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Storiografia, politica e liberta nel pensiero di Benedetto Croce

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INDICE

INTRODUZIONE GENERALE

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CAPITOLO 1: STORIOGRAFIA E LIBERTA’ NEL PENSIERO DI CROCE

Introduzione al primo capitolo ... 20

1.1 La storia ridotta sotto il concetto generale della libertà ... 24

1.2 Materialismo storico? No, indeterminismo storico ... 37

1.3 L’anti – hegelismo del primo Croce ... 50

1.4 Croce e Gentile, due hegelismi a confronto: una concordia tutto

sommato discordante ... 63

1.5 Nec tecum vivere possum, nec sine te: ciò che accomuna e ciò che

separa il pensiero di Croce da quello di Hegel ... 73

1.6 Un antidoto contro il “totalitarismo” hegeliano: la distinzione tra

l’Hegel filosofo e l’Hegel politico. ... 85

1.7 «Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale»: un tentativo

di soluzione di un problema storiografico dai risvolti “illiberali” ... 95

1.8 La distinzione tra politica e cultura ... 106

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CAPITOLO 2: LE RADICI SOCIALISTE DEL LIBERALISMO DI CROCE

Introduzione al secondo capitolo ... 121

2.1 Il giovane Croce, un borghese simpatizzante del socialismo ... 124

2.2 II socialismo come paradigma della distinzione fra teoria e prassi ... 132

2.3 La revisione del marxismo e la strana alleanza tra liberisti e socialisti .. 138

2.4 La crisi politica dell’Italia e l’ammirazione per Sorel ... 147

2.5 Un liberalismo sociale ... 155

CONCLUSIONI

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Introduzione Generale

La prima cosa che colpisce chi studia il pensiero di Benedetto Croce è la sensazione di ritrovarsi davanti ad un autore che ha infuso la propria esistenza sulla carta stampata. Un corpus di scritti sterminato, che ricoprono quasi l’intero arco della sua vita, si occupano di una moltitudine di discipline, dalla letteratura, all’estetica, alla storia, alla filosofia, alla politica, le quali a loro volta si declinano nelle varie forme del trattato, del saggio, della recensione, dell’intervista, dell’autobiografia. Gettare un’occhiata alla bibliografia di Croce significa dare un colpo d’occhio, più che a una serie di scritti, a un organismo vivente. In questo oceano di pensieri e riflessioni lo studioso, che ha a disposizione un tempo relativamente limitato, si vede costretto a scegliere una parte, con la speranza che partendo da questa sia possibile dare un’idea di quel tutto che fu l’uomo e il pensatore Benedetto Croce.

La parte che in qualità di studioso ho deciso di prendere in esame è il liberalismo di Croce. Nel compiere questa scelta ha avuto una parte importante il mio personale interesse per la filosofia politica, ma questa motivazione è troppo generica per risultare esaustiva, infatti di filosofi della politica ce ne sono molti, e in questa moltitudine la mia scelta è caduta proprio su Croce. Un altro motivo, più specifico, è la mia passione per la filosofia italiana del primo cinquantennio del Novecento, in particolare per i suoi due esponenti di punta, Croce e Gentile, con tutto il seguito di polemiche, contraddizioni e fraintendimenti che accompagnano questo binomio. Ma anche questa

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ragione non dice molto, infatti Croce e Gentile, pur condividendo tutta una serie di intenti culturali che li portarono a collaborare attivamente alla rivista La Critica fino al 1923, giunsero a conclusioni opposte, divisi com’erano su quell’evento storico eccezionale che in pochi avevano previsto ma che così tanto influì sulla storia politica e culturale italiana: mi riferisco ovviamente al fascismo.

Il vero motivo che mi ha spinto a scrivere questa tesi è la convinzione che il liberalismo di Croce non rivesta soltanto un preciso valore storico, ma abbia le potenzialità per innestarsi nella riflessione politica attuale; non tanto perché oggi sono tornati in auge vecchi problemi che richiedono vecchie soluzioni, quanto piuttosto perché il liberalismo crociano possiede, per via della sua intrinseca costituzione, un certo carattere di universalità. Se si danno per buone queste premesse, potrebbe sembrare che uno studio critico sul liberalismo crociano sia piuttosto agevole; niente di più falso. Il rapporto tra Croce e la politica presenta delle notevoli difficoltà ermeneutiche, dovute sia all’ampiezza della sua riflessione, che ricopre un intero cinquantennio di intensa attività, sia alle diverse interpretazioni, spesso contrastanti tra loro, che i critici hanno dato del suo pensiero. Prima di proseguire oltre è utile chiarire il rapporto che lega Croce al liberalismo e più in generale alla politica.

Il rapporto tra Croce e la politica è piuttosto complesso, per vari motivi. In primo luogo il fascismo lo spinse ad approfondire e spesso a rielaborare le sue precedenti riflessioni, conferendo loro un diverso significato. In secondo luogo, ma non meno importante, quello tra Croce e la politica fu tutt’altro che un amore a prima vista. Nel Contributo alla critica di me stesso racconta che «se nella mia famiglia mi stavano innanzi esempi

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di pace, ordine, di laboriosità indefessa […] mancava in essa qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica»1. Nella famiglia Croce la politica era percepita come una faccenda

sporca, non degna di gente onesta che si dedica anima e corpo alla propria famiglia e alle proprie faccende private: le poche volte che in casa si udivano discorsi di natura politica si faceva più che altro l’elogio dei Borboni, e le rarissime volte in cui venivano nominati gli uomini del Risorgimento era per satireggiarli con epiteti del calibro di «liberali chiacchieroni» e «patrioti affaristi»2. Che non si trattasse di semplice

indifferenza ma di aperta ostilità nei confronti della politica italiana, era dimostrato dai rapporti piuttosto tesi tra il padre di Croce e i suoi due cugini, i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa, figure chiave del Risorgimento italiano. La causa del dissidio era la passione e la dedizione politica degli Spaventa, che il padre di Croce non approvava, e che d’altro canto veniva ricambiata con scherno da Silvio «che considerava con superiorità il cugino tutto preso dalla passione per la terra e sordo alla politica»3. L’educazione di

Croce fu segnata anche dal collegio, che iniziò a frequentare all’età di nove anni e di cui conservò un ricordo agrodolce4. Gli unici riferimenti politici che Croce udì in quegli

1 BENEDETTO CROCE, Contributo alla critica di me stesso, in Etica e Politica, Bari, Laterza, 1956,

p. 380. Questo testo, scritto nel 1915 e pubblicato per la prima volta nel 1918 presso gli editori Laterza, è di fondamentale importanza per comprendere la genesi e l’evoluzione del pensiero crociano, pur non essendo un’autobiografia nel senso convenzionale del termine. Croce ci tiene infatti a precisare che «non traccerò né confessioni, né ricordi, né memorie della mia vita», benché spesso faccia riferimento a esperienze personali piuttosto intime. Si tratta di una contraddizione solo apparente, poiché l’unico motivo per cui Croce decide di rendere pubbliche certe vicende personali è di contribuire in prima persona al giudizio storico che spetta di diritto ai critici, mostrando come certi episodi autobiografici si leghino indissolubilmente allo sviluppo del suo pensiero.

2 Ibidem 3 Ivi, p. 381. 4 Ivi, pp. 381-384.

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anni furono vaghi echi di neoguelfismo, e «le rivoluzioni, le cospirazioni, il quarantotto, il cinquantanove e il sessanta, Cavour, Mazzini, Garibaldi, conobbi, sì e no, di solo nome, in tutto il tempo che stetti in quel collegio; e la loro realtà storica e il loro significato ideale furono una scoperta che feci da me, e solo al limitare della giovinezza»5.

Il giovane Croce crebbe in questo clima conservatore e una volta divenuto adulto, pur diventando un sincero patriota e un fiero portavoce degli ideali del Risorgimento, mantenne un certo disgusto per la politica spicciola, i comizi, i programmi elettorali, la retorica e le ideologie di partito, insomma tutti quei mezzi più o meno contingenti che, lo si voglia o no, sono necessari per il corretto funzionamento di una democrazia parlamentare. Questo disgusto, è bene chiarirlo, non era frutto di un ingenuo moralismo di stampo populistico, dato che Croce, da sincero ammiratore e studioso di Machiavelli, riconosceva che la politica aveva le proprie regole e un funzionamento autonomo rispetto alla morale, benché l’esperienza del fascismo lo persuase a riconsiderare questo rapporto. In ogni caso, ciò che più lo infastidiva era la pretesa dei politici di presentare le loro idee “empiriche”, volte a risolvere problemi contingenti o ad accrescere il consenso elettorale, come teorie vere e valide universalmente. In termini teorici, seguendo una distinzione concettuale che Croce utilizzava spesso nei suoi scritti, ciò che era intollerabile nel politico era l’indebita commistione di teoria e prassi. Ovviamente questo ammonimento non era a senso unico, ma valeva anche per

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quegli uomini di cultura – e qui il riferimento a Gentile era tutt’altro che velato – i quali credevano che un’idea soggettiva, per quanto universale, fosse automaticamente e candidamente applicabile alla realtà. Vedremo in seguito tutte le conseguenze teoriche e politiche che derivarono da questa importante distinzione concettuale, per il momento è stato sufficiente accennarla.

Per riprendere il filo del Contributo alla critica di me stesso, va osservato che nel 1886 l’appena ventenne Croce continuava a non provare alcun interesse per la politica, come dimostrano queste parole: «la politica del mio paese mi stava innanzi come spettacolo al quale non mai mi riproposi di partecipare con l’azione, e pochissimo vi partecipavo col sentimento e col giudizio»6. Presa alla lettera questa dichiarazione

sembrerebbe certificare che il temperamento apolitico di Croce fosse rimasto immutato durante tutto quel tempo, eppure una serie di eventi succeduti in quegli anni, alcuni dei quali terribilmente drammatici, segnarono per sempre il percorso della sua vita e in qualche modo lo spinsero, se pur indirettamente, a prendere una posizione politica. L’anno che può essere considerato un vero e proprio spartiacque nella vita di Croce è il 1883: il 28 luglio a Casamicciola un fatale terremoto gli portò via i genitori e la sorella, e lui stesso stette «sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo»7. Sopravvissuto assieme al fratello, si trasferì a Roma a casa dello

zio Silvio Spaventa, che divenne suo tutore nonostante le precedenti incomprensioni con il padre di Croce. Qui il giovane Benedetto trascorse tre anni «dolorosi e cupi: i soli

6 Ivi, p. 389. 7 Ivi, p. 385.

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nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio»8. Pur

essendosi trasferito in una città attiva, ricca di storia e di stimoli intellettuali, sotto la tutela di un autorevolissimo politico come lo Spaventa, Croce non ebbe la forza di elaborare il lutto e dare un senso e una svolta alla propria esistenza. Pesava, forse più di altre cose, la mancanza di un orientamento religioso, di un qualche ideale che lo spronasse a reagire, insomma una qualche vocazione interiore se pur laica e non confessionale. La sua vecchia fede giovanile non poteva più soccorrerlo, perché nonostante l’educazione del collegio e l’esempio di fede sincera che gli proveniva dalla madre, durante gli anni del liceo Croce si era progressivamente distaccato dal cattolicesimo, pur non senza angosce e qualche turbamento. Questo processo se da un lato apparve ineluttabile, tanto che Croce, stando ai suoi scritti, non lo mise più in discussione per il resto della sua vita, dall’altro determinò un vuoto e un disorientamento interiore che specialmente dopo la perdita dei genitori richiedeva di essere colmato da una qualche fede razionale. Fu così che nel suo secondo anno di soggiorno a Roma, frequentando senza particolari aspettative le lezioni di filosofia morale del Labriola, Croce trovò la spinta di cui aveva bisogno:

«E quelle lezioni vennero incontro inaspettatamente al mio angoscioso bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri, avendo perso la guida della dottrina

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religiosa e sentendomi al tempo stesso insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato. L’etica herbartiana del Labriola valse a restaurare nel mio animo la maestà dell’ideale, del dover essere contrapposto all’essere, e misterioso in quel suo contrapporsi, ma per ciò stesso assoluto e intransigente».9

Sull’importanza che attribuisce alla fede, intesa non in senso esclusivamente dottrinario ma come atteggiamento religioso verso la vita, Croce tornerà spesso nei suoi scritti. Il concetto generale è che ci sono diverse forme di fede, che possono essere trascendenti o immanenti, religiose o filosofiche, ma ciò che conta prima di tutto è possederne una e seguirla coerentemente, perché altrimenti la vita, la morale, il lavoro, l’azione individuale e i legami sociali perdono significato, o meglio acquistano significati pessimistici, egoistici e distruttivi – in una parola nichilistici – che nocciono tanto all’individuo quanto alla comunità. Che poi Croce si dichiari immanentista e critichi a più riprese la trascendenza delle religioni rivelate e di certe filosofie, compresa l’etica herbartiana che tanto aveva apprezzato in gioventù, è un fatto che nell’itinerario del suo pensiero completa e non contraddice quanto appena detto.

Quando Croce si avvicinò alla politica, come spesso accade per le esperienze che si fanno per la prima volta, si sentì guidato più dai propri sentimenti che da una matura

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riflessione. Ancora una volta fu il Labriola, che in questo periodo Croce percepiva come un maestro, che accese e alimentò la sua fino ad allora sopita passione politica, introducendolo al socialismo. Vari ingredienti, psicologici prima ancora che teorici, portarono Croce ad abbracciare con entusiasmo questa teoria politica. In primo luogo bisogna considerare l’ammirazione e il riconoscimento che provava nei confronti del Labriola, il quale a sua volta aveva riposto in Croce grandi aspettative per l’avvenire e lo considerava legittimamente suo discepolo. In secondo luogo l’impreparazione di Croce, che fino ad allora era stato indifferente alle teorie politiche e pertanto non aveva il bagaglio culturale necessario per paragonare il socialismo ad altre dottrine, in primis il liberalismo che non conosceva se non sotto forma di parodia, contribuì ad alimentare un atteggiamento iniziale di stampo fideistico10. Fu solo quando la passione

si trasformò in riflessione che iniziò una revisione e una critica dei concetti chiave del marxismo, a partire dal materialismo storico che venne ridotto a mero «canone di interpretazione». Questa non breve parabola socialista è testimoniata da una serie di saggi pubblicati tra il 1895 e il 1900, che successivamente vennero raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica. Con l’inizio del nuovo secolo, che si aprì con la morte del Labriola nel 1904, la sua sempre più tiepida “fede” socialista rimase

10 Ivi, p. 395: «Ma quella pratica con la letteratura marxistica, e il seguire che feci per qualche

tempo, con teso animo, le riviste e i giornali socialisti tedeschi e italiani, mi scossero tutto e suscitarono in me per la prima volta un sembiante di appassionamento politico, dandomi uno strano sapore di nuovo, come a chi per la prima volta, e non più giovane, s’innamori e osservi in sé medesimo il misterioso processo di una nuova passione. […] Non preparato nell’ambiente familiare a fanatismo, e nemmeno a simpatie, pel liberalismo corrente e convenzionale della politica italiana; non edificato sul conto di esso per quel che ne avevo udito giudicare e satireggiare e vituperare in casa dello Spaventa; mi parve di respirare fede e speranza nella visione della palingenesi del genere umano, redento dal lavoro e nel lavoro».

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viva ancora qualche tempo grazie soprattutto alla stima personale che lo legava a George Sorel, ma la crescente delusione nei confronti del movimento operaio lo portarono, in un auto – intervista del 1911, a dichiarare ufficialmente la morte del socialismo.11 Comunque, al di là della sentenza capitale, il dato interessante che

emerge è che Croce superò la fase socialista in maniera per così dire “dialettica”, conservando alcuni elementi che erano tipici del marxismo teorico, in particolare la concezione della storia realistica e spregiudicata. Riferendosi agli anni della sua adesione al socialismo, disse che nel fuoco di quella passione bruciò il suo «astratto moralismo» e apprese «che il corso della storia ha diritto di trascinare e schiacciare gli individui»12. Gli studi sul marxismo furono il lievito madre dello storicismo crociano;

come questa concezione, estremamente complessa perché rielaborata costantemente nel corso di un cinquantennio, si innesti e risulti più o meno compatibile con il liberalismo, lo vedremo in seguito.

Un altro elemento, più pedagogico che filosofico, lasciato in eredità a Croce dallo Spaventa e dal Labriola, fu quella che egli chiamò la «fede nel libro tedesco»13, anche

se forse sarebbe più corretto parlare di fede nella cultura tedesca. Fu proprio grazie a questa “fede” che Croce risalì controcorrente dal marxismo all’idealismo hegeliano, grazie anche alla collaborazione che in quegli anni si era instaurata con il giovanissimo

11 BENEDETTO CROCE, La morte del socialismo, in Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1926,

pp. 150 – 159.

12 BENEDETTO CROCE, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 395.

13 Ivi, p. 389: «Mi provavo a leggere, in certi ritorni su me stesso, qualche libro di filosofia

(quasi sempre tedesco, perché la fede nel “libro tedesco” mi era stata inculcata dallo Spaventa e rafforzata dal Labriola)».

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Giovanni Gentile. Entrambi avvertirono l’esigenza di accollarsi l’eredità di Hegel, senza però limitarsi a una sterile ripetizione della sua filosofia ma reinterpretandola alla luce dei problemi del loro tempo e delle loro diverse esigenze sistematiche. Fu proprio questa precisa impostazione culturale ereditata dai propri maestri, unita a una certa avversione verso le teorie positivistiche, naturalistiche ed empiristiche, che portarono Croce a confrontarsi, nel primo ventennio del Novecento, con una serie di autori politici le cui idee non potevano certo dirsi liberali. Questo dato di fatto pone tutta una serie di difficoltà ermeneutiche, a partire dal rapporto che sussiste tra il liberalismo inteso in senso lato, come una tradizione politico-filosofica che al di là delle differenze dei singoli pensatori presenta dei caratteri unitari, e il liberalismo crociano, la cui atipicità rispetto a questa tradizione è innegabile. Alcuni importanti critici, pur sviluppando un ragionamento complessivo più che condivisibile, hanno dato per buono il presupposto che il liberalismo crociano, per essere definito tale, avrebbe dovuto uniformarsi alla grande tradizione liberale europea. Prendiamo ad esempio le parole di Norberto Bobbio in Politica e Cultura:

«Chi volesse capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da Croce. Gli consiglierei di leggere i vecchi monarcomaci e Locke e Montesquieu e Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso Silvio Spaventa; e gli metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come azione (che pur fu il libro certamente più importante dei movimenti di opposizione). Oppure, sì, gli direi di andare a scuola da Croce, ma non dal Croce filosofo della politica, ma da quel Croce

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che non si stancò mai dall’insegnare che il filosofo puro è un perdigiorno e che la filosofia non nascente dal gusto e dallo studio dei problemi concreti è vaniloquio se non addirittura sproloquio. In fondo, se oggi ci mostriamo un po’ insofferenti dei teorizzamenti crociani sulla libertà, è perché abbiamo troppo bene imparato la lezione crociana che i teorizzamenti non scaturiti da amore per l’oggetto e da ricerca adeguata sono costruzioni di carta. Croce non ebbe per l’attività politica né amore né profonda inclinazione […]»14

Secondo la lettura di Bobbio, il liberalismo crociano ebbe la grande funzione morale di preparare l’animo e mantenere vive le speranze degli antifascisti, che all’epoca più che di teorie avevano bisogno di una “religione della libertà” che scaldasse il loro animo a colpi di vigorosa e soda retorica; ma una volta esaurita questa funzione, in seguito al ripristino dell’assetto democratico nel nostro paese, la “religione della libertà” avrebbe rivelato tutti i suoi limiti, priva di concretezza com’era. Non si può certo contestare a Bobbio la bontà della sua critica, che per essere appresa appieno deve essere contestualizzata storicamente. Egli pubblicò per la prima volta Politica e Cultura nel 1955, quando le istituzioni repubblicane e gli assetti politici del paese dovevano ancora solidificarsi. In questo clima di “rinascenza” alcuni pensatori come Bobbio avvertirono l’esigenza di introdurre nel dibattito culturale italiano una seria discussione sul liberalismo, una teoria che fino ad allora non aveva attecchito nel nostro paese (non che oggi la situazione sia tanto diversa!), a causa di quello che il filosofo torinese

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considerava il male ideologico del nostro paese, lo “spiritualismo”, che in maniera più o meno larvata si riflette in ogni campo della cultura italiana.15

Data questa diagnosi, si avvertiva l’esigenza di prendere a modello un liberalismo diverso da quello di Croce, più concreto, empirico, analitico, con una solida tradizione alle spalle. Dopotutto non c’era la necessità di richiamarsi a un liberalismo di carattere spiccatamente etico come quello crociano, visto che allora era ancora fresco quel coagulante morale e politico che fu l’antifascismo. Fatta sta che l’aver riconosciuto al liberalismo di Croce un importante funzione storica di resistenza al fascismo, ma al contempo averlo separato dalla tradizione liberale europea, concorse inevitabilmente alla sua rapida eclissi. In effetti, se si pone il problema del liberalismo crociano nei termini di “adeguazione” e “sussunzione” al liberalismo inteso in senso lato, la conseguenza logica non può che essere il rigetto. Infatti, come poteva definirsi liberale uno studioso che è passato dal socialismo, che fino agli anni venti aveva appreso da Marx «che il corso della storia ha diritto di trascinare e schiacciare gli individui», che ammirava lo spregiudicato realismo politico di Machiavelli e provava simpatie per il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che da Hegel aveva ereditato la critica del contrattualismo e del giusnaturalismo e che infine guardava di buon occhio l’elogio della forza e dello Stato potenza del Treitschke?

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Proseguendo sulla linea ermeneutica che vede il pensiero intrecciarsi intimamente con la biografia,16 dobbiamo dire che l’esperienza del fascismo indusse Croce a rimarginare

la cesura tra teoria e prassi da un lato e tra politica e morale dall’altro, così da uscire dall’imabrazzo di dichiararsi liberale per costume e sentimento ma non per dottrina, come se la verità speculativa e la volontà pratica potessero correre su binari paralleli. Nonostante la tenacia psicologica nel volersi mostrare sempre coerente e mai contraddittorio, possiamo dire che la dura esperienza del ventennio fascista, il sentirsi improvvisamente perseguitato e ostracizzato, il dover fare i conti con la restrizione della propria libertà politica e personale, convinsero Croce a rimodulare la sua precedente riflessione politica. Questo però non significa che ritornò sui suoi passi: il suo pensiero fu organico fino alla fine, e sebbene maturasse e si modificasse in base allo scorrere del tempo e alle variabili circostanze culturali, fu sempre una logica conseguenza del nocciolo speculativo originario. Comunque, in qualunque modo si provi a vedere la questione, se per liberalismo si intende esclusivamente la grande

16 Conviene dire due parole sul motivo per cui ho deciso di insistere tanto sul Contributo alla critica di me stesso in questa introduzione. Non c’è dubbio che sia stata una scelta

convenzionale, ma non del tutto arbitraria, perché ha avuto origine da una domanda ben precisa: perché Croce ha deciso di scrivere quest’opera? Non è possibile dare una risposta definitiva, ma la mia idea è che in quanto esponente del romanticismo Croce fosse consapevole che il pensiero ha una natura organica, che si genera a partire dalla propria esperienza di vita. Mostrare le molteplici connessioni che ci sono tra la propria speculazione e la propria autobiografia significa rendere concreto e storicizzare il proprio pensiero, che altrimenti risulterebbe vuoto e astratto. Una qualsiasi teoria che vuole fare a meno della storia – almeno che non sia una teoria che abbia un valore puramente strumentale – è per Croce incomprensibile, come spiegare una causa senza mostrane gli effetti. Questo è un chiaro sintomo dell’importanza che attribuisce alla storia, sia essa intesa come storia dei popoli e delle nazioni o come storia dell’individuo, poiché solo attraverso la concretezza storica è possibile comprendere e afferrare veramente lo svolgimento reale del pensiero. Date queste premesse, mi sembra piuttosto evidente che discutere delle teorie politiche di Croce senza far riferimento a quest’opera costituisce una grave pecca ermeneutica.

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tradizione filosofico – politica sviluppatasi in Europa, allora Croce non può essere definito un filosofo propriamente liberale.

Se invece si vuole capire davvero fino in fondo l’originalità della posizione crociana occorre tenere ben presente che egli aveva declinato il termine liberalismo in senso tipicamente romantico. Oggi, soprattutto in certi ambienti che si definiscono liberali, la parola romanticismo desta sospetto per non dire repulsione, da quando è stata fatta valere l’equazione lineare tra romanticismo, irrazionalismo e Stato totalitario. Che per molti autori questa connessione sia valida è senz’altro vero, ma Croce non può essere annoverato tra questi, anzi si mostra perfettamente consapevole del problema tanto che nella Storia d’Europa fa una distinzione fondamentale tra romanticismo speculativo e romanticismo pratico17. Né si può dire che Croce si fosse lasciato

incantare dalle sirene dello Stato etico, dato che fin da subito comprese che tale idea era più che altro un mascheramento e un’indebita universalizzazione delle opinioni personali di Hegel, uno dei maggiori sostenitori della monarchia prussiana di Federico Guglielmo III.

17 BENEDETTO CROCE, Storia d’ Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1932, p. 49: «è

necessario anzitutto ribadire una distinzione quasi sempre trascurata da coloro (e sono stati moltissimi negli ultimi anni e sono ancora) che discorrono del romanticismo e ne scrivono storie: una distinzione senza la quale non si può evitare che sopra alcune manifestazioni spirituali di carattere positivo cada come un’ombra di riprovazione, e sopra altre, che hanno carattere negativo, piova una luce di favore, e la storia, che si vuol narrare, venga fuori contraddittoria e ingarbugliata. La distinzione è tra romanticismo, in significato teoretico e speculativo, e romanticismo nel campo pratico, sentimentale e morale: che son due cose, per chi non voglia fermarsi alla superficie e alle apparenze, diverse e perfino opposte».

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Il suo liberalismo non si riagganciava idealmente alla Rivoluzione francese o a quella americana, ma a quei moti di liberazione nazionale che nell’Ottocento imperversarono in tutta Europa, nati dall’insopprimibile richiesta di un allargamento della libertà politica e come tali cementati col sangue, il sudore e i sacrifici di uomini e popoli. Per queste sue coordinate il liberalismo crociano si configura come un liberalismo etico prima ancora che politico.

Ricapitoliamo brevemente i nodi cruciali di questa introduzione. Da un lato abbiamo visto che Croce si appassiona alla politica in un’età piuttosto tarda, dall’altro che il suo liberalismo presenta degli elementi di forte atipicità rispetto alla tradizione liberale europea. Secondo una nota linea interpretativa, Croce giungerebbe tardi ad occuparsi di politica per scarso interesse lasciando ai posteri scarsi risultati, mentre il suo liberalismo, nato sul campo per combattere culturalmente il regime fascista, si sarebbe rivelato teoricamente inconsistente per via della sua matrice idealistica e storicistica. L’obiettivo di questo lavoro non è quello di confutare questa tesi, che presenta degli elementi di verità che debbono essere accolti e discussi, ma semmai quello di partire dalle stesse premesse e mostrare che è possibile giungere a delle conclusione diverse. Il fatto che Croce avesse un temperamento più filosofico che politico non deve necessariamente essere visto come un elemento di debolezza. Questo infatti gli ha permesso di essere sempre equidistante dalle posizioni politiche parziali e di poterle giudicare con una certa obiettività, senza mai cadere nelle semplificazioni e nei dogmatismi ideologici. È sicuramente un pregio il fatto che Croce non sia mai caduto nell’idolatria economicista, ed anzi abbia mostrato che accanto all’economicismo

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socialista vi è anche un economicismo di tipo liberista. Del socialismo Croce denuncia l’utopismo, l’astratto egualitarismo, le false previsioni apocalittiche del materialismo storico, la riduzione dell’uomo a essere puramente materiale e della società a rapporti di forza deterministici di natura economica, che è proprio la denuncia che ci si aspetta da un liberale in senso lato; al contempo però pone una distinzione fondamentale tra liberismo e liberalismo, tra la libertà intesa in senso integrale, che è al contempo economica, morale e politica, e la libertà puramente economica che si presume essere condizione, se non addirittura sostituzione, di qualsiasi altra libertà.

Che Bobbio rimproveri Croce di aver costruito un liberalismo a partire da delle premesse per certi versi incompatibili con la sua tradizione è senza dubbio una critica legittima, ma non è detto che questa incongruenza debba risultare necessariamente un elemento di debolezza: uno degli obiettivi del presente lavoro è quello di mostrare che l’“atipicità” del liberalismo crociano presenta anche delle caratteristiche positive.18

18 Come cercherò di mostrare soprattutto nel secondo capitolo, quello che a mio avviso è il

grande contributo crociano al pensiero liberale, la distinzione tra liberismo e liberalismo, non fu una conseguenza della sua cultura romantica (sebbene questa rivestì un ruolo importante per altri aspetti), ma l’applicazione a livello politico della distinzione fra teoria e prassi, che Croce iniziò a maturare durante i suoi studi sul socialismo.

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CAPITOLO 1

STORIOGRAFIA E LIBERTÀ NEL

PENSIERO DI CROCE

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Introduzione al primo capitolo

In uno dei saggi più importanti dedicati al liberalismo, Croce afferma che nella teoria filosofica della libertà sono da distinguere tre aspetti o tre gradi, «il primo dei quali è della libertà in quanto forza creatrice della storia, suo vero e proprio soggetto, tanto che si può dire (in senso alquanto diverso da quello hegeliano) che la storia è storia della libertà».19 Queste parole sono state scritte nel 1939 – lo stesso anno in cui viene

pubblicata La storia come pensiero e come azione – quando il fascismo era ancora saldamente al potere: sostenere la tesi che la libertà è il motore della storia significava lanciare un guanto di sfida al regime di Mussolini, come a dire che chi nega la libertà finisce schiacciato dalla poderosa inerzia della storia, che fila spedita nella direzione opposta. Ma queste parole non sono il semplice frutto della situazione politica dell’epoca: esse attestano l’oggettiva connessione tra liberalismo e storicismo presente nel pensiero di Croce. Eppure, molte obiezioni sono state mosse circa la natura di questo legame: come coniugare l’idea di spirito con quella di individuo? Se il soggetto della storia è un entità universale e omnicomprensiva, che libertà può vantare l’uomo? Che rapporto c’è tra il Croce che dopo gli anni venti diventa il simbolo dell’antifascismo, con quello che in Teoria e storia della storiografia del 1917 afferma che la storia non è giustiziera, ma giustificatrice?

19 BENEDETTO CROCE, Principio, ideale, teoria, in Il carattere della filosofia moderna, Bari,

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L’obiettivo di questo capitolo è quello di mostrare che le teorie storiografiche di Croce sono animate nel loro sottofondo dall’idea di libertà, sebbene alcune oscillazioni siano innegabili, soprattutto a partire dai primi anni del Novecento, quando incorporò nel suo pensiero la filosofia di Hegel. Preciso sin da subito che il mio intento è stato tutt’altro che apologetico, infatti ritengo di aver messo in primo piano le principali contraddizioni presenti nella concezione della storia crociana; allo stesso tempo, però, credo che la particolare visuale che ho scelto in questo capitolo ridimensioni alcune delle tradizionali accuse che sono state mosse a Croce in tal senso.

Mi sono posto soprattutto due obiettivi: primo, mostrare che Croce, nei primissimi scritti, ha difeso una concezione indeterministica della storia, strettamente connessa con l’affermazione della libertà morale dell’uomo; secondo, che la ripresa del pensiero hegeliano, da molti commentatori vista con sospetto, non è in palese contraddizione con il suo liberalismo. Nel fare questo mi sono preoccupato di evidenziare prima di tutto che la formazione culturale “anti – hegeliana” di Croce – ricordiamo di passata che si dedicò seriamente al pensiero Hegel “soltanto” nel 1905, all’età di trentanove anni – unita al suo atteggiamento critico di ascendenza desanctisiana, all’insegna della libertà speculativa, lo “vaccinarono” contro gli esiti illiberali del pensiero politico hegeliano. Non solo perché Croce si confrontò con Hegel soprattutto per risolvere e approfondire alcune questioni di natura storiografica, separando la sua filosofia dalle sue opinioni politiche; ma anche perché alcuni concetti chiave del suo pensiero, in particolare la distinzione fra teoria e prassi e la critica della filosofia della storia, lo tennero lontano tanto dalla seduzione teorica dello Stato etico quanto dalla seduzione

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pratica del fascismo. Inoltre, a mio avviso l’opposizione di Croce al regime non fu dettata soltanto da una pura e semplice reazione morale, nobile nelle intenzioni quanto priva di contenuti teorici, ma fu il frutto delle sue idee e della sua cultura, che erano logicamente incompatibili con la struttura politica e ideologica del fascismo. A tale riguardo, ho cercato di mostrare come l’hegelismo di Croce non avesse niente in comune con quello di Gentile, e che proprio da questo loro modo di intendere in maniera diametralmente opposta uno stesso autore, siano derivate due filosofie e due visioni politiche totalmente differenti.

Particolare attenzione è stata dedicata anche alla distinzione tra politica e cultura. Croce sapeva benissimo che certe teorie politiche vanno di pari passo con determinate concezioni della storia: Gentile, ad esempio, cercò di avvalorare il fascismo presentandolo come il vero compimento del liberalismo risorgimentale. La storia, se lasciata in mano a persone interessate, può essere manipolata a seconda delle evenienze, per questo motivo l’uomo di cultura ha il dovere morale di evitare questa degenerazione, garantendo che la storia venga scritta con onestà, obiettività, aderenza ai fatti, senza che presti il fianco a pericolose strumentalizzazioni politiche. In altre parole, il compito “politico” dello storico è quello di evitare pericolose connessioni tra politica e cultura, che finiscono per nuocere tanto all’una quanto all’altra.20

20 La battaglia di Croce contro la commistione di politica e cultura era chiaramente rivolta

contro la sistematica politicizzazione della cultura portata avanti dal fascismo. Non bisogna però commettere l’errore di credere che al giorno d’oggi, nelle moderne democrazie liberali occidentali, questo pericolo sia ormai del tutto sventato. Per un approfondimento, si veda il paragrafo La distinzione tra politica e cultura.

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Infine, abbiamo cercato di testare concretamente lo storicismo crociano, partendo dal presupposto che una concezione della storia che voglia dirsi liberale debba rispettare due parametri fondamentali: 1) l’idea che la storia sia indeterminata; 2) il primato della libertà individuale. Per quanto riguarda il primo punto, abbiamo visto che Croce ricorse al chiasmo hegeliano ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale per risolvere un preciso problema storiografico, sebbene l’identità tra reale e razionale si prestasse a delle interpretazioni politiche tutt’altro che liberali. Per quanto riguarda invece il secondo punto, abbiamo denunciato l’incompatibilità tra il concetto di Spirito e quello di individuo, vero e proprio tallone d’Achille del liberalismo crociano, anche se negli ultimi scritti Croce pare rivalutare almeno parzialmente l’idea di individuo.

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1.1 La storia ridotta sotto il concetto generale della libertà

La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte è il primo saggio teorico di Croce dedicato allo statuto epistemologico della storia. La brevità dello scritto, così come la sua natura occasionale e polemica sembrerebbero indicare la marginale importanza di questo testo all’interno dell’itinerario speculativo crociano, a parte il valore simbolico che generalmente gli viene attribuito, dato che segna l’esordio ufficiale del promettente intellettuale Benedetto Croce nel dibattito culturale italiano ed europeo. In realtà questo saggio è molto più complesso di quello che sembra a prima vista, a partire dalla sua problematica contestualizzazione storiografica. Nella prefazione ai Primi Saggi del 1918, quando un Croce ormai maturo aveva già delineato l’architettura del suo sistema, troviamo delle parole interessanti al riguardo:

«Posso dire anzitutto di avere, nel rileggere questi vecchi scritti, sperimentato su me stesso le difficoltà della «interpretazione storica», perché, quantunque essi siano pur cose mie, sono di un me oltrepassato e assai diverso dal presente, sicché in più luoghi rimanevo disorientato alle parole già mie, tanto che mi suonavano strane e alla prima inintelligibili; e ho durato più di uno sforzo per bene intenderle, e mi è convenuto a tal fine rimettermi idealmente innanzi le condizioni della cultura di allora, i problemi che vi si agitavano, i libri che leggevo e quelli

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che non leggevo, quelli ai quali davo grande fiducia e quelli dai quali mi tenevo lontano con diffidenza.»21

Anche nella breve aggiunta alla prefazione del 1951, dove viene riportato un passo della Philosophy of History di Collingwood, che dà merito a Croce di aver separato la storia dalla scienza e averla congiunta con l’arte22, traspare ancora una volta, a distanza

di cinquantotto anni dalla prima pubblicazione di quel saggio, un certo imbarazzo per il suo contenuto. A tal proposito Croce afferma che le parole di Collingwood hanno contribuito «se non a conciliarmi con i miei errori (perché con quelli non ci conciliamo mai), a darmi la rassegnazione alla loro cattiva compagnia, che ho sperimentato di nuovo nel rileggere queste pagine per la stampa».23 Senza dubbio c’era di mezzo una

questione psicologica piuttosto comune, che consiste nel provare un certo effetto di “straniamento” nel rileggere i propri scritti a distanza di molti anni, specialmente se questi sono il frutto di circostanze occasionali e dell’irruenza giovanile; questo però non è sufficiente per spiegare il disagio che abbiamo appena riscontrato, che va al di là di un semplice fatto personale. Oltre a ciò, vanno aggiunti alcuni dettagli del tutto singolari che rendono la decifrazione di questo testo ancora più enigmatica. Come ricorda Franchini, quando Croce «aveva già mandato in tipografia una memoria

21 BENEDETTO CROCE, Primi Saggi, Laterza, Bari, 1951, p. VII.

22 Le parole di Collingwood meritano di essere riportate per la brevità e la chiarezza con cui

colgono lo spirito del saggio di Croce: «Egli separò la storia dalle scienze e la congiunse all’arte, non nel senso che la sua forma letteraria dovesse essere artistica, o nell’altro che il suo contenuto fosse sentimentale e fantastico, ma nella sua intima natura, come conoscenza individualizzante e non già di concetti e leggi e generalizzazioni e astrazioni». (Ivi, p. XVI).

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intitolata e condotta sull’esempio di quella del Villari, si sentì prendere dal dubbio e, con un procedimento che non abbandonerà fino agli ultimi anni, riprese a considerare da capo l’intera questione e, in pochi giorni, ne venne a capo in maniera del tutto opposta. Senza esitare (come poi spesso amava raccontare sorridendo) mandò allora a scomporre lo scritto primitivo, e in breve tempo lo sostituì con la memoria intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che è il suo primo saggio filosofico e che ben presto gli dette notorietà anche all’estero»24. Anche Cingari riporta questa

curiosa vicenda: «Croce aveva deciso, positivisticamente, che la storia era scienza, quando, dopo aver già consegnato alla tipografia lo scritto, ebbe un’illuminazione che lo spinse verso la tesi contraria. La storia era arte e non scienza. Si precipitò allora in tipografia e ordinò “scomponete!».25

Alla luce di questo divertente aneddoto si potrebbe ipotizzare che l’imbarazzo provato da Croce nel rileggere questo saggio a distanza di anni fosse dovuto alla sua singolare genesi: dopotutto, le cose fatte di istinto sono sempre quelle che lasciano i maggiori rimpianti. Tuttavia anche questa spiegazione appare un po’ troppo semplicistica. Sappiamo che Croce non metteva mai a nudo sé stesso per puro esibizionismo, ma sempre con l’intenzione di risolvere un problema di natura oggettiva, quello dell’interpretazione storica del proprio pensiero. Quello che emerge dalla Prefazione è il bisogno di dare un senso, un significato storico allo scritto in questione. Questo

24 RAFFAELLO FRANCHINI, La teoria della storia di Benedetto Croce, Morano Editore, Napoli,

1966, p. 35.

25 SALVATORE CINGARI, Il giovane Croce, Una biografia etico – politica, Catanzaro, Rubbettino

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significato non poteva certo essere individuato nella parte costruttiva del testo, perché La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, a parte qualche intuizione rudimentale, è lontanissima dalle teorie storiografiche che Croce elaborò in seguito, né poteva essere altrimenti: nel 1893 non aveva ancora intrapreso i suoi studi sul materialismo storico né sull’Estetica, ma soprattutto non aveva ancora fatto i conti con il suo amato e odiato Hegel, e quindi con l’idealismo, con il concetto di Spirito, con la dialettica e con la coincidenza di razionalità e realtà. Tutti questi elementi implicarono una rivalutazione della storia, non più intesa come un momento particolare dell’arte, ma come una forma di conoscenza razionale, anzi come l’unica forma di conoscenza razionale possibile, tanto da meritare il nome di storicismo. Da qui il disagio di Croce, che definisce un «errore» il suo primo tentativo di elaborare una teoria storiografica.

Ma allora, come dobbiamo interpretare l’aneddoto riportato da Franchini e Cingari? Quello che possiamo dire è che sicuramente Croce non si pentì di aver modificato radicalmente quel testo, almeno per quanto riguarda la sua parte polemica e distruttiva, che da allora in poi rimase un punto fermo della sua riflessione: mi riferisco alla convinzione che la storia non sia una scienza, se per scienza intendiamo la particolare accezione che attribuivano a questo termine i positivisti. L’avversione di Croce per il positivismo era istintiva, poiché riduceva quello che a lui stava più a cuore, cioè la poesia, l’arte, l’estetica, la letteratura, la storia, in due parole le discipline umanistiche, a mere sublimazioni di istinti biologici o alla semplice ripetizione meccanica di associazioni psicologiche, con il risultato di svalutare il loro valore culturale. Comunque, al di là delle naturali simpatie e antipatie, quello che emerge dal

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saggio è la critica di un particolare modo di concepire la storia che, partendo da pretese pseudo – scientifiche, finisce per negare la libertà umana: il fatto che i positivisti dell’epoca fossero i principali sostenitori di questa interpretazione, è qualcosa di puramente accidentale. Per comprendere questa conclusione, però, è necessario ripercorrere le tappe fondamentali dell’argomentazione crociana.

Partiamo da una domanda fondamentale: la storia è una scienza o un’arte? Per Croce, posta in questi termini la domanda è troppo vaga e imprecisa per ottenere una risposta soddisfacente, ma ciò non toglie che essa abbia origine da un dilemma piuttosto importante: per essere un buono storico, è sufficiente che il lavoro sia scientificamente appurato, o deve anche essere scritto bene? La forma letteraria in cui viene espresso un contenuto è solo un gradevole ornamento, oppure un elemento fondamentale della narrazione?

A questo dubbio gli storici tedeschi come il Droysen e il Bernheim danno una risposta netta, asserendo che la storia non è un’arte ma una scienza. Per capire questa affermazione occorre tener presente il clima culturale della Germania dell’Ottocento, dove enormi progressi filologici avevano portato alla scoperta di nuovi testi e ad analisi più approfondite e più accurate di quelli già noti. Un lavoro così preciso e sistematico aveva formato la convinzione negli accademici dell’epoca che solo quei testi che rispettano determinati criteri storico-filologici possono essere definiti “scientifici”, mentre tutte le altre opere letterarie, per quanto possano prendere spunto da fatti reali, sono in ultima analisi frutto dell’immaginazione, della fantasia e del talento

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individuale dello scrittore. In un tale contesto il Droysen poteva affermare26 con una

certa sicurezza che la storia è scienza e che le preoccupazioni artistiche nocciono alla storia, perché non sono altro che «retorische Kunst», lavori retorici privi di qualsiasi contenuto oggettivo.

Le idee fondamentali degli storici tedeschi sono compendiate nel Lehrbuch der historischen Methode del Bernheim, le cui tesi principali sono: a) la storia è scienza e non è arte, poiché il suo scopo non è quello di procacciare diletto estetico ma una qualche conoscenza; b) la storia è scritta in prosa e quindi in un certo senso cade sotto il dominio dell’arte, ma ciò è qualcosa di puramente accidentale: può capitare che un’opera storica risulti anche un capolavoro artistico, ma questa caratteristica è solo il fiore all’occhiello del lavoro scientifico di base, non un elemento essenziale del metodo storiografico. Le argomentazioni degli storici tedeschi non convincono però il giovane Croce, che continua a chiedersi come mai fra tutte le discipline scientifiche solo la storia venga accostata all’arte. L’unica risposta possibile è che la storia, ammesso e non concesso che sia una scienza, non lo è al pari delle altre per via della sua particolare costituzione. L’unico modo per risolvere la questione è chiarire una volta per tutte cosa si intende per arte, scienza e storia.

Partiamo dalla prima: cosa si intende per arte? Tutti sembrano concordare almeno su un punto, ovvero che l’arte è quell’attività volta a produrre il bello. Oggi non daremmo

26 Croce cita una vecchia edizione in lingua originale, JOHANN GUSTAV DROYSEN, Grundriss der Historik, terza edizione rifatta, Lipsia, 1882, pp. 81 e seguenti. Per una versione recente di

questo testo, si veda JOHANN GUSTAV DROYSEN, Sommario di istorica, traduzione e nota di Delio Cantimori, a cura di Giovanni Bonacina, Pisa, Edizioni della Normale, 2014.

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affatto per scontata questa definizione di arte, anzi è un fatto piuttosto noto che l’arte si sia progressivamente emancipata, a partire dalle avanguardie del Novecento, dal concetto di bello; detto questo, a noi interessa soprattutto seguire il ragionamento analitico di Croce, senza dimenticare il contesto storico in cui è stato formulato. In ogni modo ammesso che la funzione dell’arte sia quella di produrre il bello, sorge spontanea un’altra domanda: cosa significa bello? Per Croce, bello si dice in quattro sensi:

1- Accezione sensualista: il bello non è altro che un momento del piacere corporeo;

2- Accezione razionalista: il bello viene visto in stretta connessione con il vero e il bene, e quindi con la logica formale e l’etica;

3- Accezione Formalistica: in accordo con il filosofo Johann Friedrich Herbart, il bello consiste in una serie di rapporti formali gradevoli;

4- Accezione idealistica: secondo l’espressione di Hegel, il bello va inteso come la rappresentazione sensibile dell’idea, o per dirla in termini crociani come «l’espressione di un qualche cosa che con terminologia hegeliana si chiama idea».27

27 BENEDETTO CROCE, PASQUALE VILLARI, Controversie sulla storia (1891 – 1893), a cura di

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Croce sorvola le prime due accezioni, limitandosi a dire che sono state abbattute dalla critica kantiana, mentre la terza viene liquidata con le parole dello Hartmann, che l’ha definita «l’artificioso edifizio di un acume perfettamente sterile».28 La sua analisi si

concentra su la quarta accezione, quella idealistica, che concepisce il bello come la proiezione di un contenuto teorico: questo vuol dire che un concetto, un’idea, una teoria non sono belli in sé, ma acquistano un carattere estetico nel momento in cui si incarnano nella parola o in altri mezzi di espressione; è grazie alla mediazione del linguaggio, o meglio al modo in cui attraverso il linguaggio si esprime un contenuto teorico che le idee possono essere giudicate belle o brutte. Un concetto può essere vero o falso, ma il fatto che sia vero non significa necessariamente che sia bello: esistono concetti falsi ma espressi in maniera esteticamente impeccabile, così come concetti veri che risultano brutti per via della povertà della loro espressione. Detto di passata, questa intuizione dovrebbe far riflettere sul modo in cui la scienza viene insegnata e divulgata: è utile, da un punto di vista pedagogico, che una teoria scientifica rispetti determinati criteri estetici nel momento in cui viene trasmessa ad un pubblico? Coniugare scienza e arte, come ad esempio aveva fatto Galileo nel suo Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, è solo un vezzo, oppure è un elemento essenziale che potenzia la verità delle teorie scientifiche? Non possiamo approfondire queste domande, ma spero che questo breve accenno abbia mostrato che riflettere sul rapporto tra scienza e arte è qualcosa di filosoficamente produttivo.

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Tornando al discorso principale, questa teoria permette a Croce di sostenere che la relatività dei giudizi sul bello non dipende da fattori meramente fisiologici – a me piace quella cosa dunque la giudica bella, a un altro non piace dunque la giudica brutta – ma da un processo mentale, che dipende dalle categorie con cui appercepiamo le cose. Ad esempio, giudichiamo bello un animale se lo riteniamo un’espressione adeguata dell’idea che ci siamo fatti di quell’animale in generale. Se questa idea implica il concetto di salute e di vigore, di conseguenza giudicheremo brutto un animale zoppo o con qualche menomazione fisica. Questo però non significa che il giudizio estetico dipenda da ciò che convenzionalmente giudichiamo come bello, in quanto l’accento non è posto sulle immagini mentali che consideriamo belle ma sull’espressione di un determinato contenuto, che non sempre corrisponde ai nostri stereotipi mentali sulla bellezza. In una nota del saggio Croce cita un commento dell’Imbriani su una commedia tedesca,29 dove ad un certo punto un personaggio, vedendo una vecchia, la giudica

bellissima. Stando a quanto detto finora, la vecchia viene giudicata bella perché considerata un’espressione adeguata dell’idea di vecchiaia: paradossalmente, più rughe ha, più è bella! Lo stesso vale per quelle cose che giudichiamo malvagie, nella misura in cui incarnano perfettamente l’idea che ci siamo fatti della malvagità: «Il Bello! – scrisse una volta il De Sanctis – ditemi dunque se ci è cosa sì bella come Jago,

29 Riporto la nota per esteso, che si trova in ivi, p.72: «Cosicché non sarebbe poi tanto strano

quel detto: Per gobbo, tu sei fatto bene! – VITTORIO IMBRIANI, nei suoi articoli su Vito Fornari

estetico (Giornale napoletano di filosofia e lettere, 1872), riferisce un brano di una commedia

tedesca, nel quale un personaggio, vedendo una vecchia, la dice bellissima. – Eh molti anni or sono, forse! – risponde la vecchia – ma ora, con tutte queste rughe… - Appunto per questo sei

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forma uscita dal più profondo della vita reale, così piena, così concreta, così in tutte le sue parti, in tutte le sue gradazioni finita, una delle più belle creature del mondo poetico».30

Per ricapitolare: l’arte produce un piacere mentale prima ancora che fisiologico, non è legata al concetto di vero (esistono cose false ma espresse in maniera esteticamente impeccabile, dunque belle) né al concetto di bene (esistono cose cattive che giudichiamo belle in quanto, appunto, cattive!). Come si vede, in questo primo saggio sono già presenti in nuce gli ingredienti principali dell’estetica crociana. Comunque, ai fini del nostro discorso è importante sottolineare che tramite questo ragionamento Croce giunge alla conclusione che l’arte è la rappresentazione della realtà in generale: Iago non sarà un personaggio reale, ma i suoi attributi e la sua malvagità lo sono, anche se non si incarnano in una figura storicamente concreta. Se dunque l’arte rappresenta la realtà possibile in generale, allora non c’è motivo di considerarla incompatibile con la storia: «La storia non è forse anch’essa una rappresentazione della realtà?».31

Prima di mostrare tutte le implicazioni del rapporto tra storia e arte, è opportuno soffermarsi sul concetto di scienza. Molti confondono la scienza con la conoscenza qualunque, tanto che addirittura qualcuno sostiene che la proposizione «Oggi ho fatto una passeggiata», se vera, è da considerarsi scientifica! È necessario restringere il campo e affermare che la scienza si occupa di conoscenze generali e che lavora per concetti. Ci tengo a precisare che questa definizione di scienza è senza dubbio

30 Ibidem. 31 Ivi, p. 73.

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opinabile, ma come detto in precedenza mi interessa più che altro seguire analiticamente il ragionamento di Croce. Dunque, ammesso che la storia sia una scienza, quali concetti elabora e quali conoscenze generali esprime? Secondo il Bernheim, «la storia è la scienza dello svolgimento degli uomini nella loro attività di essere sociali»,32 ma a questa affermazione Croce ribatte perentoriamente che «la

storia non è la scienza dello svolgimento, perché non ci dice in che cosa consista lo svolgimento: la storia espone ossia racconta i fatti dello svolgimento».33 Il concetto di

svolgimento è di competenza della filosofia, che ha il compito di riflettere sugli elementi teorici e astratti della storiografia; ne consegue che non è di pertinenza dello storico, che si limita a rappresentare i fatti, né dello scienziato, che ricerca leggi generali e non si occupa di concetti metafisici. La storia, dunque, non è una scienza, con buona pace del Bernheim.

Arrivati a questo punto, Croce può affermare che la funzione della storia è quella di narrare i fatti per come sono realmente accaduti, cioè rappresentarli per mezzo della parola, che è un procedimento tipicamente artistico. La storia è «quel genere di produzione artistica che ha per oggetto della sua rappresentazione il realmente accaduto»;34 rispetto all’arte, sta come la parte al tutto, come la rappresentazione del

realmente accaduto rispetto al realmente possibile: ecco che possiamo dire compiuta la riduzione della storia sotto il concetto generale dell’arte.

32 Ivi, p. 74. 33 Ibidem. 34 Ivi, p. 91.

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Come abbiamo visto, nelle opere successive Croce mise radicalmente in discussione questo assunto, tanto che arrivò al punto in cui non si riconobbe più in questa sua opera giovanile; ma questo effetto di straniamento riguardava esclusivamente la pars costruens del saggio, che faceva leva sull’accostamento di arte e storia. La parte polemica, invece, da allora in poi rimase un punto fermo della sua riflessione: la storia non è una scienza, almeno nel senso asfissiante e deterministico che intendevano certi positivisti dell’epoca. Croce non era interessato ad aprire una discussione epistemologica sulla scienza, ma a risolvere una questione prettamente filosofica: la negazione del determinismo. Lo scientismo denunciato da Croce, che non era proprio di tutti i positivisti come lasciava intendere, ma che comunque era un atteggiamento radicato nella cultura dell’epoca, era giudicato pericoloso nella misura in cui promuoveva un’asfissiante determinismo che negava la libertà umana. Per tale motivo possiamo dire che la sua opposizione al positivismo fu morale prima ancora che teorica.

A partire dai primi anni del Novecento Croce introdusse nella sua teoria storiografica il concetto di Spirito, che da un’ottica liberale può essere considerato un passo indietro rispetto a quanto sostenuto nella Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte: come far coesistere l’idea di spirito con la libertà dell’individuo? Che libertà possono pretendere gli uomini se la storia è il prodotto di un ente universale superiore e indipendente da ogni altro? Torneremo in seguito su questo punto, per il momento mi limito a sottolineare un dato che ritengo oggettivo. Nel corso della sua lunga speculazione filosofica Croce tornò spesso a rivedere la propria concezione della storia, lasciando spesso insolute alcune difficoltà teoriche; ma queste difficoltà non erano

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dovute a problemi strettamente logici o di sistema, ma al fatto che non abbandonò mai l’idea della libertà e della dignità umana. Sarebbe stato molto più facile, se Croce si fosse interessato soltanto della coerenza logica, fare dello Spirito un’entità assoluta che ingloba in sé la volontà dei singoli individui, senza porsi il problema della libertà morale, civile e religiosa degli uomini. Se così non è stato, è perché Croce non smise mai di credere nella libertà umana. Per dirla con uno slogan, era la teoria che doveva scendere a patti con la libertà, non la libertà con la teoria.

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1.2 Materialismo storico? No, indeterminismo storico

Tra il Croce che nel 1893 scrive La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte e il Croce che agli inizi del Novecento si confronta con Hegel e getta le basi del suo sistema filosofico, sta nel mezzo il Croce che sotto l’egida di Arturo Labriola si appassiona al marxismo, che negli ultimi anni dell’Ottocento ebbe una grande influenza nel dibattito culturale italiano. Per ben cinque anni, dal 1895 al 1900, Croce studiò i testi principali di Marx e compose una serie di saggi che successivamente verranno raccolti in un’unica opera dal titolo Materialismo storico ed economia marxistica. Questo periodo non fu una semplice parentesi, ma una tappa fondamentale della formazione intellettuale di Croce, che per la prima volta si avvicinò all’economia e soprattutto alla politica, che fino ad allora non avevano destato un particolare interesse nella sua mente.

Varie ragioni concorrono a farci puntare i riflettori sul Croce “socialista”. Innanzitutto – può sembrare un’osservazione banale, ma è sempre bene specificarla – cinque anni non sono un arco di tempo trascurabile, soprattutto se si pensa che tra i ventinove e i trentaquattro anni si è generalmente all’apice della propria maturità intellettuale. In secondo luogo, occorre tener presente che a introdurre Croce al socialismo e a mediare i suoi studi in questo campo fu Antonio Labriola, che in questi anni vestì i panni dell’amico, del mentore e del collaboratore: la sua l’influenza, testimoniata da alcuni passi del Contributo alla critica di me stesso, nonché dal saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900) e dall’epistolario tra i due, certificano

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l’enorme importanza che questo sodalizio ebbe per la formazione culturale di Croce.35

Un’altra ragione è che attraverso Marx si ricollegò alla grande filosofia storica del periodo romantico e conobbe un hegelismo spurio ma assai «più concreto e vivo di quello che ero solito incontrare presso scolari ed espositori, che riducevano Hegel a una sorta di teologo o di metafisico platonizzante»36. In maniera del tutto singolare,

potremmo dire con un movimento inverso rispetto all’andamento cronologico della storia della filosofia, Croce partì dal marxismo e risalì fino a Hegel, che in giovinezza non aveva destato in lui particolare interesse.

C’è infine un problema politico di fondo che ogni studioso finisce inevitabilmente per porsi: che rapporto c’è tra questi cinque anni in cui Croce studia e si appassiona alle vicende del socialismo, e il Croce che a metà degli anni venti del Novecento si dichiara

35 Non possiamo soffermarci sul complicato rapporto che intercorse tra Benedetto Croce e

Antonio Labriola, sia per la complessità del tema sia perché non è di primaria importanza ai fini di questo lavoro. Ci sono un paio di punti che però è bene mettere in evidenza, per meglio comprendere i testi che andremo ad esaminare. In primo luogo il rapporto tra Croce e Labriola fu ambiguo, in quanto per certi versi il Labriola vedeva Croce come un discepolo, ma non lo considerò mai un semplice scolaro e anzi il più delle volte lo trattava come un interlocutore alla pari, mentre Croce era disposto a riconoscere Labriola come suo maestro, ma pur mostrando segni di riconoscenza e di ammirazione, mantenne sempre la propria indipendenza intellettuale e il proprio abituale senso critico. Questa ambiguità era probabilmente il frutto di un’intesa intellettuale che non si nutriva soltanto di idee, ma anche di un vicendevole affetto che affondava le sue radici in questioni autobiografiche prima ancora che intellettuali. Labriola, dal canto suo, era riconoscente a Croce perché aveva finanziato economicamente la pubblicazione dei suoi saggi e perché mostrava vivo interesse per le sue idee. Quanto l’affetto personale abbia condizionato le recensioni di Croce agli scritti del Labriola è difficile dirlo, anche se l’impressione è che questo condizionamento riguardasse più i toni, spesso morbidi e comprensivi più del dovuto, che la sostanza delle idee, che invece apparvero sin da subito molto distanti. Croce, come si evince facilmente dalla lettura del saggio Sulla forma scientifica

del materialismo storico, attribuiva a Labriola delle interpretazioni che in realtà erano farina

del proprio sacco: atteggiamento forse non dei più corretti, ma indubbiamente indice di indipendenza intellettuale.

36 BENEDETTO CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, Prefazione settembre

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apertamente liberale? Come possono coesistere lo studioso di Marx, l’estimatore di Labriola e di Sorel, con il liberalismo? Come interpretare le ultime righe della prefazione del 1917 di Materialismo storico ed economia marxistica, dove Croce elogia Marx per averlo reso insensibile alle «insipidezze giusnaturalistiche» e agli ideali democratici proclamati nel 1789, così come alle «alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità»?37

Di tutti questi dubbi, suscitati dalla lettura comparata delle opere crociane, ci occuperemo approfonditamente in seguito, per il momento è opportuno concentrarsi su una questione teorica ben precisa, quella del materialismo storico. Nonostante la differenza dei problemi presi in esame, c’è un filo rosso che collega La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte e i saggi che Croce raccoglie nel volume Materialismo storico ed economia marxista: la convinzione che sia impossibile prevedere il corso degli eventi futuri. Che non si tratti di una presa di posizione banale, lo dimostra il fatto che il materialismo storico si presta generalmente a una lettura di tipo deterministico. In linea di massima, i suoi sostenitori più “ortodossi” affermano che ci sono dei fattori materiali, in primo luogo economici, che determinano l’assetto politico della società. Questi fattori, una volta liberati dalle ideologie dominanti imposte dalla classe che detiene il potere, le quali sono una sorta di idoli baconiani che condizionano l’osservazione, diventano del tutto evidenti ed è possibile prevedere

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“scientificamente” il loro andamento futuro con la stessa precisione ed esattezza con cui è possibile prevedere un’eclisse solare.

Contro questa accezione “forte” del materialismo storico, Croce propone una radicale revisione che lo riduce a un mero «canone di interpretazione», il cui tratto peculiare è «ch’esso non importa nessuna anticipazione di risultati, ma solamente un aiuto a cercarli, e che è di uso affatto empirico»38. Il saggio in cui Croce dedica maggiore

attenzione a questo problema è intitolato Sulla forma scientifica del materialismo storico, pubblicato per la prima volta negli Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli il 3 maggio 1896. Questo testo è in realtà una recensione critica di un libro del Labriola, pubblicato anch’esso nel 1896 a spese di Croce, dal titolo Del materialismo storico, delucidazioni preliminari.

La tesi principale affermata da Croce è che il materialismo storico non sia una filosofia della storia, posizione a suo dire sostenuta anche da Labriola, anche se non in maniera altrettanto chiara e limpida, visto che in alcuni passi della sua opera lo definisce impropriamente «l’ultima e definitiva filosofia della storia». Ma che cosa intende Croce per filosofia della storia? In poche parole, «la riduzione concettuale del corso della storia», ovvero l’ipostatizzazione di un concetto universale e onnicomprensivo partendo dal quale sia possibile giustificare lo svolgimento storico. La vecchia filosofia della storia credeva possibile questa riduzione perché si appoggiava all’idea di Dio e della Provvidenza, in base alle quali interpretava il susseguirsi degli eventi storici

38 BENEDETTO CROCE, Della circoscrizione della dottrina del materialismo storico, in Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 1961, p. 81.

Riferimenti

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