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CAPITOLO II Business e Cultura: trattative commerciali e marketing

3.4 Critica all’essenzialismo: verso un discorso critico cosmopolita

I modelli presentati, e di conseguenza quelli ad essi ispirati, sono stati oggetto di numerose critiche. La principale, indirizzata prevalentemente a Geert Hofstede, ma che può essere estesa ai modelli di Hall e Trompenaars e Hampden-Turner, è di aver contribuito a diffondere una visione essenzialista fondata sull’idea che i valori, fulcro della cultura, siano stabili, immutabili e condivisi da un determinato gruppo-nazione. Hofstede28sostiene infatti:

“Culture change can be fast for the outer layers of the onion diagram, labeled practices. Practices are the visible part of cultures. New practices can be learned throughout one’s lifetime […] Culture change is slow for the onion’s core, labeled values. As already argued, these were learned when we were children, from parents who acquired them when they were children. This makes for considerable stability in the basic values of a society, in spite of sweeping changes in practices”

La cultura viene pertanto concepita su diversi livelli, ciascuno dei quali ha una propria autonomia. Lo strato più esterno (pratiche) è considerato mutabile laddove quello più interno (i valori) è sostanzialmente stabile. Tuttavia, le ricerche degli ultimi anni dimostrano come sia impossibile concepire la cultura come un elemento concreto ed immutabile. Studiosi come Lockhart, Thompson ed Ellis sostengono infatti che essa sia in continuo divenire e che solamente perché si tratta di elementi “profondi” non significa che siano statici 29 (Si veda quanto discusso nel paragrafo 1.5 in relazione al

modello DMIS di Milton Bennett).

Nonostante Hofstede, Hall, Trompenaars e Hampedn-Turner, dimostrino un grande rispetto per le specificità e la necessità di adattamento, finiscono con il categorizzare le culture all’interno di confini geografici, diffondendo l’idea che, per il successo del business all’estero, sia fondamentale la conoscenza di diversi valori del paese con cui si collabora. Questa visione incontra l’opposizione di studiosi come Baraldi, Holliday e Patel che ne mettono in risalto rischi e pericoli. Baraldi30 evidenzia

come questa costituisca un ostacolo alla comunicazione in quanto definisce le forme culturali come essenze preesistenti e identifica i diversi gruppi in termini di stato-nazione. Pertanto, vi è il rischio che, nella comunicazione tra due o più individui provenienti da paesi diversi, in caso di divergenze

28 HOFSTEDE, Cultures and Organizations…, cit., pp. 19-20

29 Michael THOMPSON, Richard ELLIS, Culture Matters: Essays in honor of Aroon Wildavsky, Boulder, CO, Westview Press, 1997 30 Claudio BARALDI, La comunicazione nella società globale, Roma, Carocci, 2013 p.112

e/o somiglianze in azioni, abitudini, idee, si tenda a fornire spiegazioni basate su un semplicistico pregiudizio nazionale accentuando così la linea di demarcazione tra noi e loro.

Allo stesso modo Holliday pone l’accento sul pericolo di semplificare l’interpretazione dei comportamenti umani e di cadere in stereotipi31. Egli definisce l’essenzialismo come “presents

people’s individual behaviour as entirely defined and constrained by the [solid] cultures in which they live so that the stereotype becomes the essence of who they are32” e aggiunge:

“It projects the solid, large culture idea and the positivist desire to describe, predict, differentiate and defend particular traits and values. There is a strong sense of cultural identity. Traits and values which do not fit the profile are exceptions; and change and deviation are thought to be caused by external influence33

Le differenze nelle modalità di pensiero, azione, espressione e comunicazione tra gli individui vengono dunque spiegate attraverso l’utilizzo di valori condivisi a livello nazionale e, coloro che non rientrano in un determinato profilo, sono considerati l’eccezione. A questa visione, Holliday contrappone il discorso critico cosmopolita che riconosce la complessità delle numerose realtà culturali e ne garantisce il rispetto, prescindendo dal cercare giustificazioni nella nazionalità. Un simile approccio si riscontra nelle operational cultures di Goodenough34. Egli sostiene che la cultura,

un insieme di credenze o tendenze condivise da un gruppo di persone, aiuti l’individuo a comprendere come comportarsi. Questi, può dunque appartenere a diverse culture contemporaneamente, precedentemente apprese ed interiorizzate, e decidere personalmente in quali di queste operare a seconda delle circostanze. Sulla base di tale definizione, non emerge quindi la necessità di equiparare le culture a singole nazioni, rispettando così la natura multiculturale di un vasto gruppo di individui presenti nella società odierna (coloro che parlano più di una lingua, coloro che hanno più di una nazionalità, coloro che pur provenendo da un solo posto hanno costruito la propria identità sulla base di esperienze internazionali).

Il rischio più grande della visione essenzialista è infatti quello di diffondere l’idea che esistano delle barriere nazionali invalicabili che impediscano agli individui di esplorare diverse “realtà culturali” isolandole dai confini geografici35. Come sarà approfondito nel paragrafo successivo,

Holliday ritiene che per fare esperienza dell’interculturale non sia necessario oltrepassare i confini nazionali. A suo sostegno Kumaravadivelu afferma:

31 HOLLIDAY, Understanding Intercultural Communication…, cit.

32 Adrian HOLLIDAY, Intercultural Communication and Ideology, Sage,2011, p.4

33 HOLLIDAY, Understanding Intercultural Communication…, “Critical cosmopolitan discourse”, capitolo 3

34 Ward H. GOODENOUGH, “Culture, Language and Society” in USUNIER e LEE, Marketing Across Culture, …, cit., p.5 35 HOLLIDAY, Understanding Intercultural Communication…, “Essentialist diversion to blocked spaces”, capitolo 7

“I believe I live in several cultural domains at the same time – jumping in and out of them, sometimes with ease and sometimes with unease. …  In fact one does not even have to cross one’s national borders to experience cultural complexity. If we, as we must, go beyond the traditional approach to culture that narrowly associated cultural identity with national identity …  then we easily realise that that human communities are not monocultural cocoons but rather multicultural mosaics”36

È possibile pertanto concludere che, nonostante l’enorme popolarità riscossa dai modelli di Hall, Hofstede e Trompenaars e Hampden-Turner, e il grande contributo fornito agli studi sulla comunicazione interculturale nell’ambito del commercio internazionale, questi presentino dei limiti evidenti. Seppur non intenzionalmente hanno infatti semplificato il discorso culturale, attribuendo il comportamento umano a specifiche caratteristiche nazionali, sociali e/o regionali facilmente prevedibili. Tale approccio ha favorito l’internazionalizzazione di numerose aziende le quali, proprio basandosi sui suddetti aspetti, hanno costruito relazioni commerciali e strategie di marketing. Tuttavia, vale la pena chiedersi se in tempi attuali, studi che supportano stereotipi e pregiudizi a livello nazionale37 e che promuovono l’ideale di una cultura omogenea, stabile e limitata ai confini

geografici, siano da considerarsi ancora validi.

36 Bala KUMARAVADIVELU, Cultural globalization&language education, New Haven, CT, Yale University Press, 2007, p.5 37 OSLAND and BIRD, “Beyond sophisticated stereotyping…”, cit.