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Il welfare state, come si è detto, rappresenta una invenzione istituzionale, che è stata creata per rispondere ai problemi prodotti dal processo di modernizzazione avviatosi nel corso del XIX secolo in tutti i paesi europei. La sua evoluzione ha seguito percorsi diversi da paese a paese, nella misura in cui in ciascuno di essi il processo di modernizzazione ha proceduto lungo differenti direttrici, con una più o meno profonda incisività, determinando effetti in certi casi più negativi che in altri, che si sono concentrati su certi segmenti della popolazione piuttosto che su altri. Insomma in ogni paese, diversa era la gamma di problemi cui era necessario dare una risposta, e altresì tale risposta doveva essere elaborata in modo tale che fosse compatibile e rispettosa nei confronti della tradizione sociale, culturale, politica specifica di quel paese – sebbene ciò, come si è detto in precedenza, non ha reso il welfare state immune da tensioni e conflitti. Oltre a questo, c’è da ricordare che in alcuni paesi, la Chiesa cattolica - come in Italia - o altre dottrine religiose esercitarono un’influenza significativa nella definizione delle caratteristiche dello strumento con cui cercare di rispondere a problemi e bisogni presenti nella società. Tali fattori quindi spiegano il perché delle differenze riscontrabili tra i welfare state dei vari paesi europei. Alcuni di essi, tuttavia, presentano delle

19 Dell’andamento della spesa sociale nei vari paesi europei, e in particolare in Italia, se ne parlerà nel secondo

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caratteristiche comuni, cosicché è possibile raggrupparli, al fine di costruire una tipologia di welfare state. È meglio, però, parlare di tipologie di welfare state, tutte più o meno legittime, nella misura in cui al mutare delle dimensioni considerate per classificare i welfare state dei vari paesi, cambia anche la tipologia cui si approda.

Uno dei primi a elaborare una tipologia di welfare state è stato Titmuss. Questi individuò tre modelli di welfare state: il modello residuale, il modello particolaristico-meritocratico e il modello istituzionale–redistributivo. Nel primo, l’intervento dello Stato in campo sociale è residuale rispetto a quello della famiglia, della parentela e del mercato, vale a dire delle istituzioni tradizionalmente deputate al soddisfacimento dei bisogni dell’individuo. Nel modello residuale, quindi, gli interventi hanno carattere minimo e temporale e vengono posti in essere solo quando famiglia, parentela, mercato non riescono a far fronte ai bisogni e alle esigenze manifestati dall’individuo. Nel modello particolaristico–meritocratico, il welfare state costituisce uno strumento di correzione e di completamento del sistema economico. Si tratta, per semplificare, di un modello occupazionale, basato sulla convinzione che ognuno debba far fronte da sé ai propri bisogni, quindi, con il lavoro, vale a dire attraverso il versamento di contributi che lo assicurino contro i rischi sociali. Tale modello non permette certamente di ridurre le diseguaglianze sociali, nella misura in cui le mantiene e in un certo senso le rafforza, poiché il livello di benessere dell’individuo dipende dalla posizione che questi occupa all’interno del mercato del lavoro, laddove – a prescindere dalla caratteristiche e competenze da quello possedute - non è assolutamente scontato che ne abbia una. L’ultimo modello individuato da Titmuss è quello istituzionale–redistributivo, in cui esplicito è l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze sociali, nella misura in cui esso adotta criteri universalistici nell’erogazione di servizi e prestazioni. L’accesso a tali benefici, infatti, avviene sulla base della sola cittadinanza, non è richiesto, quindi, il versamento di contributi o il pagamento dei servizi. Si tratta, altresì, di un modello che segue un’ottica preventiva, piuttosto che assistenziale-riparatrice, vale a dire che si cerca di agire a monte invece che a valle dei processi che causano povertà e esclusione sociale. Non si aspetta che il bisogno si manifesti per agire, si agisce per evitare proprio che il bisogno si manifesti. Il che lo si realizza promuovendo l’inclusione sociale dei soggetti vulnerabili, ossia di coloro che sono più a rischio di caduta nella povertà e nell’esclusione sociale. Dovrebbe essere proprio questo il principio guida dell’assistenza sociale, dal momento che, si potrebbe dire con uno slogan, “prevenire è meglio che curare” e che una tale strategia comporta costi e spese assai inferiori rispetto a quelli necessari per porre rimedio a situazioni più o meno gravi di bisogno. Altresì un altro aspetto importante in tal senso è che gli interventi riparatori hanno anche minori possibilità di successo rispetto a quelli preventivi, poiché agiscono su situazioni più difficili e problematiche.

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Riassumendo possiamo dire che i tre modelli si basano su tre distinti criteri: il modello residuale sul bisogno, quello particolaristico-meritocratico sul lavoro, e infine il modello istituzionale– redistributivo si basa sulla cittadinanza. La tipologia di Titmuss, però, riflette un approccio evoluzionistico ai modelli di welfare state e altresì è incentrata sul caso inglese. I tre modelli, infatti, corrispondono a tre momenti che si sono succeduti nell’evoluzione del welfare state: il primo modello ricorda le misure di assistenza ai poveri introdotte in Inghilterra a partire dai primi del Seicento; il secondo modello richiama la fase dell’assicurazione sociale inaugurata da Bismarck alla fine del XIX secolo; l’ultimo modello invece rinvia al welfare state inglese nell’era post-Beveridge. Nell’approccio evoluzionistico, quindi, le differenze tra i vari paesi sono intese come differenze dovute al fatto che tali paesi si trovano ad un diverso livello nel percorso di sviluppo del welfare state che va dal modello residuale a quello istituzionale–redistributivo, considerato come una sorta di stadio finale cui tutti i paesi dovranno arrivare, passando per quello particolaristico– meritocratico. In realtà, a nostro parere, le differenze tra i welfare state dei vari paesi sono da ricondurre al peso relativo che ciascuno di essi attribuisce in modo differente a famiglia, mercato e Stato nel processo di produzione sociale del benessere. È proprio su tale considerazione, che trova in Polanyi la sua migliore elaborazione, che si basa la tipologia di welfare state elaborata da Esping- Andersen, che tra l’altro è una delle più famose. Tant’è che l’Autore non parla di welfare state, ma di regimi di welfare, espressione quest’ultima che indica proprio il concorso tra Stato, famiglia e mercato nella produzione di welfare, nella misura in cui usando il termine welfare state si considera solo uno dei tre principali produttori di benessere nella società contemporanea, vale a dire lo Stato, tralasciando il fondamentale contributo che famiglia e mercato forniscono per il soddisfacimento dei bisogni dell’individuo. Lo stesso Esping-Andersen (2000, p. 128) spiega così il significato della tipologia da lui elaborata: «I fenomeni che con la mia tipologia intendo […] ordinare sono costituiti dai regimi di welfare, non dagli stati sociali, e neppure dalle singole politiche. Per regimi di welfare intendo i modi in cui la produzione di welfare è divisa tra Stato, mercato e famiglie». Le dimensioni considerate da Esping-Andersen come fondamentali per individuare differenti tipi di welfare state sono due: la demercificazione e la destratificazione. Il concetto di demercificazione viene ripreso dal lavoro di Polanyi, e indica – come si è già in parte accennato - la capacità del welfare state di ridurre la dipendenza degli individui dal mercato, garantendo loro un reddito indipendentemente dalla partecipazione ad esso. Si tratta, quindi, di un concetto che vale solo nella misura in cui le persone sono mercificate, cosicché il welfare state possa agire per demercificarle. La seconda dimensione che Esping-Andersen considera è quella di destratificazione, con la quale si fa riferimento alla misura in cui le prestazioni del welfare state riescono a raggiungere quello che, in teoria, è il loro obiettivo principale, vale a dire ridurre le diseguaglianze sociali, quindi i

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differenziali di status occupazionale o di classe sociale, che dividono la società in vari segmenti, in maniera più o meno netta. Questo perché le politiche sociali che dovrebbero agire per attenuare le diseguaglianze sociali, tramite una redistribuzione delle risorse e delle opportunità, possono realizzare l’opposto, ossia rafforzare le diseguaglianze preesistenti, se non addirittura crearne di nuove. Esping-Andersen, quindi, tenendo conto di queste due dimensioni, e ispirandosi alla

tipologia di Titmuss, individua tre distinti regimi di welfare, “i tre mondi del welfare capitalism”20,

le cui caratteristiche fondamentali si sono delineate pienamente negli anni Sessanta e Settanta: il regime socialdemocratico, nei paesi nordici; il regime conservatore, nell’Europa continentale; il regime liberale, nei paesi anglosassoni. Iniziamo da quest’ultimo. Il regime liberale presenta un basso livello sia di demercificazione (alta è la dipendenza degli individui dal mercato) che di destratificazione (chi può si rivolge al mercato, chi non può deve accontentarsi di quello – poco - che offre lo Stato), gli schemi pubblici di assistenza sociale sono principalmente di carattere categoriale, vale a dire rivolti a specifici segmenti della popolazione ad alto rischio – poveri, lavoratori a basso reddito, bisognosi. L’intervento dello Stato è residuale, nel senso della bassa copertura dei rischi sociali, infatti, in tale regime si tende «a ridurre al minimo i compiti dello Stato, a individualizzare i rischi e a promuovere le soluzioni di mercato» (Esping-Andersen, 2000, p. 130). Predomina l’assistenza sociale selettiva, basata sulla prova dei mezzi, circoscritta, quindi, agli individui in grado di provare il loro stato di bisogno. Sono quindi tre le caratteristiche principali del welfare state del regime liberale: la copertura dai rischi sociali è presente solo per gli individui ad alto rischio, pochi sono i rischi considerati sociali (vale a dire per i quali è previsto l’intervento dello Stato), si promuove il ricorso al mercato. Tale regime si è sviluppato in quei paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia) in cui sono mancate, o se presenti sono state molto deboli, tanto l’azione del movimento socialista quanto l’influenza della dottrina sociale della Chiesa, ed è stata invece forte e dominante la presenza della borghesia capitalista e del liberalismo. Il regime conservatore, detto anche corporativo, si caratterizza per una demercificazione e per una destratificazione che si attestano a livello medio. La dipendenza degli individui dal mercato, infatti, persiste, mentre i differenziali di status occupazionale e di classe sociale, così come la segregazione di genere, tendono a essere preservati. L’intervento pubblico si basa sul principio di sussidiarietà. Secondo tale principio, sono i piccoli gruppi sociali, ossia la famiglia in primis, ma anche la comunità locale e le organizzazioni di volontariato, a essere considerate responsabili in prima battuta del benessere degli individui. Il ruolo dello Stato si configura, quindi, come secondario e sussidiario, vale a dire che l’intervento pubblico viene in essere solo quando l’individuo, la

20 “The three worlds of welfare capitalism” (1990) è il testo in cui Esping-Andersen illustra per la prima volta la sua

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famiglia, la comunità locale falliscono, non riuscendo da soli a fornire soddisfacimento ai bisogni. Si tratta di un principio che è stato istituito sotto la pressione esercitata della Chiesa cattolica. Il regime conservatore, infatti, si è sviluppato in quei paesi (Germania, Francia, Austria, Olanda) caratterizzati dall’egemonia dei partiti moderati o conservatori e in cui forte e influente era, ed è tuttora, la presenza della dottrina sociale cattolica. Gli elementi fondamentali di tale regime sono tre: corporativismo, statalismo, familismo. Il destinatario principale delle misure del welfare state è il male breadwinner, vale a dire il lavoratore maschio adulto capofamiglia, infatti, sono predominanti gli schemi assicurativi pubblici legati alla posizione occupazionale dell’individuo. Il regime socialdemocratico è presente nei paesi dell’Europa settentrionale, quindi Svezia, Norvegia, Danimarca, vale a dire paesi in cui il movimento operaio, i sindacati, i partiti di sinistra hanno rappresentato degli attori molto forti. Si tratta di un regime che è riuscito a realizzare alti livelli di demercificazione (la dipendenza dell’individuo dal mercato è ridotta al minimo, quando non annullata del tutto) e di destratificazione (l’obiettivo, infatti, è promuovere l’uguaglianza). L’universalismo è il principio alla base della programmazione delle politiche sociali. Le prestazioni e i servizi erogati presentano elevati standard di qualità, e l’accesso ai benefici dello stato sociale avviene sulla base della sola cittadinanza: destinatario, pertanto, è il cittadino, non il bisognoso o il lavoratore. In tale regime, quindi il ruolo dello Stato nel processo sociale di produzione del benessere prevale nettamente tanto su quello della famiglia quanto su quello del mercato. Il welfare state del regime socialdemocratico, oltre a seguire il principio dell’universalismo, tende a massimizzare la protezione dai rischi (elevato è il livello di socializzazione dei rischi), a erogare sussidi generosi e servizi di alta qualità, e a promuovere l’uguaglianza, operando per la rimozione delle diseguaglianze sociali esistenti.

La tipologia di welfare state elaborata da Esping-Andersen è stata oggetto di differenti critiche, ma quella principale ha avuto come bersaglio il concetto di demercificazione, quale una delle due dimensioni usate dall’Autore per la costruzione della tipologia. Il concetto di demercificazione, come si è già menzionato, presuppone che gli individui siano mercificati, vale a dire che gli individui siano costretti a vendere la loro forza lavoro sul mercato per riuscire a soddisfare le loro esigenze di vita. Si è mossa un’obiezione a tale concetto nella misura in cui esso pare essere adottabile solo con riferimento alla componente maschile della popolazione, mentre non lo si potrebbe applicare alle donne. È stato notato, infatti, come queste ultime nella maggior parte dei casi non sono mercificate, o se lo sono lo sono solo parzialmente, nella misura in cui la loro posizione nel mercato del lavoro è più debole di quella degli uomini, le loro carriere sono più instabili, le loro retribuzioni più basse, o non partecipano proprio alla forza lavoro. Il che è dovuto al fatto che le donne sono molto più immerse degli uomini nel lavoro domestico e di cura. Il punto è

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che i welfare state talvolta si configurano come dei veri e propri fattori di rafforzamento, o quanto meno di preservazione, di tale condizione che vede le donne non mercificate o mercificate solo parzialmente. Quando invece i welfare state agiscono in senso positivo su tale fatto, fanno troppo poco per alleggerire il pesante carico di responsabilità che grava sulle spalle delle donne, impegnate nel doppio lavoro in casa e fuori casa. «Il concetto di demercificazione sarebbe dunque inapplicabile alle donne, a meno che, per cominciare, gli stati sociali non inizino ad aiutarle a farsi mercificare» (Esping-Andersen, 2000, p. 81). Un’altra critica mossa al lavoro di Esping-Andersen, che discende direttamente da quella sopra esposta, riguarda il fatto che l’Autore non avrebbe considerato in modo adeguato il contributo essenziale che la famiglia fornisce nel processo sociale di produzione del welfare. Nella misura in cui Esping-Andersen ha privilegiato la dimensione della demercificazione, è il rapporto tra Stato e mercato a costituire il focus della sua analisi, lasciando in secondo piano il ruolo della famiglia. L’Autore pertanto in risposta a tale critica, ha introdotto il concetto di defamilizzazione, che fa riferimento alla misura in cui il welfare state riesce a ridurre la dipendenza degli individui dalla famiglia. Quello di defamilizzazione, altresì, è un concetto che risulta essere particolarmente adeguato a descrivere la situazione in cui si trovano le donne, poiché molte di esse invece che vivere la dipendenza dal mercato – che rappresenta la condizione prevalente degli uomini - vivono la dipendenza dalla famiglia. Oltre alla dipendenza delle donne dalla famiglia, c’è anche la dipendenza che va nella direzione opposta, vale a dire quella della famiglia dal ruolo della donna, tratto quest’ultimo tipico dei welfare state familisti – quello italiano in testa - in cui sulla famiglia, e quindi sulla donna, viene scaricata la responsabilità di prendersi cura in prima, e ultima battuta, dei propri membri, in specie di quelli non autosufficienti (bambini piccoli, anziani, disabili, giovani alle prese con la transizione all’età adulta). Più in generale si tratta della dipendenza reciproca tra i membri, e di quella tra questi e il nucleo familiare, dove però i vari membri non si trovano tutti sullo stesso piano, sia ovviamente nel senso di quanto richiedono loro stessi (un bambino piccolo è portare di un bisogno di cura assai maggiore di un adolescente), che di quanto è richiesto loro, in quest’ultimo caso è alquanto diffuso che la donna sia il membro che deve sopportare il carico maggiore. Per realizzare l’autonomia delle donne è, quindi, necessario che il welfare state preveda delle misure di defamilizzazione. In tal modo l’azione del welfare state ridurrebbe il carico di cura che grava sulle famiglie, vale a dire sulle donne, che potrebbero così partecipare al mercato, per poi essere demercificate. Questa costituisce la strategia che viene seguita con successo nei paesi nordici, che non a caso quanto a welfare state rappresentano un modello, da cui tutti gli altri paesi, chi più – Italia in primis – chi meno hanno da imparare.

Esping-Andersen ha elaborato tale tripartizione dei regimi di welfare avendo come base un campione vasto di paesi dell’area OCSE, tra cui anche gli Stati Uniti e il Giappone. L’Italia è

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l’unico paese dell’Europa mediterranea a essere stato preso in considerazione dall’Autore, che lo fa rientrare nel regime conservatore, e anche su tale aspetto si è aperto un dibattito, che ha portato a un rinnovato interesse per la classificazione dei vari tipi di welfare state. Estendendo, infatti, lo sguardo agli altri paesi dell’Europa meridionale, vale a dire considerando anche Spagna, Portogallo e Grecia, è emerso come i paesi di tale area presentino un welfare state con caratteristiche comuni e peculiari. Tra gli autori che muovono tale rilievo a Esping-Andersen, sostenendo l’esistenza di una “quarta Europa sociale”, vi è Ferrera (2006). Si tratta di un sistema di welfare sotto certi aspetti molto simile a quello conservatore. Tant’è che durante le prime due fasi di evoluzione del welfare state – vale a dire l’instaurazione e il consolidamento, quindi fino allo scoppio della seconda guerra mondiale – non era presente alcuna significativa differenza tra i paesi dell’Europa continentale e quelli del Sud Europa, è nel corso della fase di espansione che questi due gruppi di paesi hanno imboccato strade diverse - e che si è venuto a delineare il ritardo italiano. Nello specifico nel periodo del Trentennio glorioso, nei paesi meridionali si è andato a consolidare un sistema di protezione dualistico e polarizzato, che vede la popolazione divisa tra insiders e outsiders, soprattutto in Italia. Altresì i paesi dell’Europa meridionale presentano mercati del lavoro e relazioni familiari dall’assetto particolare rispetto a quelli che questi due elementi presentano nei paesi corporativi-conservatori. Per quanto riguarda i mercati del lavoro essi sono caratterizzate da profonde (e, potremo dire, anche storiche) fratture tanto tra settori quanto tra territori (si pensi, in quest’ultimo caso, alla spaccatura - che non ha eguali in qualsiasi altro paese occidentale - tra Nord e Sud Italia), e in aggiunta a ciò vi è il fenomeno dell’economia sommersa, piaga molto vasta e causa di un enorme danno per la società. Con riferimento invece alle relazioni familiari, nei paesi del Sud Europa queste sono molto più strette e solide rispetto a quanto accade altrove. Le relazioni tra i familiari sono, infatti, imperniate da un’essenza di solidarietà che si mantiene per tutto il ciclo di vita degli individui, e che va ben oltre i confini della famiglia nucleare. Non è, tuttavia, la disponibilità a fornire aiuto entro la parentela a essere diversa tra i vari paesi – nei paesi nordici pare perfino che tale disponibilità sia di entità superiore rispetto a quella presente nei paesi mediterranei. Ciò che, infatti, varia, in misura più o meno maggiore, passando da un paese a un altro – connotando quindi la specificità italiana - sarebbe piuttosto l’intensità dell’aiuto prestato, e se la si misura in termini di tempo dedicato a tale attività, i paesi mediterranei si collocano al primo posto (Ogg e Renaut, 2006 in Saraceno e Naldini, 2007). Questo aspetto è da imputare certamente anche alla prossimità residenziale, che permane quale fenomeno caratteristico della società italiana, in questa, infatti, molto più che negli altri paesi europei, quando si forma una nuova coppia essa tende ad andare a vivere vicino alla casa dei genitori. Nei paesi nordici invece l’aiuto entro la parentela non è fornito in modo così diretto e immediato, ma attraverso differente modalità – a distanza, ad

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esempio - e quindi è meno intenso. La disponibilità e l’intensità dell’aiuto fornito entro la rete

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