scenario mondiale dei paesi emergenti (i cosiddetti BRICS: Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) hanno reso necessario un intervento sull’assetto del mercato del lavoro nei vari paesi occidentali, così da equipaggiarsi al meglio per affrontare le nuove sfide e rimanere al passo. In Italia, il passaggio ad una fase post- industriale (o post-moderna) non è stato indolore, nella misura in cui il mancato adeguamento dell’assetto del welfare state al nuovo assetto del mercato del lavoro ha determinato conseguenze sociali negative, in specie per certi gruppi sociali, accrescendo la - già marcata - spaccatura tra

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come uno dei pilastri fondamentali della società italiana, ad oggi ci si trova di fronte a un elevato livello di precarietà dell’impiego e ad un tasso di disoccupazione che continua a salire, per effetto della crisi economica - aspetti entrambi che si rivelano particolarmente forti e diffusi tra la componente giovanile della popolazione. Nella seconda metà di quel decennio, l’Italia ha visto l’inizio di un processo di modernizzazione del mercato del lavoro, intrapreso al fine di portare le politiche del lavoro in linea con le configurazioni che le stesse stavano assumendo negli altri paesi dell’Unione Europea, così da non rimanere indietro e pertanto attrezzarsi per affrontare un’economia sempre più globale. Tale processo è stato portato avanti seguendo due distinte direttrici: da un lato quella della flessibilizzazione in entrata, dall’altro quella della fine del monopolio pubblico sul collocamento. Quella che qui ci interessa, ai fini dell’analisi sulla crisi del welfare state che si sta conducendo, è la prima. Si tratta di un percorso che fu intrapreso, tra le altre cose, con l’obiettivo di affrontare e risolvere il problematico rapporto tra i giovani e il lavoro, visto l’alto tasso di disoccupazione giovanile e le poche opportunità che già allora erano offerte loro dal mercato del lavoro italiano. Guardando, però, alla situazione attuale dei giovani nel mercato del lavoro, ci pare di poter dire – tristemente - che le cose non sono cambiate in positivo, ma semmai in negativo. Certamente la crisi economica è responsabile in prima battuta di ciò, tuttavia anche se consideriamo il periodo pre-crisi la condizioni lavorativa dei giovani non mostrava quei miglioramenti che le riforme volte a introdurre la flessibilità avrebbero dovuto apportare. Tali riforme, infatti, comportarono un aggravamento di quella condizione, poiché la modifica dell’assetto del mercato del lavoro non fu accompagnata da una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, cosicché la flessibilità è degenerata in precarietà. Si capisce allora come la crisi non abbia fatto altro che acutizzare ulteriormente una situazione, quella dei giovani nel mercato del lavoro, che era già in partenza alquanto critica. La flessibilità è stata introdotta, però, con un fine preciso: ridurre l’eccessiva rigidità – presunta, più che effettiva - del mercato del lavoro italiano. In realtà quella rigidità eccessiva che veniva attribuita all’Italia era frutto di un errore commesso dall’OCSE nel calcolo dell’indice di protezione dell’occupazione dipendente. A seguito della correzione di quell’errore, infatti, l’Italia non rientra più nel gruppo dei paesi più rigidi, ma al contrario in quello dei paesi meno vincolistici (Reyneri, 2011). L’errore fu dovuto al fatto che l’indice di protezione dell’occupazione venne calcolato senza tenere conto di quale fosse la parte dell’occupazione complessiva interessata dalle regole giuridiche e contrattuali a difesa del posto di lavoro. Quest’ultimo costituisce un aspetto fondamentale nel calcolare la rigidità del mercato del lavoro, dal momento che quelle regole non si applicano, oltre che ai lavoratori autonomi, alle piccole e piccolissime imprese, le quali quando non sono escluse di diritto da tali regole, lo sono di fatto. L’Italia, infatti, costituisce il paese industrializzato che presenta la più alta quota di lavoratori

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autonomi, altresì le piccole e piccolissime imprese, spesso a conduzione familiare, rappresentano la stragrande maggioranza del tessuto produttivo.

Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro ha visto sostanzialmente due tappe principali: la legge 196/97 e la legge 30 del 2003, forse meglio conosciute, rispettivamente, come pacchetto Treu e legge Biagi. Con la prima furono tradotti in legge certi punti su cui il governo Prodi e le parti sociali erano giunti in occasione dell’episodio di concertazione che nell’anno precedente, il 1996, ebbe come esito finale il Patto per il lavoro, siglato nell’ottica di un risanamento dei conti pubblici sotto la pressione dell’avvicinarsi della scadenza per adempiere agli impegni presi dall’Italia in sede di firma del trattato di Maastricht nel 1992. La novità più importante del pacchetto Treu fu costituta dalla regolamentazione del lavoro interinale. L’Italia così interveniva su questa materia con un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei, nei quali tale tipo di contratto di lavoro era previsto già da molti anni. Il che ha rappresentato un tassello molto importante nel percorso di riforma del mercato del lavoro. Con il lavoro interinale, infatti, è stata creata – almeno questa era l’intenzione, poiché nei fatti le cose sono andate diversamente da come

si era previsto17 - un’opportunità in più per entrare nel mondo del lavoro, altresì la legge ha

riconosciuto a certi soggetti privati la somministrazione di manodopera, rappresentando dunque un

primo e implicito elemento di liberalizzazione dei servizi per l’impiego18. La seconda tappa nel

processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano ha coinciso con la legge Biagi, la 30 del 2003, imprimendo una decisa accelerata a tale processo. Furono, infatti, introdotte nuove forme contrattuali, vale a dire i contratti di lavoro atipici, con lo scopo di estendere le opportunità occupazionali dei soggetti che allora erano fuori o ai margini del mercato del lavoro - giovani e donne in primis, ma anche lavoratori anziani e extracomunitari – così da favorire il loro inserimento lavorativo, al contempo tali misure avrebbero dovuto rappresentare uno strumento di lotta al lavoro nero. Una legge, la 30/2003, elaborata con l’obiettivo di ridurre il gap generazionale e di genere, che però nella sua applicazione ha fallito completamente, poiché tali gap sono stati estesi e aggravati, con un peggioramento della condizione occupazionale di giovani e donne, con le giovani donne quale categoria sociale in cui le difficoltà sono più marcate. Il fallimento della legge è da imputare a due aspetti fondamentali: in primo luogo il fatto che il processo di flessibilizzazione è stato parziale e selettivo, interessando solo la fase di ingresso, cosicché le nuove forme contrattuali si sono concentrate principalmente sui giovani alla prima loro esperienza nel mondo del lavoro - lasciando inalterata, quindi stabile e sicura, la posizione lavorativa di adulti e anziani (De Luigi e

17 Il lavoro interinale tende a condurre ad altri lavori atipici, non rappresenta quindi un trampolino di lancio verso il

mercato del lavoro ordinario (Paci, 2005; Reyneri, 2011).

18 La fine del monopolio pubblico sul collocamento avvenne con il d.lgs. 469/97, con il quale la competenza in materia

di collocamento e di politiche attive del lavoro venne decentrata a regioni e enti locali. Altresì l’attività di incontro tra domanda e offerta di lavoro venne estesa ai soggetti privati.

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Rizza, 2011) - e, in secondo luogo, la mancata riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. Questi due fattori intrecciandosi hanno comportato effetti negativi per la condizione dei giovani italiani nel mercato del lavoro. Eppure le nuove tipologie contrattuali, atipiche, avrebbero potuto rappresentare un’opportunità per l’individuo, offrendo ad esso la possibilità di essere artefice della propria carriera lavorativa, di sentirsi libero di cambiare lavoro, di scegliere nuove occupazioni, e quindi di sentirsi imprenditore di se stesso, ampliando la sua azione nel mercato del lavoro (Fullin 2002 in Paci, 2005), permettendo così un arricchimento delle proprie esperienze professionali e delle proprie conoscenze. La mancanza di adeguati strumenti di tutela ha trasformato delle potenziali opportunità di libertà e realizzazione di sé, quindi di crescita per l’individuo, in rischi, che nel caso dei giovani ostacolano il raggiungimento dell’età adulta, spostando i traguardi di tale percorso sempre più in avanti, comportando ricadute negative oltre che per il singolo anche per la società nel suo complesso. Per la stragrande maggioranza dei giovani, infatti, flessibilità significa precarietà, dipendenza prolungata dalla famiglia d’origine, insomma è fonte di problemi, non costituendo certamente una possibilità di libertà e realizzazione personale, laddove invece se accompagnata da un adattamento dell’assetto del welfare state per affrontare i nuovi rischi del mercato del lavoro, lo sarebbe.

La segmentazione del mercato del lavoro si è quindi accentuata. Questo, infatti, si presenta spaccato in due aree: da una parte c’è il settore primario, caratterizzato dal lavoro stabile, protetto e ben remunerato, con prospettive di carriera; dall’altro quello secondario che presenta posizioni instabili, precarie, bassi salari, in cui giovani e donne sono sovra rappresentati. È vero, difatti, che la flessibilizzazione del mercato del lavoro ha fatto sì che quelli che prima erano gli esclusi, giovani e donne, riuscissero a entrare nel mercato del lavoro, ma li ha fatti entrare dalla porta di servizio, lasciandoli altresì intrappolati nell’area secondaria. Non si è riusciti, quindi, a fare in modo che i lavori atipici rappresentassero un trampolino di lancio verso l’occupazione stabile, vale a dire l’area primaria. Il problema, infatti, è che i due segmenti del mercato del lavoro non comunicano tra di loro, sono quasi impermeabili. Ciò significa che assai difficilmente si riesce a balzare dal secondo al primo, rimanendo così intrappolati in una sequenza di lavoro temporaneo, poco pagato, e disoccupazione, non coperta da ammortizzatori sociali, in cui è solo la famiglia d’origine - se c’è e se può - a fornire un riparo dallo scivolamento verso la vulnerabilità e l’esclusione sociale.

Gallino (2009) si schiera contro la flessibilità sostenendo che i lavori flessibili – ossia «i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente perfino del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano» (Ibidem, p. 4) – comportano rilevanti costi personali e sociali per il

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singolo, e quindi anche per la famiglia cui appartiene, così come per la società nel suo complesso. Il più rilevante costo umano della flessibilità è – come in parte si è già accennato - la precarietà. Il punto, infatti, è che non è la flessibilità in sé ad essere negativa, nella misura in cui lo è la sua degenerazione in precarietà. La flessibilità degenera in precarietà – come è accaduto in Italia, soprattutto per i giovani, a seguito dell’entrata in vigore della 30/2003 - quando la modifica dell’assetto del mercato del lavoro, attuata tramite l’introduzione di varie forme di lavoro atipico, non è accompagnata da un adattamento dell’assetto del welfare state a quella situazione mutata. Si potrebbe dire, quindi, che gli effetti della flessibilità sono dipendenti dal livello di demercificazione del welfare state. L’avvento della flessibilità nel mondo del lavoro comporta, infatti, l’emergere di nuovi rischi per il lavoratore. Se il welfare state rimane tale quale era quando il mercato del lavoro era basato sul lavoro tipico, fordista – quando quindi quei rischi erano assenti - il lavoratore si scopre privo di un qualche forma di copertura, l’unica di cui dispone è quella rappresentata dalla famiglia. In tale modo la flessibilità, che pure – come si è detto - potrebbe rappresentare un’occasione di crescita per l’individuo, si trasforma in precarietà, divenendo così qualcosa di negativo. Possiamo allora sostenere che la legge Biagi ha fatto un lavoro a metà, non rispettando il principio della flexicurity: ha introdotto la flessibilità, ma non ha garantito la sicurezza, laddove invece si tratta di due aspetti necessariamente complementari affinché sia l’impresa che il lavoratore possano trarre vantaggio dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro. La conseguenza di tale lavoro incompleto è che i lavoratori si ritrovano a dover fare i conti con la precarietà, quindi con un lavoro che c’è e non c’è, e – soprattutto - a dover affrontare la fluidità lavorativa senza adeguati ammortizzatori sociali. L’insicurezza delle condizioni di lavoro, però, non rimane circoscritta in tale ambito, in quanto si trasmette anche alle condizioni di vita, perché in assenza di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali, mancanza di lavoro vuol dire mancanza di reddito, il lavoro così come il reddito sono del tutto provvisori e possono venire meno da un momento all’altro. A tal proposito, Gallino (2009) sostiene che la precarietà, quale costo umano della flessibilità, presenta tre differenti aspetti. In primo luogo limita fortemente, se non annulla del tutto, la possibilità di fare progetti per il futuro, progetti sia attinenti alla sfera professionale sia a quella personale e esistenziale. Si pensi, ad esempio, alla situazione di un giovane precario che vive ancora con la propria famiglia d’origine. L’insicurezza dell’occupazione non gli permette di progettare il proprio futuro, quindi di decidere di sposarsi o di andare a vivere da solo, di avere dei figli. Il non sapere se il prossimo anno o tra alcuni mesi si sarà senza lavoro o no è un qualcosa che obbliga l’individuo a rimandare continuamente certe decisioni a data da definirsi, costringendolo magari in una situazione che vorrebbe invece lasciarsi alle spalle – come può essere il vivere ancora con i genitori a

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trent’anni19. L’avere un posto di lavoro, e quindi un reddito, sicuro è una condizione indispensabile

per compiere scelte così importanti nella vita di un individuo, lo è altresì per poter accedere a un mutuo – spesso necessario per molte giovani coppie che desiderano costruire qualcosa insieme, o anche per il singolo che intende iniziare una vita per conto proprio. Se ci fosse un welfare state tarato sul nuovo mercato del lavoro, probabilmente tale problema non sussisterebbe o comunque sarebbe marginale. Laddove, infatti, il lavoratore precario – si pensi prima di tutto a un giovane - potesse accedere ad adeguati strumenti di sostegno del reddito nelle fasi di passaggio da un lavoro all’altro, così come partecipare a corsi di formazione professionale continua, in modo tale da tenersi al passo con i cambiamenti e le tendenze della domanda di lavoro, e a servizi che facilitino la ricerca di un nuovo impiego, le possibilità di progettazione della propria esistenza - e quindi di libertà e di realizzazione di sé - aumenterebbero notevolmente. Un secondo aspetto della precarietà che è legato al primo sopra descritto, fa riferimento al fatto che la propria vita può essere sconvolta da un momento all’altro da parte di fattori del tutto contingenti che, come un fulmine a ciel sereno, irrompono nella normalità di tutti i giorni senza che si possa fare nulla per cercare di controllarli e di frenarli, e con effetti potenzialmente deleteri per il proprio destino. Quello che ne deriva è un senso di impotenza per il lavoratore. È quando accade, ad esempio, quando l’impresa presso cui si lavora decide all’improvviso di dislocare la produzione in un altro paese, ritrovandosi così di punto in bianco di fronte a un terribile bivio: o trasferirsi con l’impresa in quel paese per continuare a lavorare in quella, oppure rimanere in Italia e quindi senza lavoro, magari con una famiglia sulle

spalle20. L’ultimo dei tre aspetti della precarietà, che Gallino menziona, riguarda la carriera

lavorativa. Se si esclude le professioni che richiedono elevati livelli di competenza, la flessibilità comporta che non si riesca ad accumulare nessuna esperienza professionale, tale da poter essere

19 In Italia l’età a partire dalla quale per un individuo è più comune essere usciti dalla casa dei genitori (quindi vivere

per conto proprio, o con il proprio partner o con amici) piuttosto che risiedere ancora in quella è di 30 anni per gli uomini e 28 per le donne. Tali valori sono superiori non solo a quelli registrati in passato, ma anche a quelli presenti oggi negli altri paesi dell’Europa nord-occidentale. In Danimarca si riscontra il valore più basso: tanto per gli uomini quanto per le donne 20 anni è l’età di uscita dalla casa dei genitori. In Francia, Germania, Gran Bretagna sono presenti valori inferiori ai 25 anni. Gli unici paesi che si avvicinano al caso italiano sono Grecia e Portogallo. In conformità con tale quadro, l’Italia altresì è tra i paesi in cui più elevata è la percentuale di under 30 che dipendono economicamente dalla famiglia d’origine (Rosina, 2013).

20 Un episodio simile si è verificato nell’agosto 2013, quando un’impresa dell’Emilia Romagna ha approfittato del

periodo delle ferie estive per trasferire merci e macchinari nell’Est Europa, dove ha deciso di dislocare la produzione. I 40 operai - così come i sindacati - non erano stati avvertiti, anzi a fine luglio erano stati salutati con un “ci rivediamo il 26…”, e sono venuti a sapere di quanto l’azienda stava facendo per caso – anche perché il trasferimento avveniva durante la notte. L’azienda dopo essere stata scoperta si è limitata a inviare agli operai, rimasti increduli di fronte a un tale comportamento, una lettera in cui venivano spiegate le ragioni di quella fuga, in cui altresì veniva offerta loro la possibilità di mantenere il posto di lavoro trasferendosi nel paese dove si stava dislocando la produzione – l’alternativa a ciò era rappresentata dalla perdita del posto. È stato inoltre avviato un confronto con i sindacati, con la mediazione del comune in cui si trova l’azienda. Il titolare dell’impresa per giustificare un gesto così vergognoso, che si commenta da solo - specialmente nell’attuale periodo di difficoltà economica in cui il lavoro diventa una risorsa sempre più scarsa - ha dato la colpa alle tasse, ai sindacati, alle banche che non elargiscono crediti, alla burocrazia, sostenendo che tali elementi sono responsabili della crescente fuga di imprese dall’Italia. Fonte: www.ilrestodelcarlino.it

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trasferita da un lavoro all’altro, e che quindi attribuisca un punto in più al lavoratore, offrendogli così maggiori possibilità di trovare un nuovo impiego. Una sequenza di lavori a tempo determinato, a scadenza, che non portano a un’occupazione stabile, spesso rappresenta uno sfavorevole biglietto da visita, di fronte al quale il datore di lavoro sarà più propenso a dare un giudizio negativo piuttosto che positivo sulla produttività del lavoratore, cosicché non si riesce a venir fuori dalla spirale della precarietà. In tal modo per il lavoratore precario non esiste una carriera, e quindi anche l’identità lavorativa, che poi è il perno dell’identità personale e sociale, è inconsistente.

Anche Sennett (1999 in Barazzetti, 2007) dà un giudizio negativo sulla flessibilità, sottolineando il fatto che con essa la prevedibilità scompare e l’insicurezza diventa la condizione dominante nella vita degli individui. Questi ultimi, infatti, si ritrovano a vivere assillati dalla paura di perdere il controllo sulla propria vita, di vedersi stravolta la propria esistenza da parte di eventi del tutto contingenti, alle prese con un lavoro fluido, mobile che una volta dopo l’altra si interrompe e riprende con diverse vesti, magari in un altro luogo. La continuità nel tempo, quindi, smette di costituire un principio cardine tanto per la sfera del lavoro quanto per lo stile di vita – mentre lo era durante la fase fordista - con la conseguenza che cambia il significato del lavoro stesso e quindi, come si è già accennato, anche dell’idea di carriera. L’Autore ritiene che l’avvento del capitalismo a breve termine, vale a dire quello caratterizzato dalla flessibilità, determini l’emergere di una contraddizione, quella tra rapporti affettivi e rapporti produttivi. Si tratta di una contraddizione, che secondo Sennett, non era presente durante il periodo fordista, e che è dovuta al fatto che il lavoro da

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