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Il welfare state italiano, come si è detto, assieme a quelli di Spagna, Grecia, Portogallo, rientra nella cosiddetta “quarta Europa sociale” (Ferrera, 2006). Si tratta, infatti, di un gruppo di paesi in cui le relative società e i corrispondenti welfare state presentano delle caratteristiche comuni e peculiari rispetto a quanto accade nel resto d’Europa, e in particolar modo, nell’Europa continentale - poiché Esping-Andersen aveva inserito l’Italia tra i regimi conservatori presenti, appunto, in tale parte

d’Europa1. Per identificare il regime di welfare proprio di tali paesi del Sud Europa si parla, quindi,

di regime mediterraneo. I paesi dell’Europa meridionale, nelle prime fasi di evoluzione del welfare state – instaurazione e consolidamento, riprendendo Ferrera - hanno seguito la via bismarckiana, vale a dire che non c’erano differenze tra i regimi di welfare di questi paesi e quelli dell’Europa continentale, durante la fase di espansione, invece, le strade di questi due gruppi di paesi si sono divise. Vediamo ora nello specifico le origini del welfare state italiano, quale inserito nel regime mediterraneo, trattandone altresì gli sviluppi fino agli anni più recenti. Per organizzare la trattazione, consideriamo quelle che sono le politiche sociali più importanti, le quali possono essere suddivise in quattro macro aree: le politiche pensionistiche, le politiche sanitarie, le politiche del

lavoro e, infine, le politiche di assistenza sociale2.

Per quanto riguarda le politiche pensionistiche, si tratta di misure che lo Stato dispone per garantire alla popolazione protezione dai rischi di vecchiaia, invalidità e premorienza. I primi schemi

1 Si rinvia al capitolo primo per un approfondimento del dibattito circa i tre o quattro regimi di welfare.

2 Delle prime tre si parlerà brevemente, soprattutto per quanto riguarda le politiche sanitarie, mentre sulle politiche di

assistenza sociale verrà condotta un’analisi più approfondita (nelle misura in cui se si considera il welfare state come composto da tre settori, vale a dire previdenza, sanità, assistenza, è su quest’ultimo che la tesi presente rivolge in modo specifico la propria attenzione - come tra l’altro si è già anticipato nell’Introduzione).

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pensionistici pubblici furono introdotti in Germania nel 1889 e in Danimarca nel 1891, e ognuno aveva come beneficiaria una specifica categoria sociale: nel primo caso gli operai industriali, mentre nel secondo gli anziani poveri. Gli schemi introdotti rispettivamente dalla Germania e dalla Danimarca alla fine del XIX secolo hanno rappresentato gli archetipi dei due modelli di tutela della vecchiaia che si sono sviluppati in tutti i paesi europei nel corso del XX secolo, vale a dire il

modello bismarckiano – origine tedesca – e il modello beveridgeano3 – origine danese. L’Italia

segue sin da subito il modello bismarckiano, introducendo nel 1919 l’assicurazione sociale obbligatoria, dunque uno schema previdenziale rivolto ai lavoratori, dapprima gli operai del settore privato, in seguito altre categorie occupazionali furono interessate da tale misura, prevedendo schemi differenziati per ognuna di esse. Durante il periodo fascista, l’impianto occupazionale/bismarckiano assunto dal sistema pensionistico venne mantenuto e consolidato. Il trentennio glorioso (1945-1975) rappresenta la fase di espansione del welfare state, e il settore pensionistico fu oggetto di numerosi e rilevanti interventi di carattere espansivo in tutti i paesi europei. Come si è visto, il secondo dopoguerra presentava, infatti, delle condizioni economiche e socio-demografiche particolarmente favorevoli per un miglioramento e un’espansione della protezione sociale: la crescita economica procedeva a ritmi sostenuti ed elevati, che nessun paese europeo aveva in precedenza conosciuto; la popolazione era caratterizzata dalla prevalenza della componente giovanile su quella anziana (ossia la struttura della popolazione aveva la tipica forma a piramide), gli anziani erano pochi e vivevano per pochi anni; la base occupazionale (quindi contributiva) era in espansione. Fu così che i governi di tutti i paesi europei, sebbene in misura variabile in ciascuno di essi, assecondarono le richieste che gruppi di pressione e partiti politici portarono avanti per l’estensione e l’irrobustimento della tutela della vecchiaia. A tal proposito emerge un aspetto caratteristico delle politiche di welfare: il fatto che in tutti i paesi, in misura più o meno evidente, rappresentano uno strumento in mano ai partiti per accrescere il proprio consenso, nella misura in cui questi ultimi sono i principali attori tanto nelle campagne elettorali quanto nella politica parlamentare, sebbene il modo con cui tale potere è gestito e utilizzato varia, anche in misura considerevole, da un paese all’altro. Durante la fase espansiva, il sistema pensionistico è stato attraversato da tre differenti linee di sviluppo: estensione della copertura alle categorie occupazionali non ancora raggiunte, creazione di una rete di protezione di base (venne introdotta l’integrazione al minimo nel 1952 e, soprattutto, la pensione sociale nel 1969 divenuta assegno sociale nel 1995), aumento della generosità tanto nell’entità delle prestazioni quanto nei requisiti

3 Il modello beveridgeano trae il proprio nome da Lord Beveridge, inglese, il quale nel 1942 pubblicò un piano di

riforma delle assicurazioni sociali britanniche, noto come Rapporto Beveridge, le cui indicazioni furono effettivamente seguite nel periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Il sistema danese del 1891 può essere definito beveridgeano, nella misura in cui ne rappresenta un precursore ante litteram.

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d’accesso che vennero ammorbiditi. Numerosi furono, quindi, gli interventi estensivi che investirono il settore pensionistico durante la fase di espansione: nel 1956 fu introdotta la pensione di anzianità - inizialmente solo per i dipendenti pubblici, successivamente fu estesa ai dipendenti del settore privato e ai lavoratori autonomi – ma soprattutto vi fu la riforma del 1969. Con essa, infatti, si passò dal metodo di calcolo contributivo a quello retributivo, quindi a pensioni più

generose, e dal sistema a capitalizzazione a quello a ripartizione4 - dopo tale riforma per avere

modifiche sostanziali si dovette aspettare la riforma Dini del 1995. La riforma del 69 costituisce una delle principali cause dell’eccezionale incremento che la spesa pensionistica conobbe negli anni seguenti, e quindi della sindrome distorsiva del welfare state italiano, dal momento che essa partorì «il sistema pensionistico più generoso, sperequato e fiscalmente irresponsabile dell’area OCSE» (Ferrera, Fargion, Jessoula 2012, p. 331). Un elemento, assolutamente indicativo di quella che era l’efficienza del funzionamento della macchina statale presente allora, è costituito dal fatto che fino alla fine degli anni Settanta nella maggior parte dei casi i vari interventi espansivi furono introdotti senza che fossero stati condotti studi e ricerche volti a stimare quello che sarebbe stato il loro impatto – che si rivelò poi negativo - nel lungo periodo sulla finanza pubblica, tenendo conto dei mutamenti demografici e dell’andamento dell’economia. Si trattò insomma di scelte politiche volte a ottenere e accrescere il consenso nel breve periodo, ma non furono delle scelte ponderate, prese coscientemente poiché non ci si interrogò su quali sarebbero stati i loro effetti. Negli anni Novanta, quando divenne palese l’insostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, a causa della crisi economico-finanziaria e del processo di invecchiamento della popolazione – aspetti entrambi più accentuati in Italia che altrove - fu finalmente chiaro a tutti quanto fosse assolutamente urgente e non più rinviabile agire con riforme strutturali così da ridisegnare l’assetto della previdenza italiana. Durante gli anni Novanta, non solo l’Italia, ma tutti i paesi europei furono costretti a intraprendere riforme del proprio sistema pensionistico per porre un freno alla crescita impetuosa che la spesa pensionistica avrebbe continuato a registrate nel lungo periodo, mettendo in tal modo a serio rischio la stabilità dei conti pubblici. L’Italia ha, in modo più deciso rispetto agli altri paesi che avevano sin dall’inizio intrapreso la via bismarckiana, optato per una transizione dal sistema mono-pilastro a ripartizione, basato su schemi pubblici, a un sistema multi-pilastro, in cui schemi pubblici a

4 Il sistema a capitalizzazione e quello a ripartizione costituiscono i due differenti metodi di gestione delle risorse

economiche prelevate per finanziare un sistema pensionistico. Nel primo caso per ciascun individuo le risorse prelevate, in genere sotto forma di contributi, vengono accumulate in conti individuali e quindi investite sui mercati finanziari, e al momento del pensionamento l’individuo ottiene quanto versato fino alla cessazione dell’attività lavorativa incrementato degli interessi maturati, in un'unica soluzione oppure sotto forma di rendita. Nel secondo caso, invece, ovvero nel sistema a ripartizione, i contributi versati da quanti lavorano sono utilizzati per finanziare immediatamente le pensioni di quanti si trovano in quel momento stesso in pensione – si tratta quindi di un sistema particolarmente sensibile alla composizione per età della popolazione e alle condizioni del mercato del lavoro, vale a dire al rapporto pensionati/occupati.

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ripartizione si combinano con schemi privati a capitalizzazione. Tale percorso di riforma si apre con la Riforma Amato del 1992, con la quale iniziarono la ristrutturazione del primo pilastro pubblico e l’avvio dello sviluppo della previdenza complementare. Fu, però, la riforma Dini del 1995 quella che modificò radicalmente la struttura del sistema pensionistico italiano, con essa, infatti, cambiò il metodo di calcolo della pensione: si passò dal retributivo – introdotto nel 1969 - al contributivo, quindi a pensioni meno generose, al fine di realizzare un effettivo risanamento della finanza pubblica. La riforma Dini, però, riversò il peso del riordino della finanza e della previdenza pubbliche sulle giovani generazioni. Il metodo di calcolo contributivo veniva, infatti, introdotto pienamente solo per coloro che sarebbero entrati nel mercato del lavoro dal 1° gennaio 1996, si applicava invece parzialmente a quanti al 31 dicembre 1995 avevano maturato meno di 18 anni di contributi (sistema pro-rata), mentre per coloro che a quella data possedevano più di 18 anni di

contribuzione si manteneva in toto il metodo retributivo5. Un tale sistema, quindi, penalizza

fortemente le giovani generazioni. Sulla base di esso infatti, chi è entrato nel mercato del lavoro dalla seconda metà degli anni Novanta andrà in pensione più tardi, con una pensione più bassa di quella cui accedono coloro che oggi vanno in pensione, e anche più incerta. Altresì il sistema introdotto dalla riforma Dini fa praticamente saltare il patto tra le generazioni insito in un sistema a ripartizione, il quale ha come assunto fondamentale quello secondo cui chi lavora oggi paga la pensione a chi ha già terminato la propria carriera lavorativa, con la promessa che quando sarà lui a essere in pensione gli sarà garantito lo stesso trattamento. Chi lavora oggi, invece, deve versare una maggiore quota del proprio reddito per pagare le pensioni a quanti sono già in pensione - i quali a loro tempo però versavano meno contributi - ma godrà di una pensione meno generosa rispetto a quelle erogate oggi (Boeri e Galasso, 2009). La riforma Dini è stata seguita nel 1997 da un’altra riforma significativa, quella del governo Prodi, il quale aveva istituito nel medesimo anno la Commissione Onofri. La riforma Prodi percepisce alcune delle raccomandazioni elaborate da tale Commissione, ma non quella più importante, vale a dire accelerare l’entrata a regime della riforma Dini, mettendo fine all’iniquità intergenerazionale. Sul punto invece è intervenuta di recente la riforma Fornero (2011), la quale prevede che dal 1° gennaio 2012 tutte le pensioni saranno calcolate con il metodo contributivo, in tal modo quest’ultimo viene esteso ai lavoratori che erano stati totalmente graziati dalla riforma Dini. Altresì la riforma Fornero ha introdotto nuovi requisiti per il

5 Nel decidere a quali categorie applicare il metodo contributivo, fu determinante l’azione che esercitarono i sindacati

(la maggioranza dei loro iscritti è composta da pensionati e lavoratori anziani), che premettero affinché venissero preservati i diritti acquisiti dalle generazioni più anziane, garantendo loro privilegi e scaricando il peso di quella riforma sui giovani. Il serio pericolo di non riuscire a far passare la riforma, e soprattutto le conseguenze negative che da ciò sarebbero derivate, costrinsero il governo ad assecondare le richieste dei sindacati.

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pensionamento flessibili e legati alla longevità, regole più semplici e uniformi tra le varie categorie

occupazionali6.

Passando a trattare delle politiche del lavoro, esse costituiscono una serie di interventi posti in essere dallo Stato per tutelare l’interesse collettivo all’occupazione. Tale scopo viene raggiunto per mezzo di tre differenti tipi di azioni: regolamentazione del mercato del lavoro, promozione dell’occupazione, mantenimento/garanzia del reddito. Le politiche del lavoro vengono convenzionalmente divise in due tipi: le politiche passive e le politiche attive. Con la prima espressione si fa riferimento alle prestazioni monetarie a sostegno del reddito nei confronti dei lavoratori laddove questi hanno perso il lavoro o il loro lavoro è stato sospeso. Le politiche attive invece possono essere considerate come delle politiche contro l’esclusione sociale, nella misura in cui sono volte a evitare che un individuo rimanga intrappolato per lungo tempo in uno stato di

disoccupazione7. Si tratta di politiche indirizzate a tutti coloro che sono alla ricerca di lavoro, quindi

sia a coloro che ne avevano uno ma l’hanno perso o lasciato e sono alla ricerca di uno nuovo, sia a coloro che non hanno mai lavorato - come i giovani, ma anche le casalinghe - e si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, così da incrementare le loro opportunità di avere successo in tale ricerca. Rientrano quindi in tale tipo di politiche del lavoro la presenza diffusa sul territorio di efficienti servizi pubblici per l’impiego, tirocini, alternanza scuola-lavoro, corsi di riqualificazione professionale così da favorire il reinserimento di chi ha perso il lavoro, corsi di formazione continua e di orientamento, obbligo per il disoccupato di inserimento nei programmi di ricerca (Reyneri, 2011). Al fine di illustrare l’evoluzione delle politiche del lavoro in Italia, è opportuno partire dal considerare che ogni paese europeo presenta un sistema di ammortizzatori sociali, vale a dire di garanzia del reddito per i disoccupati, che si compone di tre pilastri: il pilastro assicurativo (quindi le indennità di disoccupazione, cui si accede in base al versamento di una certa quota di contributi), il pilastro assistenziale “dedicato” (quindi i sussidi di disoccupazione, finanziati dalla fiscalità generale), il pilastro assistenziale “generale” (quindi una rete di protezione di ultima istanza, non specificatamente rivolta ai lavoratori, finanziata anch’essa dalla fiscalità generale) (Ferrera, 2006). L’Italia introdusse l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione nel 1919, in tal senso fu il primo paese a seguire l’esempio dell’Inghilterra. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, le politiche del lavoro non furono interessate da alcun altro intervento significativo. Negli anni Quaranta venne istituita la Cassa integrazione guadagni (CIG). Si tratta di un istituto che demarca la particolarità del sistema italiano di garanzia del reddito dei disoccupati - nella misura in cui esso

6 Il troppo rapido passaggio al nuovo sistema ha, però, creato dei problemi, come quello degli esodati, vale a dire coloro

rimasti senza reddito da lavoro e senza pensione.

7 Le politiche del lavoro sono dunque diverse dalle politiche del mercato del lavoro. Queste ultime, infatti, in un certo

senso sono delle politiche economiche, o comunque sono strettamente legate a queste, dato che si occupano della regolamentazione e della promozione dell’occupazione tramite la creazione di nuovi posti di lavoro.

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non ha eguali in Europa - e che ha sempre occupato una posizione di grande importanza, e di cui spesso si è ampiamente abusato. Negli anni Settanta e Ottanta si vanno a delineare taluni aspetti che resero il modello italiano di protezione del rischio di disoccupazione del tutto peculiare rispetto a

quelli identificabili sul piano empirico8. Durante tale periodo, infatti, anziché rafforzare l’indennità

di disoccupazione, nella sua generosità (quindi entità e durata), si preferì dirigere consistenti investimenti sulla CIG, che perse la sua natura di misura transitoria e circoscritta per divenire uno dei principali schemi assicurativi di disoccupazione. Nel medesimo lasso di tempo, l’Italia non riuscì a sviluppare accanto al pilastro assicurativo, i due assistenziali, vale a dire ad introdurre sussidi di disoccupazione per coloro che non hanno i requisiti per accedere al primo pilastro o che hanno perso il diritto all’indennità senza aver trovato un nuovo lavoro. La CIG rappresenta una misura di integrazione del reddito non a carattere universalistico, nella misura in cui è destinata solo a determinate categorie di lavoratori e a certi tipi di imprese. Tale schema, infatti, è volto alla conservazione del posto di lavoro nelle imprese medio-grandi che si trovano a dover affrontare un

periodo transitorio di difficoltà9 – tant’è che i cassaintegrati giuridicamente e statisticamente

risultano occupati. Il tessuto produttivo italiano però si compone per la stragrande maggioranza di piccole e piccolissime imprese, spesso a gestione familiare, che non hanno alcuna possibilità di accedere alla CIG e che sono anche quelle più deboli e sensibili all’andamento generale dell’economia. Tant’è vero che con la crisi del 2008, per contenerne gli effetti devastanti per il mercato del lavoro, e quindi un forte aumento dei lavoratori disoccupati, si è deciso di introdurre la CIG in deroga, vale dire di estenderla anche alle piccole imprese, che non avevano contribuito a

finanziarla10, tramite il ricorso a fondi pubblici, regionali o europei. L’Italia possiede un sistema di

ammortizzatori sociali che si presenta come il meno generoso d’Europa, inadeguato per affrontare e gestire le trasformazioni economiche e socio-demografiche in atto, con un tasso di copertura – rapporto tra beneficiari e persone in cerca di lavoro - anch’esso molto più basso che negli altri paesi europei (Reyneri, 2011). Ricordiamo a tal proposito che Italia, Grecia e Ungheria sono i soli paesi della UE27 a non prevedere un reddito minimo garantito. Tale grave mancanza del welfare state italiano risulta particolarmente penalizzante per i giovani alla ricerca di primo impiego, laddove il fenomeno della disoccupazione giovanile costituisce ormai un’emergenza sociale vera e propria, ostacolando l’uscita dalla casa dei genitori – tant’è che si parla di “sindrome del ritardo” (Livi

8 I modelli di tutela del rischio disoccupazione oggi identificabili sul piano empirico sono quattro e si articolano lungo

un pilastro assicurativo e due assistenziali, uno dedicato e uno generale: scandinavo, anglosassone, continentale, iberico. L’Italia non rientra in nessuno di questi quattro (Ferrera, 2006).

9 In molti casi, però, la CIG ha funzionato come strumento di sostegno al reddito per lavoratori di imprese destinate a

non riprendere più la loro attività. In tal senso si è abusato di tale schema, a fronte della mancanza di adeguati ammortizzatori sociali.

10 La CIG è finanziata principalmente dallo Stato, ma è prevista anche una compartecipazione delle imprese medio-

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Bacci, 2008) - e quindi il raggiungimento di una propria indipendenza, con tutte le ricadute sociali, demografiche, economiche e anche psicologiche che tale fatto può comportare. Non si deve infatti dimenticare un aspetto fondamentale: il successo individuale nel processo di transizione alla vita adulta ha un impatto sul futuro e sul successo della società nel suo complesso.

Nei primi anni Ottanta, per affrontare il calo dell’occupazione conseguente ai processi di ristrutturazione industriale, avviati a seguito degli shock petroliferi del decennio precedente, vennero introdotti i prepensionamenti. Alla fine del medesimo decennio l’indennità di disoccupazione venne ancorata a una quota percentuale del reddito - mentre prima era corrisposta in forma forfetaria - e venne introdotta l’indennità ordinaria di disoccupazione a requisiti ridotti. Nei primi anni Novanta, sotto la pressione della crisi economico-finanziaria, si tentò di riportare la CIG alla sua natura originaria, vale a dire un ammortizzatore sociale previsto in situazioni temporanee di eccedenza del personale, tramite l’introduzione dell’indennità di mobilità. Tale tentativo, però, fallisce, a causa dei provvedimenti successivi, che hanno nuovamente esteso il campo di applicazione della CIG e che ne hanno prolungato la durata, vanificando in tal modo le potenzialità di quell’intervento di razionalizzazione.

Per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, esse sono assenti fino almeno alla fine degli anni Settanta, così come servizi e competenze professionali per la promozione dell’occupazione. Anzi l’azione del legislatore in tale campo si sviluppa praticamente solo a partire dai decreti del 1997, poiché nella restante parte di quel decennio e in quello precedente avevano visto la luce solo iniziative particolari, private e locali. Sul fronte della regolazione del mercato del lavoro, negli anni Ottanta ebbe inizio un processo di parziale liberalizzazione delle condizioni di accesso nel mondo del lavoro. Un tale percorso fu intrapreso in quel decennio da tutti i governi europei per affrontare

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