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L’immigrazione rappresenta un altro fenomeno che negli ultimi decenni è stato protagonista delle trasformazioni che ha conosciuto la società italiana, e che ne hanno modificato profondamente assetto e dinamiche. L’Italia, infatti, è stata storicamente un paese d’emigrazione, nella misura in cui i suoi confini sono stati attraversati da italiani che si dirigevano altrove sin dai primi decenni successivi all’unità. Negli anni Settanta del Novecento, si è però verificato un cambiamento di portata epocale, che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nella storia della società italiana: il saldo migratorio dopo essere stato per quasi un secolo negativo divenne, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, positivo. L’Italia stava così iniziando un percorso che l’avrebbe portata nel giro di pochi decenni a divenire, da paese d’emigrazione, uno dei principali paesi d’immigrazione in Europa. L’immigrazione straniera regolare ha, infatti, ormai raggiunto livelli prossimi a quelli di paesi come Germania e Francia, vale a dire paesi che hanno una ben più lunga storia immigratoria alle spalle.

Quello dell’immigrazione è un fenomeno in forte crescita, tant’è vero che secondo l’ultimo censimento la popolazione straniera residente è triplicata nell’arco di dieci anni: passando da 1 milione e 300 mila unità nel 2001 a più di 4 milioni nel 2011 (4,4 milioni a inizio 2013), con un

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parallelo incremento dell’incidenza sulla popolazione totale: se nel 2001 c’erano 23,4 stranieri ogni mille censiti, nel 2011 si è passati a 67,8. La popolazione autoctona è invece diminuita di 250 mila unità nel medesimo periodo, diminuendo così dal 2001 al 2011 dello 0,5 per cento. Guardando

dunque alla sola dinamica naturale dell’ultimo decennio, il tasso di crescita naturale58 è prossimo

allo zero o negativo, il che comporta una riduzione della popolazione. Considerando il periodo 2002-2011, emerge come il tasso di crescita naturale è stato quasi sempre negativo – in soli due anni ha avuto segno positivo: nel 2004 con 0,54 e nel 2006 con 0,04, valori tra l’altro molto bassi - e dal 2008 è in continua e rapida discesa, tant’è che è passato dallo -0,14 di quell’anno allo -0,77 del 2011, toccando così il valore peggiore in tale arco temporale. Se invece si considera la dinamica

migratoria, si nota che il tasso migratorio estero59 è positivo e con un andamento molto più

altalenante di quello registrato dal precedente tasso. Nella serie storica 2002-2011 il tasso migratorio estero ha conosciuto il suo valore più alto nel 2007 (8,30), in seguito diminuisce prima leggermente, arrivando a 7,58 nel 2008, poi da quell’anno il calo si fa più brusco, cosicché nel 2009 scende a 6,28, e dopo una lieve ripresa torna a diminuire attestandosi a quota 5,01 nel 2011. Si può pertanto presumerne che tale riduzione del tasso migratorio estero, iniziata nel 2007 e accentuatasi nel 2008, sia da considerare come un effetto della crisi che proprio nel 2008 approda anche in Italia.

Grafico 22. Tasso di crescita naturale e tasso migratorio estero in Italia – Anni 2002-2011. Fonte: ISTAT.

58 Il tasso di crescita naturale è dato dal rapporto tra saldo naturale (nati vivi meno morti) e popolazione media,

moltiplicato per mille. Se i decessi superano le nascite, il tasso è negativo.

59 Il tasso migratorio estero è dato dal rapporto tra saldo migratorio (immigrati meno emigrati) e popolazione media,

moltiplicato per mille. Se le immigrazioni superano le emigrazioni, il tasso è positivo.

-2,00 -1,00 0,00 1,00 2,00 3,00 4,00 5,00 6,00 7,00 8,00 9,00 2002 2003 2004 2006 2006 2007 2008 2009 2010 2011

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La crisi, infatti, ha provocato un ridimensionamento dei fattori di attrazione nei paesi d’approdo. Nel momento in cui si confronta l’andamento del tasso di crescita naturale con quello del tasso migratorio estero negli ultimi anni, emerge come la popolazione italiana nel suo complesso non è diminuita poiché è cresciuta la componente straniera. Tant’è che il censimento del 2011 ha rilevato che la popolazione italiana è cresciuta del 4,3 per cento rispetto al 2001, e tale incremento è da attribuire esclusivamente alla componente straniera.

Nel panorama europeo, come si è visto, l’Italia è tra i paesi più vecchi, meglio meno giovani, nella misura in cui il processo di invecchiamento della popolazione è particolarmente avanzato e accelerato. Il che emerge anche nel momento in cui si considera il tasso di crescita naturale italiano in prospettiva comparata, questo, infatti, si colloca ai livelli più bassi in Europa. Per quanto riguarda il tasso migratorio, invece, l’Italia presenta valori tra i più alti.

Si capisce allora come l’immigrazione costituisca un fenomeno che frena il processo di invecchiamento della popolazione italiana, e quindi la riduzione della consistenza numerica di quest’ultima, non solo per il semplice fatto che gli stranieri si aggiungono agli italiani, ma anche

perché quella immigrata è una popolazione sia più giovane che più feconda di quella autoctona60.

Grafico 23.Tasso di crescita naturale e tasso migratorio nei paesi dell’Unione Europea – Anno 2011. Fonte: ISTAT.

60 Si può altresì ipotizzare che gli immigrati contribuiscano a far crescere la fecondità degli autoctoni, nella misura in

cui forniscono servizi di cura e assistenza alle famiglie, costituendo in tal modo una sorta di welfare parallelo.

-12 -10 -8 -6 -4 -2 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22

Tasso di incremento naturale Tasso migratorio Ue27

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Nel 2012 il tasso di fecondità delle italiane è pari a 1,29 figli per donna - un valore molto basso e ben al di sotto del livello di sostituzione - mentre quello delle immigrate si colloca a un livello

molto più alto, vale a dire a 2,37, cosicché il tasso di fecondità complessivo si attesta a 1,4261. Le

immigrate altresì hanno in media il loro primo figlio ad una età più bassa di quella delle autoctone - 28,44 anni per le prime contro 32,02 anni per le seconde. Ciò contribuisce al fatto che tra gli immigrati nascano più bambini che tra gli autoctoni. Considerando, infatti, quello che è l’arco di vita fecondo di una donna, se quest’ultima ha il suo primo figlio dopo i trent’anni, è probabile che quello sarà il primo e anche l’ultimo. Se invece il primo figlio arriva prima, è molto più probabile che ve ne sarà un secondo e magari anche un terzo, poiché il periodo di fertilità della donna è più lungo. La popolazione immigrata è anche più giovane di quella autoctona, e anche per tale motivo l’immigrazione frena l’invecchiamento della popolazione italiana. Tant’è che il censimento del 2011 ha rilevato che l’età media della popolazione immigrata residente in Italia è pari a 31,1 anni - a immigrare, infatti, sono principalmente le persone giovani - quindi sensibilmente inferiore a quella della popolazione italiana, che è pari a 43 anni.

L’Italia dunque ha bisogno dell’immigrazione, nella misura in cui essa frena il processo di invecchiamento della popolazione, evitando che quest’ultima diminuisca. Se la popolazione autoctona dovesse contare sulle sue sole forze - a causa di un numero di nascite troppo basso e del forte aumento della durata della vita media - diminuirebbe e ciò avrebbe ricadute negative in termini di PIL, con un possibile abbassamento del tenore di vita. Il saldo naturale - vale a dire la differenza tra le nascite e i decessi avvenuti in un anno - è, infatti, negativo dai primi anni Novanta. Inoltre, secondo le previsioni ISTAT, che prendono in considerazione il periodo 2011-2065, il saldo naturale non solo rimarrà di segno meno per tutto tale arco temporale, ma anche aumenterà in maniera significativa. Se nel 2011 il saldo naturale è pari a poco più di 35 mila unità in meno, nel 2018 esso potrebbe superare le 100 mila unità in meno, con una perdita annua di unità sempre maggiore, cosicché nel 2041 tale perdita sarebbe superiore a 200 mila unità, mentre nel 2052 il saldo naturale oltrepasserebbe il livello di 300 mila unità in meno. Il saldo migratorio con l’estero, invece, positivo dai primi anni Settanta, manterrà, sempre secondo le previsioni ISTAT, tale segno per tutto il periodo considerato, tuttavia le migrazioni con l’estero, pur rimanendo forti, si ridurranno – il saldo migratorio estero, partendo da un valore di oltre 300 mila unità nel 2011, scenderà gradualmente fino ad arrivare a 175 mila unità nel 2065. L’Italia quindi anche nei prossimi decenni conoscerà consistenti flussi in entrata, a causa del permanere della combinazione tra

61 Nel 2012 il divario tra il tasso di fecondità delle italiane e quello delle straniere si è ulteriormente ampliato. Il primo,

infatti, è leggermente diminuito rispetto al 2011 - attestandosi a 1,29, mentre il secondo ha conosciuto un aumento significativo, passando dal 2,04 al 2,37 – un livello quindi superiore al tasso di sostituzione, che è pari a 2,1 figli per donna. Questo incremento così consistente del tasso di fecondità degli stranieri ha comportato un lieve aumento del tasso di fecondità complessivo, esso infatti passa dall’1,39 del 2011 al 1,42 nel 2012 (Fonte: ISTAT).

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presenza di fattori push nei paesi d’origine – come basso reddito, basso livello della qualità della vita, scarse opportunità occupazionali - e presenza di fattori pull in quelli d’arrivo – contrazione giovani generazioni, migliori livelli di benessere, domanda per certi lavori (Rosina, 2013).

Quanto detto sopra dimostra quindi quanto, anche considerando il solo aspetto demografico, la società italiana abbia bisogno dell’immigrazione. Nonostante ciò nell’opinione pubblica prevale un

pensiero sostanzialmente opposto62: largamente diffusa è, infatti, la convinzione che gli immigrati

siano troppi, altresì si ritiene che rubino il lavoro agli italiani, che portino solo problemi, che siano dei delinquenti (Dalla Zuanna e Weber, 2012), che costituiscano soprattutto un costo per il welfare

state63. Non viene, pertanto, colto quanto l’immigrazione sia importante per la società, nella misura

in cui rappresenta una enorme risorsa potenziale sotto i profili economico, demografico, e anche culturale, va però saputa valorizzare affinché da potenziale diventi reale. La visione distorta, che l’opinione pubblica nutre nei confronti dell’immigrazione, è da ricondurre anche alla politica. Questa, infatti, ha da sempre trattato tale fenomeno solo dal lato della sicurezza, cosicché le politiche, più che alla promozione dell’integrazione e alla diffusione tra gli autoctoni di un differente atteggiamento verso gli immigrati, sono state delle politiche restrittive, quindi indirizzate al controllo dei flussi e alla riduzione degli ingressi irregolari. Finora, insomma, è stata adottata una

politica ostile nei confronti degli immigrati. Una politica di quel tipo, secondo alcune ricerche64,

tende a produrre immigrazione di bassa qualità, che può a sua volta – nella misura in cui ha ricadute negative sul benessere degli autoctoni - far sì che si sviluppino pregiudizi, innescando un circolo vizioso. Così facendo si corre il serio rischio di trasformare una potenziale risorsa in un problema sociale. È infatti fondamentale capire che nella gestione del fenomeno, si deve prestare attenzione non solo alla quantità, ma anche alla qualità, cosicché si possa migliorare il contributo degli immigrati al paese ospitante.

Data l’importanza che la presenza immigrata riveste per la società italiana, e rivestirà anche in futuro – si veda, ad esempio, quello che sarà l’andamento della dinamica naturale della popolazione negli anni a venire - sarebbe opportuno sviluppare adeguate politiche d’integrazione, in specie rivolte alle seconde generazioni, rendere quindi gli immigrati parte attiva della società – in primis tramite l’accesso alla cittadinanza - così da rafforzare il positivo contributo che forniscono ad essa.

62 Secondo una ricerca condotta nel 2011: la porzione di quanti credono che gli immigrati siano per lo più clandestini

presenta in Italia le dimensioni maggiori, oltre la metà degli italiani ritiene che gli immigrati siano troppi, gli italiani altresì sono i più insoddisfatti per quanto riguarda il come il governo ha gestito il fenomeno dell’immigrazione. Neodemos, “L’opinione pubblica e l’immigrazione nei grandi paesi occidentali”, www.neodemos.it, 2011.

63 In realtà, si stima che senza il lavoro degli immigrati si perderebbe più del 10 per cento del PIL, altresì gli immigrati

sono contribuenti netti dell’INPS, poiché la componente straniera presenta un rapporto occupati/pensionati migliore di quello proprio degli autoctoni – costituendo in tal modo una risorsa anche per la sostenibilità del sistema pensionistico (Rosina, 2013).

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Favorire l’integrazione degli immigrati, però, vuol dire anche preservare e migliorare la coesione sociale - evitando così il formarsi di condotte devianti. Si tratta allora di un’azione che porta benefici non solo agli immigrati, ma pure agli italiani, riversandosi quindi positivamente sulla società nel suo complesso. Altresì si dovrebbero mettere a punto iniziative e azioni – soprattutto nelle scuole - per far sì che gli italiani modifichino la loro opinione sugli immigrati, cosicché riescano a comprendere come questi rappresentino una risorsa per la società sotto vari punti di vista. L’immigrazione, pertanto, dovrebbe essere considerata - e, di conseguenza, gestita - non come una necessità da tollerare, ma come una risorsa da valorizzare (Livi Bacci, 2010). In tal modo si creerebbero le precondizioni necessarie per approdare ad una convivenza pacifica e costruttiva tra autoctoni e immigrati all’interno di una società sempre più multiculturale. Si tratta di azioni e interventi in cui il ruolo degli enti locali risulta fondamentale, dal momento che quello costituisce il livello di governo più vicino al territorio, in grado dunque di cogliere i bisogni degli immigrati da un lato e le eventuali ansie degli italiani dall’altro. I comuni si trovano pertanto nella posizione migliore per intervenire in modo tale da cercare di soddisfare i primi e eliminare, o quanto meno attenuare, le seconde. A tal proposito è opportuno sottolineare un aspetto non secondario. La capacità degli enti locali di mettere in campo adeguati interventi finalizzati a migliorare il rapporto tra la popolazione e gli immigrati presenti sul territorio, così da favorire una migliore integrazione di questi ultimi, è ovviamente legata, tra le altre cose, anche alla situazione dei propri bilanci e all’entità dei trasferimenti derivanti dal governo centrale, insomma alle risorse disponibili che, però, sono sempre meno – come si è visto.

Si deve soprattutto andare oltre la visione secondo cui l’immigrazione costituisce solo un fenomeno temporaneo, da gestire come si fa con l’emergenza che segue il verificarsi di un cataclisma. L’immigrazione infatti è un fenomeno strutturale all’interno di un mondo globalizzato, e pertanto la presenza straniera nelle società occidentali un qualcosa di irreversibile. Prendere atto di ciò è il primo passo per una adeguata, o forse sarebbe meglio dire intelligente, gestione del fenomeno, così da raggiungere tre obiettivi strettamente interdipendenti: migliorare la qualità della vita degli immigrati, la convivenza tra questi e gli autoctoni, il loro contributo al sistema paese (Rosina, 2013). Fondamentale in tal senso è anche promuovere una corretta informazione, affinché nell’opinione pubblica non si creino – come invece sta avvenendo, anche a causa dell’azione di certe forze politiche – stereotipi e pregiudizi, che impatterebbero sulla azione politica, indirizzandola verso misure restrittive, cosicché risulterebbero compromesse le possibilità di una pacifica e proficua convivenza tra immigrati e autoctoni, e quindi le possibilità di una società più aperta e di uno sviluppo economico maggiore e più solido.

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È necessario precisare che l’immigrazione costituisce una risorsa per la società italiana non solo perché ringiovanisce la popolazione e la fa crescere numericamente, ma anche perché permette di affrontare e risolvere tutta una serie di deficit e limiti strutturali, che altrimenti sarebbero causa di problemi e difficoltà per famiglie e imprese. L’immigrazione, infatti, rappresenta la soluzione più facile e a portata di mano cui far ricorso non solo per frenare il processo di invecchiamento della popolazione, ma anche per affrontare le conseguenze negative derivanti dalla bassa mobilità interna e soprattutto dalle lacune del welfare state. Si è già detto sopra del rapporto tra immigrazione e invecchiamento demografico, tuttavia possiamo arricchire tale analisi con un ulteriore aspetto. Nel Centro-Nord, ossia nelle aree più dinamiche e produttive del paese, l’immigrazione svolge un ruolo importante per il sistema produttivo, rispondendo a esigenze che altrimenti rimarrebbero insoddisfatte. A causa delle dinamiche demografiche descritte, così come della crescente scolarizzazione dei giovani, infatti, si riduce per due settori centrali nell’impianto produttivo del Centro-Nord e per il sistema paese nel suo complesso - vale a dire l’industria manifatturiera e le costruzioni - l’offerta di lavoro da parte degli autoctoni, cosicché diventa decisivo l’apporto dei giovani immigrati. Tale discorso non può essere, però, replicato per il Meridione, qui infatti la situazione è - come in molti altri casi - opposta. In tale area del paese gli stranieri hanno tassi di disoccupazione più bassi degli italiani, quindi nel mercato del lavoro c’è un po’ di concorrenza tra i due gruppi, laddove invece nel Centro-Nord c’è complementarità (Livi Bacci, 2010). Gli immigrati, infatti, spesso accettano lavori che per orari e retribuzioni sono rifiutati dai lavoratori del luogo. C’è altresì da ricordare il fatto che gli immigrati se non trovano lavoro nel Sud, non ci pensano due volte a spostarsi verso il Nord, mentre gli autoctoni meridionali se non riescono a trovare un lavoro nel loro territorio, lì rimangono come disoccupati, è assai difficile infatti che si trasferiscano altrove per cercare lavoro. La situazione economica negativa del Sud, e quindi le difficili condizioni del mercato del lavoro in tale area, creano problemi più agli autoctoni che agli immigrati, perché se i secondi sono senza lavoro se ne vanno, mentre i primi restano.

Da ciò emerge che la popolazione immigrata presente in Italia è molto più mobile di quella autoctona, cosicché l’immigrazione contribuisce anche alla mobilità interna, che altrimenti sarebbe praticamente nulla. Quest’ultimo costituisce un aspetto positivo, poiché la mobilità interna, quella di lungo raggio, è fondamentale in un paese, essa, infatti, garantisce la coerenza tra dinamica economica e dinamica demografica. Se quindi non ci fossero gli immigrati a spostarsi all’interno del paese, principalmente lungo l’asse Nord-Sud, nella misura in cui gli italiani praticano per lo più una mobilità a breve raggio, che è semmai un pendolarismo - verso il luogo di studio o verso il luogo di lavoro, senza però cambiare casa - tra le due dinamiche vi sarebbe una forte asimmetria. In una tale situazione le storiche differenziazioni territoriali nel tenore di vita e nel livello di crescita

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economica, come quelle che storicamente spaccano l’Italia tra Nord e Sud, sarebbero ancora più acute.

Quello che, però, è forse il più importante – e anche il più visibile - contributo dell’immigrazione alla società italiana ha a che fare con le lacune del welfare state. L’allungarsi della vita media - e in particolar modo la crescita della popolazione over 80 - determina un incremento del bisogno di cura e assistenza da parte degli anziani, ma la capacità della famiglia di assolvere ai tradizionali compiti di cura è al minimo. Il che è da imputare a una serie di fattori quali, innanzitutto, la crescita della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, così come il ridursi delle dimensioni delle generazioni dovuto al calo della fecondità. La situazione è molto seria: l’Italia è tra i paesi europei quello in cui il processo di invecchiamento della popolazione è tra i più accelerati e avanzati, ma è anche quello che si colloca agli ultimi posti per quanto riguarda i servizi di cura per gli anziani, previsti dal welfare state. Quest’ultimo, come si è visto, ha un carattere familista, scarica quindi le responsabilità di cura sulla famiglia, presupponendo che sia essa a fornire ai propri membri non autosufficienti – anziani, ma anche giovani alla ricerca di prima occupazione e bambini - tutto ciò di cui necessitano. Tali responsabilità attribuite alla famiglia, sono però implicitamente – ma neppure troppo - attribuite alla donna, nella misura in cui il welfare state si basa sul modello di famiglia del

male breadwinner, vale a dire che si tratta di un sistema di protezione sociale strutturato in

conformità a una famiglia in cui la donna fa la casalinga – e quindi si occupa della famiglia - mentre l’uomo lavora. Il welfare state italiano si basa su tale modello familiare poiché era quello assolutamente dominante nel periodo – l’epoca fordista - in cui tale sistema istituzionale venne costruito, quindi non prevede servizi di cura, strumenti di sostegno per la famiglia, perché presuppone che la moglie/madre prima e figlia poi si occupi di quella. La società, tuttavia, è profondamente cambiata rispetto a quegli anni, e uno dei fenomeni più importanti della seconda metà del Novecento è costituito dalla crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Una trasformazione, che secondo alcuni, rappresenta una rivoluzione vera e propria (Esping- Andersen, 2011), per le pesanti ricadute che ha avuto sulla società, tant’è che potrebbe essere

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