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Il monastero è nei secoli X-XIII il luogo principale della rielaborazione e della trasmissione della cultura, è la sorgente di un’enorme e continua produzione scritta che si mantiene nel tempo nonostante gli eventuali periodi di “crisi culturale”, di devastazioni e

92 Salvestrini, «Gli atti e le ceriminie della conversione», in Disciplina caritatis, pag. 275. 93

47 saccheggi, di ristrettezze economiche; il fulcro della parola scritta, dei codici miniati con colori e decori che sembrano quasi richiamare la beatitudine celeste è lo scriptorium dove affluiscono monaci di notevoli abilità manuali alle cui dipendenze vi sono discepoli dediti all’apprendistato; sono i famosi monaci amanuensi, assieme ai disegnatori ed ai decoratori che pur rispettando canoni molto precisi, arricchiscono i testi miniati di spiccata creatività nelle forme, nelle cornici e nella varietà dei colori.

Il cenobio vallombrosano prima e le sue “filiazioni” poi, non fanno eccezione a tutto ciò: fin quasi dalle origini a Vallombrosa si crea uno scriptorium dove si cominciano a trascrivere libri liturgici, testi patristici, agiografici e classici, dove lavorano generazioni di miniaturisti: ai primordi erano circa una ventina di monaci tra i quali emerge Geremia che con la sua arte e capacità manuale personalizza i codici prodotti; col tempo allo

scriptorium confluiranno amanuensi professionisti e discepoli provenienti sia dai cenobi

toscani fondati successivamente a Vallombrosa, sia da altre case consorelle non toscane, sempre e comunque per il medesimo scopo: lasciare traccia della cultura del tempo, alimentarsi spiritualmente, avere dei riferimenti per emulare nel significato più alto, pur sforzandosi di mantenersi modesti, gli “uomini di Dio”; interiorizzare gli insegnamenti dei Padri che, letti o ascoltati come era accaduto a Giovanni Gualberto durante il periodo della sua infermità, potessero “essere luce” della strada da percorrere.

Il libro dunque non si connota solo come strumento di edificazione ma anche come forma di sapere, valore da utilizzare e da trasmettere in virtù del crescente ruolo politico, economico e sociale assunto dai monasteri e dalle varie signorie abbaziali determinanti un diverso atteggiamento verso la cultura scritta fosse questa espressa sotto forma di materiale librario o di documenti giuridici.

Se dalla trascrizione e dallo studio dei testi presenti nei monasteri vallombrosani durante il Medioevo “ci immergiamo nello scorrere dei secoli” fino a giungere ai giorni nostri, ci rendiamo conto che molti di quei manoscritti sono confluiti, conservati e raccolti, fortunatamente nelle più importanti biblioteche come ci dimostrano “le indagini” effettuate da due importanti esperti, che ci hanno sicuramente illuminato in merito all’arte scrittoria ma ci hanno fornito delle notizie sorprendenti e degne di attenzione che sicuramente sono da interpretare come un invito a maggiori ricerche e approfondimenti. Lo studio sistematico dei manoscritti sono in buona parte reperibili presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e la Biblioteca Medicea-Laurenziana soprattutto nel Fondo Conventi Soppressi e, nell’Archivio di Stato sempre del capoluogo fiorentino: le preme ricognizioni effettuate da Donatella Frioli hanno piacevolmente sorpreso la studiosa perché «non solo il

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corpus dei codici è rimasto finora estraneo a qualunque indagine sistematica che tenti di

individuare scelte grafiche e codicologiche,….ma soprattutto numerosi manoscritti che gli inventari ottocenteschi datano ai secoli XIII e XIV appaiono piuttosto riconducibili ai secoli XII e XIII;…se non addirittura al tardo secolo XI…..L’interesse appare evidente non solo e tanto al mero livello delle scelte codicologiche, che pur possono informare sulle stesse condizioni di vita materiale-economica della fondazione, piuttosto…è la dimensione spirituale-culturale che può venir delineata in più articolati dettagli»94.

Da una prima ricognizione lo studio dei codici ha volto verso una vera e propria indagine operata da Giacomo Baroffio il quale, durante il suo peregrinare per alcuni decenni presso le fondazioni vallombrosani sparse in tutta Italia, dopo aver visitato archivi e biblioteche, aver consultato cataloghi e altro materiale librario, è giunto alla conclusione che «di oltre 16000 codici liturgici italiani, integri o frammentari,… poche decine possono essere attribuite con certezza a comunità vallombrosane»95: se questa conclusione è sconfortante e sconcertante, è anche l’inizio di un “cammino arduo e impervio” poiché di una parte di quei pochi testi liturgici ne abbiamo notizie esigue o inesistenti, secondo l’appendice pubblicata dallo specialista, allegata agli Atti del Convegno “Codici liturgici vallombrosani. Prospettive di indagine” in cui si mostra quanto gli stessi siano prestigiosi culturalmente e abbiano un valore inestimabile come “patrimonio dell’umanità” tanto da essere presenti in alcune delle più importanti biblioteche europee e mondiali.

I monasteri vallombrosani nel Medioevo tendono anche a qualificarsi come diffusori di una “cultura architettonica” in quanto hanno avuto un ruolo determinante nella definizione e nella diffusione dell’arte, nello specifico nel romanico vallombrosano; tuttavia la concezione di una vera e propria ma distinta “cultura architettonica monastica” rischia di essere sminuita se non si considera ciò che la caratterizza pur differenziandola, ciò che la riconnette al suo contesto e dunque alla cultura dei suoi tempi e dei luoghi, ciò che esprime quale specifico “modus vivendi”. É una forma di cultura che diviene maestra sotto vari aspetti riconducibili a due punti fondamentali: fornire immagini edilizie, urbane realizzabili e funzionali alla comunità; insegnare tecniche di insediamento sotto molteplici punti di vista (urbano, agricolo, edile, viario, idraulico…); non è poi da sottovalutare che anche il sistema di gestione interno dell’Ordine basato sull’autorità dell’abate poteva favorire la circolazione di direttive anche culturali assicurando talora una manodopera

94 Frioli, «Lo scriptorium e la biblioteca di Vallombrosa. Prime ricognizioni», in II Colloquio vallombrosano,

pp. 508-509.

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49 specializzata, scambi e passaggi di mezzi, idee, influssi e personalità artistiche oltre che nell’architettura, anche nell’iconografia.

La pittura pur connotandosi come arte figurativa tanto quanto la miniatura segue un itinerario distinto, ma soprattutto pieno di ombre e ancora “in fieri” come trapela dalle osservazioni di A. Padoa Rizzo; il piano cronologico è distinto non meno del ruolo artistico svolto, che “va a braccetto” con una differente quanto ovvia formazione professionale. Il miniaturista si forma nello scrittorio monastico, è condizionato dalla stabilità come impone la Regola, la sua opera è quasi sempre destinata a occhi che sanno leggere e, soprattutto al decoro dell’altare e solo in un secondo tempo diverrà un bene di investimento e di pregio per uso privato come sembrano dimostrare le richieste ai Vallombrosani dal secolo XII; il pittore invece si sposta secondo le esigenze da un luogo all’altro, la sua opera è spesso pubblica, comunque di edificazione e di alto insegnamento tanto da connotarsi “libro dei poveri”.

Indipendentemente dai differenti ruoli svolti da queste forme artistiche-culturali, è d’obbligo ricordare che è con la canonizzazione (1 ottobre 1193) e successivamente con la traslazione delle reliquie (10 ottobre 1210) che Giovanni Gualberto fa la sua comparsa nell’arte. I reliquiari di Passignano, di Vallombrosa, di Santa Trinita a Firenze e degli altri monasteri dell’Ordine esprimono la devozione dei monaci verso il loro istitutore e, anche se la committenza artistica si limita ai seguaci della riforma monastica del Gualberto, si estende in altri e molteplici campi: oreficeria, architettura, incisioni, pittura a fresco, su tavola su tela; dalla scultura in marmo, in pietra ed in metallo alle robbiane; dai mosaici alle scagliole; dalle miniature agli smalti traslucidi, ai tessuti.

4.1) ATTIVITÁ DELLO SCRIPTORIUM DI VALLOMBROSA PER LA COPIATURA DEI TESTI LITURGICI E DI CULTURA96

Fin dalle origini la comunità nonostante le difficoltà materiali affrontate riesce a creare una biblioteca propria a Vallombrosa con le opere essenziali per giungere poi alla produzione di testi necessari ai cenobi fondati o riformati, testi trascritti per soddisfare le esigenze liturgiche e ascetico-spirituali i cui contenuti sono tratti dalle opere patristiche di Sant’Agostino e San Gerolamo o da altri Padri latini occidentali e orientali oppure da testi di natura esegetica di Gregorio Magno e di San Gerolamo; altrettanto tradizionali per

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50 l’ovvietà degli interessi sono le trascrizioni della Scrittura, dei lezionari, degli omeliari, delle Vite, tutti rispondenti a necessità liturgiche o di ascolto e riflessione da parte della comunità monastica nei quali, soprattutto in quelli agiografici i monaci meditano sui passi nei quali rivedersi e rievocare il proprio stile di vita conforme agli insegnamenti degli antichi Padri. Tra le copie non possono mancare le Regulae di Gregorio Magno, di Basilio, di Sant’Agostino e ovviamente di San Benedetto anche per soddisfare le esigenze (nutrimento spirituale e preparazione teologica) e le direttive del fondatore oltre che per lasciare traccia della cultura spirituale presa a modello da chi esige per la propria comunità uno stile di vita “perfetto”, una guida nella quotidianità, una vasta e valida formazione ad ampio raggio (letteraria, teologica, liturgica, esegetica,…) alimentata dagli scritti dei Padri, unite al vivo desiderio di conoscere i canoni conciliari per combattere con “armi idonee” l’eresia simoniaca e, per consolarsi e bearsi dell’amore divino ogni qual volta il monaco non come uomo di Dio ma come essere umano ne sente intimamente il bisogno.

Se al volgere del secolo XI le trascrizioni all’interno dello scriptorium del cenobio vallombrosano fondato dal Gualberto sono poco più di una ventina procedendo con ritmi serrati e considerando che lo slancio produttivo dei primordi spesso non raggiunge la media di un codice all’anno, il periodo successivo ossia il XII secolo, vede alla luce altrettanti testi miniati e copiati caratterizzati dal consolidarsi e dal raffinarsi di tecniche ormai divenute proprie; sono sempre opere all’insegna della tradizione dunque agiografie, omeliari, scritti esegetici e scritturali sempre per la comunità religiosa ma anche per uno privato; fondamentale è ancora Sant’Agostino con le sue opere esegetiche e per uso didattico, oppure scritti dottrinali, teologici, catechetici ed epistolari, segno tangibile che accanto alla tradizione iniziano ad emergere varietà e interessi culturali affiancati da necessità editoriali di palese concorrenza con gli scriptoria di monasteri di altri ordini tra cui quello della vicina Camaldoli.

L’organizzazione dello scriptorium e la specializzazione dei copisti ottenuta con la pratica, per predisposizione naturale e per doti come la pazienza, la precisione, l’estro creativo che avevano reso la biblioteca tra le più efficienti e rinomate per il prestigio conseguito unitamente alla quantità ma soprattutto per la qualità dei testi riprodotti, si incrina nel XII secolo (ciò emerge dal numero di copie prodotte se confrontate col secolo di “slancio editoriale”) per proseguire nel XIII ed oltre: è significativo infatti che l’apparato decorativo sia prodotto esternamente al monastero da botteghe artigiane forse per prassi ormai consolidata a priori, oppure perché le risorse umane e materiali sono insufficienti, o ancora per i costi finanziari del materiale di cancelleria necessario (pergamene, colori, stilo,

51 pennelli…..) che ingenti, incidono troppo su una produzione interna; ma quello che veramente caratterizza il periodo di minor fioritura dello scrivere è il prevalere del criterio di una scelta quantitativa rispetto alla qualità ed il permanere del tradizionalismo, in un’epoca caratterizzata da un vero e proprio risveglio culturale.

4.2) L’ ARCHITETTURA97

L’idea degli storiografi e degli agiografi dei secc. XVI-XVII circa la prima struttura architettonica di Vallombrosa è rappresentata dall’incisione corredata all’opera di Diego De Franchi intitolata “Historia del Patriarcha San Giovangualberto, primo Abbate del

Monastico Ordine di Vallombrosa”, stampata a Firenze nel 1640 dove si raffigura

l’iniziale insediamento eretto da Giovanni Gualberto sotto forma di eremo: molte celle distinte e separate l’una dall’altra, riunite attorno all’oratorio in legno, il tutto circondato da una palizzata quale confine della clausura e separazione/protezione dagli attacchi delle belve (Tav. I)98.

Tav. I Stefano della Bella, Prima institutione dell’Eremo e Cenobio di Vallombrosa. In D. de Franchi, Historia del patriarcha S. Giovangualberto, Firenze 1640

97 Leoncini, «L’architettura dei monasteri vallombrosani», in Iconografia di San Giovanni Gualberto,

Ospedaletto (PI), Pacini Editore, 2002, pp. 15-28. Moretti, «Architettura romanica vallombrosana nella

diocesi medievale di Pistoia», in Estratto da «Bullettini Storico Pistoiese», anno XCII, terza serie - XXV,

Pistoia, Società Pistoiese di Storia Patria, 1990, pp. 3-14; «L’architettura vallombrosana in Toscana (secoli

XI-XIII)», in « Arte cristiana », 764-765 (1994), LXXXII, pp. 341-347; «L’architettura vallombrosana delle origini», in I Colloquio vallombrosano pp. 239-257; «L’architettura vallombrosana tra romanico e gotico»,

in II Colloquio vallombrosano pp.483-486; «Passignano e le abbazie vallombrosane del Chianti», Estratto da Passignano e i Vallombrosani nel Chianti «IL CHIANTI. STORIA ARTE CULTURA TERRITORIO»,

Periodico del centro di Studi Storici Chiantigiani, 23/2004, Edizioni Polistampa, pp.91-99.

98 Padoa Rizzo, «Iconografia di San Giovanni Gualberto», pag. 15. Moretti, «L’architettura vallombrosana

52 Il De Franchi, come l’autore dell’incisione Stefano della Bella, idealmente pensavano all’eremo di Camaldoli da dove Giovanni Gualberto sarebbe transitato e si sarebbe trattenuto per breve tempo prima di approdare a Vallombrosa.

Tale rappresentazione è motivata dal fatto che tra i primi agiografi vi fosse l’idea di un’esperienza monastica eremitica prima che lui con i suoi discepoli approdassero al cenobitismo integrale benedettino, idea che si è protratta fino agli anni Quaranta del 1900 poiché don Emiliano Lucchesi la ripropone nei suoi studi eruditi, motivata e giustificata da pratiche eremitiche di certi religiosi vallombrosani presso l’Eremo delle Celle o Paradisino; ovviamente questa iniziale propensione non contraddice l’affermazione dei primi agiografi di Giovanni, in particolare del Discepolo Anonimo secondo cui il rifiuto della consuetudine cenobitica dei monasteri non significava tanto il rifiuto della vita comune dei monaci sotto la paternità dell’abate, caposaldo della Regola, quanto il non volere accettare il sistema vigente ossia che gran parte delle badie rimanevano possesso privato dei fondatori e dei loro discendenti o verso cui si esercitava un controllo consortile privato laico/ecclesiastico contrario alle norme canoniche.99

Il passo all’indietro è utile per delineare come potesse essere l’originale architettura vallombrosana non avendo ritrovato resti archeologici, rappresentazioni o descrizioni letterarie, ma altri tipi di fonti non meno interessanti e preziose quali i documenti relativi alle consacrazioni dell’oratorio, l’atto di cessione in beneficio della badessa Itta e la Vita di Giovanni Gualberto di Andrea di Strumi. Secondo questa testimonianza l’oratorio era in legno con un altare in pietra, quest’ultimo consacrato dal vescovo di Paderborn nel 1038, al quale successivamente alla cessione della badessa Itta era seguita la costruzione del monastero in pietra il cui oratorio verrà consacrato il 9 luglio 1058 dal cardinale Umberto di Silva Candida, inoltre Giovanni Gualberto non voleva che i monaci uscissero dal chiostro e che di notte doveva sempre ardere un lampada nel dormitorio: il primitivo insediamento si stava trasformando in un cenobio col chiostro e gli altri ambienti destinati alla vita in comune dei monaci; pertanto si ipotizza che intorno alla metà dell’XI secolo a Vallombrosa, accanto alla chiesa esposta a nord e attorno al chiostro si siano sviluppati progressivamente i vari corpi di fabbrica: chiostro con pozzo, dispensa, cantine e foresteria, refettorio e cucine, sala capitolare e celle, coro e sacrestia, scriptorium, erboristeria, camarlingheria, locali per accogliere i pellegrini separati da quelli che si aprivano sul chiostro per evitare qualunque contatto tra i monaci ed i forestieri, abitazione

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53 dell’abate, camera del priore, forno, orto, legnaia, torre campanaria e mura perimetrali, il luogo di sepoltura per i confratelli; ovviamente “l’oratorium” era la struttura principale, utilizzata prima di tutto dai monaci, secondariamente dai conversi, dai viandanti e dagli ospiti.

La casa madre come ogni altro monastero vallombrosano si poneva in relazione col «sito»100 su cui era stato edificato, svolgendo anche un’importantissima funzione viaria che pare ridimensionare l’affermazione del Gaborit dell’ubicazione in un «deserto»101

o comunque lontani dai centri abitati. Il fatto che i cenobi fossero un punto di riferimento per i viandanti ed i pellegrini che percorrevano le vie di comunicazione commerciali o diretti ai luoghi di culto della cristianità, può giustificare la presenza di locali per accogliere i pellegrini distinti da quelli dei monaci per evitare qualsiasi contatto, per poi evolvere in strutture come gli xenodochi da essi dipendenti che oltre ad essere luoghi pii assolvevano funzioni pratiche di ristoro e di protezione. Purtroppo non possiamo avere una certezza sull’architettura originaria poiché non è stato conservato niente né a Vallombrosa, né in altri monasteri toscani che con essa potessero avere delle analogie102; invece riguardo ai conversi, è logico pensare che essi pur vivendo nel monastero avevano spazi distinti riservati per partecipare all’officiatura divina: se ai monaci erano riservati gli stalli del coro posti al centro dell’aula, ai conversi era riservato probabilmente ma non vi è chiarezza, la parte dell’aula in cui potevano accedere i semplici laici secolari.

Gli esperti quali J. R. Gaborit (anni Sessanta del XX secolo) nell’opera Les plus anciens

monasterès de l’ordre de Vallombreuse, Giovanni Leoncini la cui introduzione arricchisce

l’opera attuale prodotta da Anna Padoa Rizzo riguardante l’iconografia gualbertina ed soprattutto Italo Moretti oggi considerato tra le eccellenze del settore che assieme ai suoi collaboratori ha prodotto una notevole quantità di materiale storiografico, hanno individuato e delineato le specificità architettoniche delle chiese romaniche vallombrosane sottolineandone l’estrema semplicità:

1) le esigue dimensioni delle chiese, 2) l’impianto a monoaula,

3) la croce latina con ampio transetto sporgente, 4) la cupola sul capocroce,

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Moretti, «L’architettura vallombrosana delle origini», in I Colloquio vallombrosano pp. 245-249; «L’architettura vallombrosana in Toscana (secoli XI-XIII)», ivi, pag. 343.

101 Moretti, «L’architettura vallombrosana delle origini», in I Colloquio vallombrosano pag. 246;

«L’architettura vallombrosana in Toscana», ivi, pag. 343.

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54 5) la presenza di una o tre absidi semicircolari,

6) la copertura della navata a tetto con struttura lignea a vista, 7) la facciata priva di nartace e con rosone,

8) il campanile a torre con impostazione semplice e lineare,

9) la sobria realizzazione in pietra di tutte le strutture contrassegnate da possenti torri campanarie,

10) l’assenza di cripte e di apparati decorativi particolarmente ricercati, 11) il generale rifiuto dell’impianto basilicale,

12) la forte connotazione simbolica connessa al crocifisso.

Il perimetro dell’abbazia si ipotizza che fosse delimitato da mura con funzioni difensive sulle quali spiccava la possente torre campanaria caratterizzata da un orologio con suoneria, congegno realizzato su incarico dei monaci nel 1493 dall’orologiaio Carlo di Leonardo Marmocchi103, per regolare l’ufficio divino e per consolare (rassicurare) abitanti, forestieri e chiunque passasse nei dintorni del monastero. Il complesso subirà trasformazioni nel corso del tempo i cui danni assieme a quelli causati da incendi e usura degli spazi hanno comportato una continua manutenzione, ristrutturazioni e modifiche tanto da giungere ai nostri tempi come dimostra ad esempio il restauro dell’hospitium nel 1958 sul luogo dell’antica legnaia.

La disposizione osservata nella casa madre sicuramente accomunava nella sua impostazione di base la maggior parte dei monasteri vallombrosani, come per dire uniti nel rispetto/applicazione della Regola, della disciplina, della liturgia, nella spiritualità, negli aspetti giuridici economici, non ultimo nell’architettura per dare l’immagine auto/etero percettiva di un corpo grande e forte con tante membra autonome ma al contempo integrate le une alle altre.

4.3) L’ICONOGRAFIA104

La canonizzazione di Giovanni Gualberto avvenuta alla fine del XII secolo esclude la presenza di immagini ufficiali a lui relative anteriori alla fine dello stesso, tanto che, neppure prima della fine del 1200 ci sono pervenute immagini ritrattistiche di lui certe. Sicuramente nell’Ordine c’erano raffigurazioni per ricordarlo che non ci sono giunte, forse perché rappresentate su materiale deperibile o di esclusivo uso devozionale presso le

103 Consultazione sito web www.my.tuscany.it/ «L’abbazia di Vallombrosa, Il complesso monastico». 104

55 comunità monastiche, anche se la studiosa è abbastanza certa che non esistesse in origine un’iconografia gualbertina sia per il carattere eremitico degli esordi, sia per la spiritualità dell’Ordine ed in particolare di Giovanni e dei suoi più fedeli discepoli, in quanto schivi da qualsiasi forma di mondanità considerata vanità diabolica. Inoltre, proprio il voler apparire per esigenza dell’Ordine nella più assoluta umiltà, può forse aver determinato la tarda richiesta di beatificazione di Giovanni da parte dei Vallombrosani oltre alle esiguità delle raffigurazioni nei primi 200 anni di vita dell’Ordine stesso, unitamente alla poca cura nella

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