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La distinzione tra politica e cultura

La ripresa della dialettica in chiave filosofica era dunque strettamente connessa con la riflessione metodologica sulla storia. Questa, secondo Croce, aspettava ancora la sua rivoluzione copernicana, che la liberasse da un soggettivismo deteriore e la consegnasse all’oggettività del pensiero; un’oggettività non strettamente empirica né univoca, come nel caso delle scienze sperimentali – la storia deve fare i conti con eventi individuali del passato non riproducibili e spesso non certificabili – ma che comunque al pari delle altre scienze condividesse un atteggiamento analogo. L’approccio dialettico, per come fu inteso da Croce, aveva il vantaggio di riconoscere positivamente «l’ufficio del male»123 che è parte integrante della storia, senza lasciarsi impressionare

dagli eventi tragici e moralmente condannabili di questa, non per una perversa forma di indifferenza etica, ma per tutelare il lavoro dello storico, il cui scopo è ricercare una spiegazione razionale degli eventi passati. Per questo motivo in Teoria e storia della storiografia Croce poteva affermare che la storia «non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice».124 Questa frase, spesso citata fuori dal suo contesto, è stata spesso

interpretata come l’espressione di uno spietato realismo storicistico, secondo cui tutto ciò che accade, per quanto tragico, inumano, assurdo, ingiusto, è “razionale” per il

123 Dietro questo riconoscimento agisce la lezione di Marx, che nella Miseria della filosofia

coglie e valorizza l’importanza del “lato cattivo” del movimento dialettico, senza il quale verrebbe meno la lotta fra i due lati contraddittori, con la conseguenza che questo stesso movimento e dunque il processo storico non sarebbero possibili. (Cfr. KARL MARX, Miseria

della filosofia, Roma, Rinascita, 1949, pp. 91-92.

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semplice fatto di essere accaduto. La mia idea invece è che con quella frase Croce volesse dire che ogni evento storico, per quanto ai nostri occhi possa apparire moralmente condannabile, debba essere spiegato razionalmente: in quanto uomo, lo storico non può essere indifferente o neutrale dinanzi agli eventi tragici del passato, ma in quanto “professionista” della cultura è suo dovere astrarre dal proprio punto di vista particolare e ricercare una spiegazione complessiva degli eventi che intende esaminare. Il ricorso all’indignazione morale non è infatti una spiegazione, ma l’espressione di un sentimento: nell’ottica crociana, si tratta di materia pratica, non teoretica.125 Dovere dello storico è dunque quello di spogliarsi non tanto delle passioni

– altrimenti la storia si ridurrebbe a mera cronaca, tanto “oggettiva” quanto sterile – quanto del turbamento delle passioni, e in questo modo giudicare gli avvenimenti storici con una certa obiettività senza per questo rinunciare al proprio punto di vista. Si tratta di una specie di catarsi “stoica” che funge da garanzia deontologica per gli storici, le cui opinioni devono rispettare la verità dei fatti, superare scrupolosi processi di verifica e non essere condizionate da fini esterni alla cultura. Questo significa che nel momento in cui esercita la sua professione, lo storico deve moderare le proprie idee politiche e giudicare con imparzialità anche quei fatti che moralmente lo ripugnano e che magari combatte attivamente nella vita concreta di tutti i giorni. Non si può comprendere la distinzione fra teoria e prassi, su cui Croce ha insistito durante tutto l’arco della sua vita, se non alla luce dell’altrettanto netta distinzione tra politica e

125 Cfr. il paragrafo I «giudizi di valore» nella filosofia moderna, che si trova in BENEDETTO

CROCE, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, Bari, Laterza, 1948, pp. 396 – 410.

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cultura. Chi si occupa di politica è totalmente immerso nella sfera pratica, che richiede qualità come il carisma, il coraggio, la capacità di prendere decisioni in maniera rapida, come pure una certa dose di opportunismo; ma non si chieda al politico di enunciare una verità storica, perché tenderà a falsificarla in base ai propri interessi particolari, nobili o meno che siano. Allo stesso modo, quando lo storico sveste i panni dell’uomo di cultura e si fa cittadino per adempiere ai suoi doveri politici, può esprimere liberamente le proprie opinioni personali, far ricorso a giudizi di valore e perché no, lottare per una causa in cui crede. Lo storico che rimane tale anche quando dovrebbe farsi cittadino è un uomo eternamente indeciso, mutilato, pavido, che non osa mai sbilanciarsi per non sbagliare, poiché confonde la parzialità del politico, che è inevitabile, con la parzialità dello storico, che invece è un grave errore. Peggio ancora, perché in grado di incidere attivamente sull’opinione pubblica grazie alla propria autorevolezza, agisce il politico che intende riscrivere, falsificare e mutilare la storia in base alle proprie esigenze personali. Croce sapeva benissimo che coloro i quali intendono mettere le mani sulla storia con fini esterni a quelli della cultura lo fanno sistematicamente per legittimare la propria opinione politica: in questo senso il bersaglio non poteva che essere Gentile, che interpretava il fascismo come il reale ed effettivo compimento del liberalismo risorgimentale. Ma anche al giorno d’oggi questa pericolosa commistione tra politica e cultura si ripresenta puntualmente: si pensi ad esempio ai negazionisti, che relativizzando o addirittura negando la shoah tentano di “corroborare”, se così si può dire, una delle tante teorie complottistiche che ricalcano lo pseudo documento dei Protocolli dei Savi di Sion, secondo cui una élite di ebrei con

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un immenso potere economico influenzerebbe l’andamento della politica mondiale. Ma la crociana distinzione tra politica e cultura vale anche per quei paesi liberali che stabiliscono per legge che sostenere teorie negazionistiche è un reato penale, come se uno dei compiti della politica fosse quello di entrare nel merito della verità storica. La questione è delicata e complessa, e almeno in questo caso l’obiettivo del legislatore è quello di preservare la verità di un fatto che per la sua importanza e la sua drammaticità non deve essere manipolato per fini politici, o, peggio ancora, per propagandare teorie razziste e antisemite. Quello che è contestabile, semmai, è lo strumento a cui si ricorre: stabilire per legge che sostenere una determinata opinione (per quanto falsa) è un reato penale significa fare ricorso a un provvedimento che non può definirsi liberale. Del resto, come può dirsi liberale l’imporre la verità con la forza? Con quale diritto il legislatore può stabilire che una determinata opinione è reato, mentre altre no? Non si rischia, in questo modo, di creare un pericoloso precedente, che in futuro potrebbe essere “sfruttato” da chi non ha alcun interesse a difendere la verità storica, ma al contrario a farla tacerla?

A mio avviso, un moderno Stato liberale può e deve intervenire diversamente per difendere e tutelare la verità storica. Nel caso in questione, potrebbe finanziare la ricerca e la divulgazione di seri lavori storici sulla shoah, oppure agire diversamente a livello scolastico (ad esempio, potenziando il rituale “giorno della memoria”) o anche promuovere documentari ad hoc da diffondere sulla televisione pubblica, nei quali magari si fanno intervenire personalità autorevoli in campo storico.

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In ogni caso, l’indignazione morale, per quanto grande e legittima, non è comunque un valido motivo per autorizzare lo sconfinamento della politica nelle questioni che sono di competenza esclusiva degli storici: a mio avviso, questo è uno dei più grandi e attuali insegnamenti che Benedetto Croce ci ha lasciato in eredità.

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