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La crisi europea del debito: la relazione tra moneta unica e fiscalità 20

1. B REVE S TORIA D ELLA F ISCALITÀ E UROPEA 1

1.3. La crisi europea del debito: la relazione tra moneta unica e fiscalità 20

quadro storico predisposto, è necessario approfondire la relazione tra moneta unica e fiscalità in ragione dell’importanza che tale rapporto riveste nell’indurci a considerare la possibilità di adottare un sistema fiscale comune, almeno per i paesi dell’Eurozona.

Già in tempi non recenti il progetto europeo prevedeva un adattamento monetario e fiscale, alla luce della relazione privilegiata di tali settori i quali formano un binomio consolidato che, in mancanza di uno dei due fattori, non permette il corretto funzionamento dell’altro.

Ciò è risultato quanto più evidente nel decennio passato ove la crisi del debito non ha fatto altro che evidenziare le gravi lacune del sistema europeo complessivamente considerato. Non tanto per la mancanza di misure o politiche orientate a salvaguardare la popolazione del continente quanto per l’impossibilità di controllare la spesa pubblica a livello centrale, come invece accade per quanto riguarda le politiche monetarie.

La crisi europea del debito affonda, dunque, le sue radici nell’evoluzione dell’Unione stessa che, pur avendo perseverato nel progetto europeo per sessant’anni – partendo dalla firma dei Trattati di Roma –, non è stata in grado di portarlo a compimento subendo un rallentamento decisivo in occasione prima dei lavori preparatori e poi della mancata ratifica della cd. Costituzione europea a seguito dello stop imposto dalla vittoria del no ai referendum in Francia e nei Paesi Bassi.

È bene proseguire con ordine. L’Europa è sempre stata caratterizzata da guerre territoriali e da barriere commerciali, tariffe e valute diverse. Ciò comportava difficoltà intrinseche negli scambi commerciali tra i diversi Stati. Basti pensare che per l’acquisto di un bene fuori dal territorio nazionale era necessario il pagamento di una commissione per il cambio di valuta e, in seguito, di un dazio doganale per l’acquisto della merce prodotta dall’azienda estera; risultano, dunque, lampanti le difficoltà commerciali derivanti dai confini tradizionalmente intesi con tutte le conseguenze che essi comportano, in particolare una stagnazione dell’economia

ovvero l’inefficienza della stessa. A tale situazione si aggiunse il dramma della seconda guerra mondiale che lasciò il continente nella distruzione più assoluta. Proprio a causa della situazione disperata in cui tutti gli Stati europei si trovavano, si comprese che l’unico modo per risollevarsi era legato all’abbattimento delle frontiere sopra menzionate. Dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (CED) e della Comunità Politica Europea (CPE), che non furono mai create per problemi interni ai paesi europei, si arrivò alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che nacque con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951 su iniziativa dei politici francesi Jean Monnet e Robert Schuman (il cosiddetto Piano Schuman o dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950), con lo scopo di mettere in comune le produzioni di queste due materie prime in un’Europa di sei paesi: Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.

In questo modo, seguendo il ragionamento di cui supra, il produttore di acciaio o di carbone di un paese partecipante all’accordo poteva scambiare questi beni con il costruttore di un altro paese della comunità senza incorrere in alcun dazio doganale ma solo nella commissione per il cambio di valuta. Da ciò si fece largo l’idea che il momento fosse opportuno per abbandonare tutti quegli ostacoli che fino a quel momento avevano contribuito effettivamente alla stagnazione dell’economia dei paesi appartenenti al vecchio continente. L’obiettivo fu quindi quello di abbattere le barriere che ostacolavano il commercio abbassando, di conseguenza, il costo degli scambi transnazionali. L’ultima di queste barriere fu il muro di Berlino che con il suo crollo permise la riunificazione della Germania e di conseguenza l’accelerazione del compimento del processo europeo. Ventisette paesi europei firmarono, infatti, il trattato di Maastricht creando l’Unione europea e rendendo ancora più semplici gli scambi commerciali transnazionali; l’unica barriera ancora in piedi rimaneva la differenza delle valute adottate da ciascun singolo Stato. Dieci anni dopo Maastricht, venne adottata la moneta unica: l’Euro, che ha permesso di raggiungere ulteriori vette di collaborazione e crescita economica. Così facendo ogni Stato partecipante alla cd. Area Euro (composta dai paesi che adottano la moneta unica) abbandonò, oltre alla propria moneta, anche la propria politica monetaria delegando tale attività all’istituzione centralizzata

appena creata: la Banca Centrale Europea (BCE). Ciò ha permesso all’Area Euro di avere una politica monetaria comune pur mantenendo ciascuno la propria politica fiscale. Tale discrasia tra politica monetaria e politiche fiscali è stata sicuramente una causa della crisi del debito di cui stiamo trattando e una delle ragioni che ci impongono di considerare concretamente l’implementazione di una effettiva politica fiscale comune.

È appena il caso, dunque, di approfondire le differenze tra le due politiche: monetaria e fiscale, soffermandosi parimenti sui rispettivi punti di contatto.

La politica monetaria, in estrema sintesi, controlla l’emissione di valuta ovvero la quantità di moneta in circolazione nel sistema economico così come i tassi di interesse applicabili ai mutui.

La politica fiscale, invece, controlla l’ammontare delle imposte raccolte dal governo così come la spesa pubblica ad esse collegata. In linea teorica infatti un governo potrebbe spendere solo quanto raccolto mediante le tasse imposte. Tutto quello che eccede tale ammontare deve, perciò, essere preso in prestito dando origine a ciò che è conosciuto come deficit pubblico o disavanzo pubblico (deficit spending).

Ciò premesso si deve dar conto che prima dell’introduzione della moneta unica alcuni Stati come, ad esempio, la Grecia non solo subivano l’applicazione di un alto tasso di interesse per ottenere prestiti a supporto della spesa pubblica ma sottostavano anche a limitazioni relative all’ammontare del prestito che poteva essere concesso. Con l’introduzione dell’Euro, però, anche i paesi più piccoli che adottavano la moneta unica hanno avuto la possibilità di ottenere prestiti maggiori e a tassi inferiori di quelli praticati in precedenza. Ciò perché la partecipazione alla zona euro implicava la credenza negli investitori che qualora il paese più piccolo non avesse potuto far fronte al pagamento degli interessi, gli altri Stati della zona euro – e in particolare la Germania – avrebbero compensato o garantito tale debito in forza del fatto di essere legati da una moneta comune.

In questo modo le economie più deboli in seno all’Europa hanno aggiustato la propria spesa pubblica sulla base di un aumento del debito che il nuovo assetto permetteva di ottenere, impensabile prima dell’unione monetaria, investendo il

surplus in politiche basate interamente sul nuovo deficit pubblico maggiorato: come le politiche occupazionali e pensionistiche.

Così facendo le economie di alcuni paesi accumulavano nuovi debiti che erano in grado di pagare utilizzando lo stesso meccanismo di indebitamento atto a sostenere il deficit pubblico. Così, in un meccanismo circolare, fino a quando la disponibilità di prestito era disponibile parimenti continuava la spesa. In questo modo, circolando il credito e il debito in modo transnazionale l’economia europea divenne sempre più intrecciata. Questo schema continuò la sua espansione fino a quando il sistema creditizio era propenso alla concessione dei prestiti e ciò, come noto, cessò con la crisi del 2008 che, originata dalla bolla finanziaria sugli immobili negli Stati Uniti, finì per investire le economie di tutto il globo portando all’arresto del sistema creditizio.

Ciò ha avuto evidenti ripercussioni sullo schema di prestiti appena illustrato il quale ha portato le economie più deboli ad uno stallo ove, non potendo più ricorrere al credito e dovendo fare affidamento esclusivamente sulle entrate fiscali a propria disposizione, non avevano più la possibilità di mantenere la spesa pubblica in deficit pagando contemporaneamente gli interessi sul debito accumulato. La Grecia è forse l’esempio dove appaiono più lampanti le difficoltà che, a causa della politica monetaria comune, si sono propagate, in seguito, al resto dei paesi della zona euro. In definitiva, come per l’effetto domino, i paesi in difficoltà si sono rivolti alla Germania, quale economia più forte e stabile in Europa, per far fronte agli impegni assunti nel periodo pre-crisi. Di fatto, al fine di fronteggiare una delle peggiori crisi economiche della storia moderna, la Germania ha accettato di supportare le economie in difficoltà in cambio dell’adozione, da parte delle stesse, di misure di austerità atte a riformare il sistema in funzione fino a quel momento, con lo scopo di assicurarsi l’irripetibilità di tale situazione. Tali riforme consistono, in primis, in un taglio della spesa pubblica ma anche limiti alla possibilità di accendere prestiti così come il pagamento di quote maggiori di debito. Ciò ovviamente non risulta essere impresa da poco, in ragione del fatto che i tagli alla spesa pubblica comportano anche conseguenti tagli agli stipendi e in generale una diminuzione del benessere del paese. In questo senso ciò influisce direttamente anche

sull’ammontare delle disponibilità finanziarie proprie dello Stato che sono principalmente collegate alle imposte le quali, essendo proporzionali al reddito percepito da ciascun cittadino, andranno, conseguentemente, a diminuire. Se si aggiunge una considerazione sulle differenze cultural-fiscali tra i diversi paesi europei si comprende come il problema non può che risultarne acuito essendovi alcuni paesi che riescono a riscuotere le tasse imposte nella loro (quasi) totalità mentre altri paesi riscontrano, per i più svariati motivi, un’evasione maggiore che non permette loro di riscuotere in maniera efficace le tasse imposte ai propri cittadini, risultando un grave ammanco per l’erario.

Anche se le misure predisposte in questi anni hanno potuto evitare, per il momento, l’implosione dell’economia europea, per lo stato di attuazione del programma di “unione” non vi è garanzia che ciò non si verifichi successivamente. Questa considerazione ci porta dunque alla questione principale dell’odierna trattazione: può un’unione fiscale, combinata all’unione monetaria, prevenire un’ulteriore crisi del debito ed, eventualmente, condurre l’Unione europea a rafforzare ulteriormente la propria economia non solo per offrire un maggior benessere e sicurezza ai propri cittadini ma anche per competere a livello mondiale con le potenze economiche emergenti?

Una istituzione fiscale europea centralizzata permetterebbe in definitiva di implementare, legiferando in tal senso, politiche vincolanti per tutti i paesi dell’euro zona tagliando, per esempio, la spesa pubblica ma anche aumentando il prelievo fiscale qualora se ne presentasse la necessità e, in definitiva, permetterebbe una maggiore convergenza delle economie europee fino a giungere a standard omogenei su tutto il continente evitando così la presenza di economie “deboli” che potrebbero innescare nuovamente processi di implosione economica. Tale decisione, però, risulta assai complessa sol considerando che ciò comporterebbe la rinuncia di una grossa componente della sovranità statale, vale a dire, la più antica espressione dello ius imperii: le imposte. Di fatto, se i singoli Stati perdessero il potere di determinare le politiche fiscali per il proprio stesso sostentamento, si potrebbe affermare di essere in presenza non di una moltitudine di Stati indipendenti ma di una vera e

propria unione federale di Stati ovvero, come molti hanno ipotizzato e auspicato, giungerebbe il momento degli Stati Uniti d’Europa.

Una scelta in un senso o nell’altro risulta, peraltro, impellente come dimostrato dal “White Paper on the future of Europe”34 pubblicato il 1° marzo 2017 in vista

del sessantesimo anniversario della firma dei trattati di Roma.

34 European Commission, White Paper on the future of Europe: Avenues for unity for the EU at 27,