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Una delle trasformazioni epocali che si sono avute negli ultimi decenni, e che hanno determinato un cambiamento nelle modalità di funzionamento della società, così come nel modo di essere delle persone, nella misura in cui è cambiato il modo di percepire lo spazio e il tempo, è rappresentata dalla globalizzazione, la quale è uno dei fattori più significativi che contribuiscono alla crisi del welfare state. Il termine è uno dei pochi che sono utilizzati in modo omogeneo per indicare fenomeni di portata mondiale, e fu coniato probabilmente dall’economista americano Th. Levitt nel 1983, ma il suo successo si deve al giapponese K. Ohmae, che pochi anni dopo lo utilizzò nei suoi lavori sulle strategie delle imprese multinazionali. Quello di globalizzazione è certamente un termine che ha conosciuto una rapida diffusione, divenendo uno dei termini più importanti con cui descrivere la società contemporanea. Esso, infatti, sebbene sia nato all’interno della riflessione sull’economia, ha ben presto superato tali confini per entrare nel vocabolario di tutte le scienze storico-sociali. Quando si parla di globalizzazione si fa riferimento a una gamma ampia e composita di aspetti, tra loro strettamente intrecciati, che rappresentano un tratto caratteristico della contemporaneità, e che nel loro operare hanno determinato un’integrazione economica, sociale e culturale tra le varie parti del mondo. In quanto tale si tratta di un fenomeno che richiede il concorso di differenti discipline affinché possa essere analizzato in tutta la sua complessità, così da evitare letture riduttive e superficiali. La globalizzazione costituisce un processo di riorganizzazione produttiva – resa possibile dallo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione e circolazione delle informazioni - che ha inaugurato una nuova fase del capitalismo, ossia quella del capitalismo

reticolare, in cui è stata costruita una catena globale di creazione del valore7, i cui anelli sono sparsi

ovunque nel mondo (Gallino, 2009). Si tratta, quindi, di un processo che coinvolge molteplici e diversificati aspetti: la produzione e la vendita di beni e servizi, il movimento di capitali, gli spostamenti delle persone, le mode e gli stili di vita, i problemi ambientali e di altro tipo, sono tutti elementi che ormai hanno assunto un orizzonte globale. Insomma la caratteristica principale della nuova società globale è l’interdipendenza, e quella della rete è un’immagine che bene rende tale aspetto. È utile non dimenticare che la globalizzazione non è qualcosa che, diciamo, è sopraggiunto all’improvviso e inaspettatamente, nel senso che si è rivelato come esito di una evoluzione lasciata a se stessa. Si tratta, piuttosto, di un qualcosa che è stato perseguito, o quanto meno favorito,

7 Il costituirsi di una rete globale della produzione di beni e servizi, in cui ogni impresa è un nodo, e in quanto tale

dipende dalle altre che compongono la rete sotto molteplici aspetti (commesse, decisioni, prezzi, tempi, etc.), ha reso necessario, meglio indispensabile, l’avvento della flessibilità, così da ridurre i rischi dell’interdipendenza e permettere all’impresa di adeguarsi nell’immediato a quanto deciso, richiesto dalle altre cui è legata. In tal senso Gallino (2009, p. 37) sostiene che «la flessibilità è figlia primogenita della globalizzazione».

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legittimato, accompagnato, più o meno intenzionalmente, tramite decisioni politiche decise e consapevoli.

L’avvento delle ICTs, vale a dire le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha completamente rivoluzionato le modalità di trasmissione delle informazioni, le quali hanno assunto una prospettiva globale. A tal proposito è opportuno, tuttavia, sottolineare un aspetto molto importante: la diffusione delle ICTs non è iniziata nello stesso tempo in tutti paesi e non ha conosciuto ovunque il medesimo andamento. La stessa dinamica la ritroviamo all’interno di ciascun paese. Certi gruppi sociali, certe aree territoriali hanno conosciuto prima di altri l’arrivo delle nuove tecnologie, potendo così trarne i corrispondenti vantaggi. In Italia si sono registrati, e si registrano tuttora, entrambi questi processi. L’avanzamento del progresso tecnologico ha così prodotto tra le varie parti del mondo, ma anche all’interno di una stessa società tra gruppi sociali diversi, nuove forme di diseguaglianze sociali o comunque ha accentuato quelle preesistenti. Si parla a tal

proposito di digital divide8, che contrappone gli information have e gli information have nots, vale a

dire i connessi e i disconnessi (Bentivegna, 2006). Le ICTs, infatti, sono strettamente legate alle disuguaglianze sociali esistenti e sono potenzialmente in grado di acuirle. Il legame tra inclusione/esclusione digitale da un lato e inclusione/esclusione sociale dall’altro appare quanto mai forte ed è confermato da numerose ricerche (Bracciale, 2010). Tale legame sta a significare che «i diversi esiti del processo di radicamento sociale delle nuove tecnologie […] si traducono in un potente amplificatore dei meccanismi di inclusione/esclusione sociale» (Ibidem, p. 19).

Se le ICTs hanno facilitato gli scambi comunicativi tra differenti parti del globo, il miglioramento dei mezzi di trasporto ha semplificato il movimento delle persone, così come delle merci: le distanze fisiche sono state praticamente annullate. Oltre a tali aspetti positivi, la globalizzazione porta con sé anche conseguenze più o meno negative. Con la globalizzazione, infatti, si realizza una diffusione planetaria non solo degli effetti positivi, favorevoli di certi fatti e eventi, ma anche di quelli negativi. In un sistema interdipendente, se una parte subisce un danno, ciò si ripercuote negativamente anche su tutte le altri parti e sul sistema nel suo complesso, comportando una modifica dell’equilibrio preesistente, che dovrà essere in qualche modo ristabilito. Così un evento

8 Di recente si è riscontrato un cambiamento nell’interpretazione dei problemi legati allo sviluppo e alla diffusione delle

ICTs. Se è vero che è in atto una chiusura della forbice tra connessi e disconnessi, grazie alla diffusione di Internet (cui ha dato un notevole contributo l’entrata nel mercato degli smartphone, così come il wifi), ciò non significa che le differenze tra i vari segmenti della popolazione si siano ormai quasi annullate. Questa è una conclusione troppo ottimistica, cui si approda se si considera la sola dimensione dell’accesso (l’essere connessi o no), ma l’avere una connessione ad Internet da casa non comporta assolutamente la capacità di usare le nuove tecnologie e di rendere l’uso di quelle una pratica sociale significativa nella propria vita quotidiana. L’elemento cruciale di differenziazione tra i vari gruppi sociali, dunque, non sarebbe più costituito dall’accesso materiale alla rete, quindi dall’avere o meno una connessione a Internet, ma dal «cosa fanno le persone, e cosa sono capaci di fare, quando si connettono» (DiMaggio e Hargittai, 2001 p. 4 in Bracciale, 2010). Si passa così a una visione multidimensionale del problema delle diseguaglianze digitali: se inizialmente si considerava la sola dimensione dell’accesso, adesso si considera anche quella delle competenze (cosa sanno fare le persone quando sono online) e quella dell’uso (cosa fanno).

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potenzialmente negativo che si verifica in una qualche località del globo, non rimane circoscritto entro i confini di quella, nella misura in cui può oltrepassarli e proiettarsi su di un orizzonte globale, con effetti che si riversano su altre località, magari distanti milioni di chilometri. Si pensi alla crisi finanziaria scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti, che si è espansa in tutto il mondo, soprattutto in Europa, in cui è arrivata pienamente nel 2008, e che nel suo procedere si è trasformata in una crisi economica e fiscale, e in quanto tale ha contribuito a peggiorare ulteriormente la crisi del welfare state. Non sono solo gli effetti di certi eventi economici, tuttavia, a conoscere una diffusione globale, dal momento che anche le catastrofi ambientali ne sono interessate. Tant’è che gli effetti di queste ultime non rimangono confinati laddove hanno avuto luogo, ma si espandono potenzialmente a tutto il mondo. Se ne deduce quindi che la globalizzazione comporta dei rischi, e soprattutto comporta una perdita da parte dell’individuo del controllo sulla propria vita, poiché quest’ultima può venire sconvolta da un momento all’altro da parte di eventi del tutto imprevedibili, che magari hanno origine dall’altro capo del mondo. Ne deriva dunque un senso di incertezza e insicurezza che connota l’attuale fase storica. «La globalizzazione ci pone di fronte a una forma di economia in cui la “produzione di incertezza” sembra essere una condizione costitutiva della “produzione di ricchezza”» (Ampola e Corchia, 2010, p. 228).

Il problema che la globalizzazione pone nel caso del welfare state – ma non solo di questo – ha a che fare con la perdita di sovranità degli Stati nazionali, a causa del diffondersi di attori transnazionali, e nello specifico delle imprese multinazionali. Queste ultime hanno come caratteristica peculiare il fatto che sono extra-territoriali, nella misura in cui non sono localizzate in un unico Stato, ma in una pluralità di Stati, il che permette loro di sottrarsi al controllo statale, e soprattutto all’imposizione fiscale, costituendo dunque una perdita più o meno grave per i vari Stati con cui hanno a che fare, nella misura in cui il gettito fiscale si riduce. Le imprese multinazionali, infatti, producono i vari componenti in diversi paesi, li assemblano in un secondo, e uno degli scopi principali della globalizzazione è «quello di sottrarre un tratto il più lungo possibile del processo produttivo alle condizioni di lavoro predominanti nei paesi industriali avanzati» (Gallino, 2009, p. 38), i quali prevedono: legislazione negoziata sul lavoro che fissa orari e retribuzioni, tutela dei diritti del lavoratore, vincoli ai licenziamenti, contrattazione collettiva in cui sindacati e associazioni imprenditoriali si confrontano per la regolamentazione delle condizioni di lavoro, costituendo così il sistema di relazioni industriali.

La produzione viene, quindi, dislocata laddove è più conveniente produrre, vale a dire nei paesi in via di sviluppo e nei paesi emergenti (principalmente nel Sud-Est asiatico e nell’area della ex Urss), perché il costo del lavoro è più basso e non esiste una legislazione sul lavoro, cosicché l’opulenza delle popolazioni occidentali si erige vergognosamente sullo sfruttamento di un’altra parte del

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mondo. Tant’è vero che in molti studi sulla globalizzazione prende corpo l’ipotesi di un nuovo processo di polarizzazione di classe che interessa l’intero globo, attraversandolo da un capo all’altro (Barazzetti, 2007). Se la produzione è collocata in un dato paese, la vendita è in un secondo, mentre la sede legale dell’impresa è in un altro ancora. Questa frammentazione su scala globale del processo produttivo permette alle imprese transnazionali, o multinazionali, di sfuggire al controllo statale, tassazione in primis. Altresì all’interno di una tale produzione globale, da loro creata e controllata, le imprese multinazionali sceglieranno di premiare – stabilendovi la produzione, la sede fiscale, gli investimenti – quegli Stati che offrono condizioni fiscali più convenienti e condizioni infrastrutturali più vantaggiose, e di punire invece quelli che all’opposto impongono tasse più elevate e sono ostili agli investimenti. In tal modo tra Stati e imprese transnazionali si va a delineare un gioco di favori reciproci, gioco che però, si badi bene, è gestito dalle seconde, e in cui i primi cercano, diciamo così, “di farsi belli” - ad esempio abbassando le tasse su alti redditi, capitali, attività imprenditoriali - per attirare o trattenere i colossi dell’economia globale, così da riuscire a reggere ad una sempre più agguerrita concorrenza mondiale. Questo “svendersi” dello Stato, però, non è altro che un segno eclatante della fase di declino in cui sono entrati gli Stati nazionali, i quali si trovano a dover fare i conti con una drammatica perdita di sovranità, sempre più incapaci di valere in un mondo globalizzato in cui sono le imprese multinazionali a farla da padrone. Si tratta di strategie, che sono effetto di precise scelte politiche, che sono indirizzate più alla competizione che alla cooperazione. Certo è che, se effettivamente è possibile riscontrare una tendenza ad agire in questo modo, non tutti gli Stati adottano la medesima strategia, laddove innumerevoli sono i fattori (economici, sociali, culturali) che possono influenzare la strada da seguire.

Se nel corso dell’Ottocento, e ancora di più del Novecento, gli Stati nazionali erano in grado di controllare, regolare, modificare efficacemente il flusso di scambi con l’ambiente, quindi il commercio estero, vale a dire una situazione in cui i confini nazionali erano presieduti dagli Stati e erano oltrepassati solo da ciò cui lo Stato dava il permesso, nel sistema economico transnazionale

tale capacità è fortemente compromessa9. Nell’attuale capitalismo globale, infatti, il rapporto tra

politica e economia si è ribaltato: gli Stati nazionali hanno perso il potere con cui fino a qualche decennio fa dirigevano gli scambi con l’esterno, e sono divenuti succubi dei mercati: «oggi sono piuttosto gli stati ad esser inseriti nei mercati piuttosto che le economie nazionali a essere inserite nelle frontiere di stato» (Habermas 1999, in Ampola e Corchia, 2010 p. 228). Se lo Stato nazionale, essendo uno stato territoriale, esercita la propria azione amministrativa e giudiziaria al di qua dei confini del territorio nazionale, ben poco può fare di fronte a attori extra territoriali, quali le imprese

9 Tale capacità era tuttavia dipendente da ciascun stato, e dal ruolo e dal potere che esso deteneva nello scacchiere

internazionale. Elementi fondamentali in tal senso era costituiti dalla divisione del mondo in due distinte e contrapposte zone di influenze, così come dai rapporti coloniali e post coloniali.

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multinazionali, che per loro natura vanno al di là di quei confini. Quello che interessa sottolineare ai fini del presente lavoro è che se i programmi di welfare hanno un carattere fortemente nazionale, con l’avvento della globalizzazione e delle imprese multinazionali che sfuggono all’imposizione fiscale, allo Stato viene a mancare una consistente quota di risorse. Il che ha come conseguenza il fatto che ad essere messa in discussone è la stessa sostenibilità finanziaria del welfare state. In uno scenario in cui «le imprese possono produrre in un paese, pagare le tasse in un altro e in un terzo richiedere contributi statali in forma di interventi infrastrutturali» (Beck, 1999, p.17), emerge un preoccupante gap nei conti pubblici, vale a dire un dislivello tra entrate fiscali e risorse necessarie per finanziare le politiche sociali. La crisi del welfare state indotta dalla globalizzazione consiste, dunque, nel fatto che da un lato si riducono le risorse disponibili, a causa del ridimensionamento delle entrate fiscali, ma dall’altro aumentano le risorse necessaire, per via del dilagare della disoccupazione strutturale e dell’espandersi dell’area della vulnerabilità e dell’esclusione sociale, con un incremento dei livelli di diseguaglianza. In un tale scenario «si infrange l’alleanza storica tra economia di mercato, Stato sociale e democrazia, che finora ha integrato e legittimato il progetto della modernità, basato sullo Stato-nazione» (Beck, 1999, p.21). Con la globalizzazione la crescita economica si denazionalizza, oltrepassa i confini degli Stati nazione, sfuggendo al loro controllo, ma le sue conseguenze sociali, più o meno gravi - vale a dire disoccupazione, migrazioni, povertà - sono nazionalizzate e si riversano entro i confini degli Stati nazione. Questi ultimi devono in qualche modo affrontarle per preservare la tenuta della coesione sociale, con un welfare state che però ha proprio nella globalizzazione una delle cause principali della riduzione delle risorse disponibili. C’è, tuttavia, da sottolineare che è difficile stabilire quanto di tale scarsità di risorse sia responsabile l’azione dei governi, costretti a prendere determinate decisioni politiche per far fronte alla crisi, e quanto lo sia invece la globalizzazione in sé, anche se certamente quest’ultimo è un elemento che ha un peso rilevante. È quello che Beck definisce «il paradosso della politica sociale nell’era della globalizzazione», vale a dire che «lo sviluppo economico si sottrae alla politica nazional-statale, mentre i problemi che ne conseguono si raccolgono nelle reti dello Stato nazionale» (Ibidem, p. 183), con il rischio dello scoppio di conflitti sociali.

Come si vede dal Grafico riportato di seguito, che illustra le tendenze della spesa pubblica in alcune economie avanzate nel periodo 2008-2015, solo per gli Stati Uniti si prevede un trend in risalita. Per paesi come Germania, Francia, Gran Bretagna le proiezioni indicano una riduzione della spesa pubblica, che invece si dovrebbe mantenere abbastanza stabile in Svezia. Per quanto riguarda il dato medio europeo, si prevede un trend in discesa.

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Grafico 4. Trend spesa pubblica in alcune economie avanzate. 2008-2015 (per cento PIL). Fonte: Gough (2011).

In conclusione di questa parte dedicata alla globalizzazione, per sottolineare come essa sia ambigua, e potenzialmente fuori controllo, nei suoi effetti, così come il suo procedere liberamente, senza un controllo superiore, possiamo affermare che essa significa anche «non-Stato mondiale. Meglio: società mondiale senza Stato mondiale e senza governo mondiale. Si espande un capitalismo globale dis-organizzato, perché non ci sono una potenza egemone e un regime internazionale, né economico né politico» (Beck, 1999, p. 26, corsivo dell’Autore).

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