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Croce e Gentile, due hegelismi a confronto: una concordia tutto

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nuovi studi, nuove riflessioni e nuovi problemi cominciarono ad affollare la mente di Croce. Tre elementi in particolare segnarono una vera e propria cesura rispetto al passato. 1) In primo luogo, si distaccò definitivamente dal socialismo, pur continuando a nutrire delle simpatie per Sorel. Dopo cinque anni nei quali aveva investito molto in termini di studi e di aspettative, Croce avvertì l’esigenza di porsi nuovi obiettivi culturali, che individuò dapprima negli studi di Estetica, disciplina a cui, sulla scia del De Sanctis, si era dedicato sporadicamente negli anni giovanili, ma che attendeva ancora una riflessione matura e sistematica. 2) Fu così che Croce si dedicò alla stesura della sua prima grande opera filosofica, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, pubblicata per la prima volta nell’aprile del 1902. Questo testo segnò uno spartiacque rispetto alla riflessione precedente: «Quel libro, nel quale mi pareva di aver vuotato il mio cervello di tutta la filosofia accumulatavi, me l’aveva invece riempito di nuova filosofia, cioè di dubbi e problemi, specialmente intorno alle forme dello spirito, delle quali avevo tracciato le teorie in relazione con l’Estetica, e intorno alla concezione generale della realtà».71 La «nuova filosofia» accumulata nel cervello di Croce fu riversata da un lato

nella nuova rivista che uscì nel 1903, La Critica, e dall’altro nell’elaborazione della

71 BENEDETTO CROCE, Contributo alla critica di me stesso, a cura di Giuseppe Galasso, Milano,

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filosofia dello spirito, che occupò la sua mente soprattutto nei primi dieci anni del nuovo secolo. 3) Ma queste nuove prospettive non erano frutto della sola mente di Croce, ma traevano alimento dalla discussione e dalla collaborazione con Giovanni Gentile, che proprio allora iniziava ad affacciarsi sul panorama culturale italiano.

Seguiamo ancora una volta il Contributo, che scandisce molto bene i vari passaggi della cronologia intellettuale di Croce: «del tumulto di quegli anni – si riferisce al periodo a cavallo tra i due secoli – mi rimase come buon frutto l’accresciuta esperienza dei problemi umani e il rinvigorito spirito filosofico. La filosofia ebbe da allora parte sempre più larga nei miei studi, anche perché in quel mezzo, distaccatomi alquanto intellettualmente dal Labriola che non sapeva perdonarmi certe conclusioni che io traevo dalle sue premesse, cominciò la mia corrispondenza e la mia collaborazione col Gentile, che conobbi giovanissimo, ancora studente dell’università di Pisa, e che aveva pubblicato recensioni dei miei lavori intorno alla teoria della storia e al marxismo, e a me si era rivolto per la ristampa degli scritti di Bertrando Spaventa».72 A Gentile lo

legavano «affinità di svolgimento mentale e di cultura, perché anch’esso si era dapprima provato negli studi letterari come scolaro del D’Ancona e si era addestrato nelle indagini filologiche, e, come me, prendeva e prende sempre singolar piacere in quel genere di lavoro, che richiama la mente al determinato e al concreto».73 Le parole

di Croce erano anche fin troppo modeste, perché l’affinità con Gentile non riguardava soltanto i rispettivi temperamenti e i rispettivi studi, ma era qualcosa che investiva

72 Ivi, pp. 35-36. 73 Ibidem.

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direttamente le loro radici culturali. Entrambi erano avversi al positivismo, ambivano a rinnovare la cultura italiana in chiave idealistica e si richiamavano al pensiero di Hegel, sebbene, come abbiamo già visto, non si trattasse dello stesso Hegel: uno, quello di Croce, vantava un’ascendenza desanctisiana, mentre l’altro, quello di Gentile, si richiamava alla speculazione dello Spaventa. Il rapporto epistolare tra i due ebbe inizio nel 1896 e fu subito molto denso di contenuti – la loro prima discussione, non a caso, riguardò il problema della filosofia della storia – ma solo a partire dall’inizio del Novecento il sodalizio si rafforzò e conobbe i suoi anni migliori. Nel novembre del 1902 Croce annunciò l’imminente inaugurazione di una nuova rivista di letteratura, storia e filosofia e ne divulgò il programma; qualche mese dopo, precisamente il 20 gennaio del 1903, uscì il primo fascicolo della Critica, in collaborazione con Giovanni Gentile. I due si divisero diligentemente i compiti: «Io assegnai al Gentile la storia della filosofia italiana di quel periodo, e tolsi su di me la storia della letteratura».74 Ma non si trattava

soltanto di una collaborazione parallela, dettata soltanto da motivi di opportunità editoriale: entrambi condividevano pensieri, teorie, dubbi, ma non facevano sconti se di mezzo c’era la difesa delle proprie verità: il loro era un rapporto “dialettico” nel senso nobile del termine. Lo stesso Croce non aveva difficoltà ad ammettere i propri debiti intellettuali nei confronti del filosofo di Castelvetrano. In una lettera datata 1 dicembre 1913, che seguì la loro prima discussione pubblica, avvenuta sulle colonne della Voce di Prezzolini, Croce ammoniva Gentile dal voler fare «la storia delle nostre relazioni e a rivendicare gli stimoli e gli ammaestramenti che tu hai dato al mio

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pensiero»,75 ma poco dopo aggiungeva: «questi stimoli io li ho sempre riconosciuti, e

non solo con te e in lettere private, non solo (quando mi si offerse l’occasione) nella seconda edizione della Logica, ma (non credo di avertelo mai detto, e te lo dico ora) quella noterella che ti riguarda e che è a pp. 16 – 17 del volumetto di Prezzolini su di me, fu fatta mettere da me, e quasi dettata da me. Tanto io sono stato sollecito nella gratitudine e nella giustizia».76

Finché durò, il loro sodalizio fu un rapporto leale e sincero, ma come ricorda Sasso, si trattava comunque di «un’amicizia che viveva di consensi profondi, senza dubbio, ma anche di contrasti».77 Il loro sodalizio infatti era tenuto assieme più dalla lotta comune

contro gli stessi avversari piuttosto che dalla schietta condivisione di una serie di idee fondamentali: entrambi erano d’accordo nell’identificare il nemico da combattere nel positivismo, ma l’intesa sulla pars destruens non era simmetrica a quella sulla pars costruens delle loro rispettive filosofie, le cui divergenze si rivelarono fin da subito inconciliabili. Il rapporto tra Croce e Gentile ricordava per certi versi quello tra Croce e Labriola: in entrambi i casi si trattava di un accordo che paradossalmente sottintendeva un profondo disaccordo. A mio avviso la genesi di questo doppio fraintendimento va ricercata nel fatto che Croce, oltre a distinguere la teoria dalla prassi, o forse proprio

75BENEDETTO CROCE, Lettere a Giovanni Gentile (1896 – 1924), a cura di Alda Croce, con

introduzione di Gennaro Sasso, Mondadori, Milano, 1981, p. 456.

76 Ibidem. La nota di cui parla Croce si trova in GIUSEPPE PREZZOLINI, Benedetto Croce,

Ricciardi, Napoli, 1909, pp. 16 – 17: «Sia detto una volta per sempre, perché qui non faccio uno studio di Gentile: in questi il Croce ha trovato più che un collaboratore, e non si è valutata abbastanza la sua influenza».

77 GENNARO SASSO, Introduzione, in BENEDETTO CROCE, Lettere a Giovanni Gentile (1896 – 1924), cit., p. XII.

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in accordo con questa idea, distingueva anche l’amicizia dalle opinioni filosofiche, come quando, sulle colonne della Voce, rimproverò Gentile dicendogli: «Credi tu che l’attualità e la distinzione siano cose più importanti dell’esempio morale e dell’amicizia?».78 La priorità data ai rapporti personali rispetto alle opinioni filosofiche,

per quanto umanamente comprensibile, finì per camuffare il dissidio teorico che in fin dei conti c’era sempre stato tra i due, il quale, rimasto latente per anni, esplose progressivamente a partire dal secondo decennio del Novecento, per poi tradursi in una brusca e definitiva rottura verso la metà degli anni venti, quando Gentile aderì apertamente al fascismo, mentre Croce con altrettanta decisione si ribellò al regime. Ma l’opposta visione del fascismo non fu la causa della loro rottura, ma soltanto la punta dell’iceberg di un dissidio nato sul terreno filosofico. La genesi della loro separazione va ricercata prima di tutto nel diverso modo di intendere il nesso fra teoria e prassi. Gentile, che privilegiava l’unione dei due concetti, non vedeva nessuna contraddizione nel piegare la cultura ai fini della politica se necessario79, mentre Croce,

78 BENEDETTO CROCE, Lettere a Giovanni Gentile (1896 – 1924), cit., pag. 454.

79 Come avviene ad esempio nel Manifesto degli intellettuali fascisti, nel quale il fascismo viene

visto come il vero compimento del liberalismo risorgimentale, tanto che Gentile arriva a porre un’equivalenza tra libertà e coercizione. Questo passaggio è sottolineato molto bene da Bobbio: «Gentile si trovò nella migliore condizione per dimostrare che il fascismo non era affatto una rottura con il passato, come sostenevano i suoi avversari e volevano lasciar credere i fascisti eversivi, ma era nient’altro che la piena attuazione del “vero” liberalismo, tradito da tutti coloro che lo avevano sempre scambiato per una dottrina individualistica e materialistica. In una serie di scritti e discorsi, raccolti nel 1925 col titolo Che cosa è il fascismo, questa dimostrazione venne ripetuta in varia guisa ma su per giù con gli stessi concetti infinite volte: esservi due liberalismi, quello atomistico di origine illuministica, e quello nostrano (e tedesco), per il quale “la libertà è sì il supremo fine e la norma d’ogni vita umana: ma in quanto l’educazione individuale e sociale la realizza, attuando nel singolo questa volontà comune, che si manifesta come legge, e quindi come Stato”; e questo liberalismo nostrano essere la stessa cosa del fascismo “che non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello

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che si batteva per la loro distinzione, non tollerava invasioni di campo né dall’una né dall’altra parte. La reciproca e sincera amicizia, i vantaggi che loro alleanza culturale comportava, la tendenza di entrambi a privilegiare una concordia discors provvisoria a una discordia latente e non sempre manifesta, furono tutti fattori psicologici che per anni mascherarono questa loro diversità.

Ma ci fu un altro motivo fondamentale alla base della loro discordia. Da un punto di vista cronologico, la matrice primaria delle loro differenze va individuata nell’elemento che apparentemente li accomunava, l’hegelismo. Nel 1907, quando ancora l’amicizia tra i due godeva di un’ottima salute, Gentile scrisse una recensione negativa di Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, il saggio nel quale Croce aveva espresso la propria personale interpretazione del pensiero hegeliano. Se in quel periodo non vi furono tracce di polemica, fu soltanto perché Gentile, in nome della comune battaglia culturale contro il positivismo, lasciò nel cassetto questa recensione per anni, fino a quando decise di pubblicarla nel 1921, all’interno del volume Frammenti di estetica e di letteratura.80 Ci sono due possibili spiegazioni per giustificare la ritardata

pubblicazione di questa recensione negativa. La prima è che Gentile ritenesse le sue critiche tutto sommato superflue, per cui tanto valeva tenersele per sé, onde evitare di incrinare inutilmente il suo sodalizio con Croce. La seconda è che già nel 1907 fosse

Stato”. Posta la premessa che “il massimo della libertà coincide col massimo della forza dello Stato”, anche la domanda se si debba distinguere la forza materiale da quella morale non ha più senso: “ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire”». (NORBERTO BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento, Milano, Garzanti, 1990, pp. 158 – 159).

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perfettamente consapevole dell’incongruenza del suo hegelismo rispetto a quello di Croce, ma dato che in cuor suo si augurava che con il passare del tempo le loro differenze si sarebbero appianate, a cui va aggiunta la convinzione che nonostante la sua “eterodossia” l’iniziativa di Croce contribuisse a dare un forte impulso agli studi su Hegel in Italia, evitò un possibile e precoce motivo di rottura. A nostro avviso questa seconda ipotesi è la più corretta, come dimostra uno scambio epistolare che Gentile ebbe con Sebastiano Maturi nel 1908, esattamente un anno dopo la stesura della recensione negativa di Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. Dopo aver letto un intervento di Croce al congresso filosofico di Heidelberg su L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, il 22 settembre Maturi scriveva a Gentile: «Ma, caro Giovanni, cosa pensi tu di tutta questa nuova filosofia del nostro amico? Ma è filosofia? È processo filosofico codesto? Tu sai che io gli voglio un gran bene, soprattutto per la sua sincerità […] e poi perché Benedetto vuol un gran bene a te! Ma, riflettiamoci un po’: è bene lasciar correre così?».81 E dopo concludeva: «Vorrei vedere il nostro amico

fatto a rovescio, e perciò spoglio, delle sue velleità riformistiche; vorrei vederlo fatto realmente consapevole di questa verità, che la filosofia di Hegel è la filosofia ultima: vera ed assoluta palingenesi, e che perciò non c’è da aspettare o da fantasticare […] nuovi cieli e terre nuove».82 Queste accuse, mosse da un hegeliano ortodosso, non

furono contraddette né smentite da Gentile, che coerentemente con l’atteggiamento

81 GIOVANNI GENTILE, Lettere a Benedetto Croce (1907 – 1909), a cura di Simona Giannantoni,

Sansoni, Firenze, 1976, p. 254.

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appena delineato non prese le difese del Croce filosofo, ma soltanto quelle del Croce amico e collaboratore:

«Delle cose del Croce che vuoi che ti dica? Tu sai il mio pensiero, e puoi indovinare quello che approvo e quello che disapprovo negli scritti del nostro amico. Non bisogna tuttavia dimenticare che egli ha avuto la sfortuna di muovere verso l’hegelismo da vie molto lontane, e da pregiudizi profondamente radicati nell’animo di quasi tutti nel tempo della sua educazione intellettuale. Tutto quello che è riuscito a fare, l’ha fatto per virtù d’ingegno e di carattere, malgrado tutta la sua cultura antecedente, e quasi malgrado se stesso. Di questo bisogna riconoscergli il merito, tanto più in quanto i pregiudizi, che egli ha dovuto a poco a poco vincere in se stesso, non erano in lui una semplice patina superficiale, ma una seria e coscienziosa struttura di studi e di dottrina. Se i risultati, infatti, a cui egli è pervenuto, fossero stati raggiunti da altri sforniti della cultura e delle doti d’ ingegno del Croce, potrebbero certo contar poco sulle sorti della filosofia italiana. Ma quel tanto dell’hegelismo che è stato conquistato dal Croce, e in questo momento, è, secondo me, una forza di gran valore e di straordinaria efficacia perché il Croce è uno scrittore che si fa leggere e amare da molti, e attrae molti ingegni verso le questioni filosofiche, in un periodo in cui non si tratta già, purtroppo, di riconoscere quella verità che è sul nostro orizzonte, ma di conquistarla a poco a poco, grado per grado, faticosamente. Paragona Croce a tutti gli altri che scrivono oggi di filosofia in Italia e fuori d’Italia: c’è di mezzo un abisso. Questa è la ragione per cui non saprei essere severo nel giudicarlo. Vedo i suoi errori e cerco sempre di farli vedere anche a lui, e in altre condizioni di cultura generale sarei un suo avversario anzi che un suo collaboratore. Ma, se volessi ora dire pubblicamente il mio giudizio su questa filosofia del nostro amico, con quel

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rigore che uso nel giudicare gli altri, commetterei, io credo, una bestialità, in danno della stessa causa che sta a cuore a te e a me. Tante volte ho preso la penna per una discussione pubblica amichevole e l’ho deposta con la coscienza che avrei reso appunto un cattivo servigio alla verità».83

Ho riportato per esteso questa citazione perché la considero emblematica. Gentile cercava in qualche modo di giustificare “l’eterodossia” dell’amico, ma in fin dei conti la sua conclusione era la stessa del Maturi: Croce non era un hegeliano, o meglio non era un hegeliano alla loro maniera. Nel suo pensiero infatti la tendenza idealistica era in aperto contrasto con quella storicistica, o per dirla in altri termini, l’unità del sistema doveva necessariamente fare i conti con la distinzione concettuale. Questa tensione appariva un dualismo inaccettabile per Gentile, che coerentemente con il suo atteggiamento monistico risolveva tutta la realtà nella filosofia idealistica da lui concepita, l’attualismo. Da questa sostanziale differenza, che era prima di tutto una differenza di interessi e di cultura, non potevano che scaturire due filosofie che non avevano niente in comune. Come sottolinea Franchini, «certi concetti che Croce, attraverso e contro l’hegelismo, ha elaborato, il concetto per esempio dell’autonomia dell’arte, il concetto dell’Utile, il concetto dello Stato e del diritto come rientranti nel

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momento economico in senso lato, il concetto dell’autonomia dell’azione, sono tutti estranei alla filosofia di Gentile».84

84 RAFFAELLO FRANCHINI, Intervista su Croce, a cura di A. Fratta, Società Editrice Napoletana,

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1.5 Nec tecum vivere possum, nec sine te: ciò che accomuna e ciò