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Salvador Dalì fu una figura importante nella quale il surrealismo trovò la propria espressione più completa. Il carattere sempre inaspettato, ma nello stesso tempo leggibile delle opere di Dalì lo rese rapidamente popolare, il surrealista per eccellenza; fama che, dopo la rottura, Breton contrasta attivamente bollando l’eccentrico ex compagno di strada con l’anagramma Avida Dollars.

97 Paul Éluard, Letters to Gala, Paragon House, New York 1989, pag. 239

98 André Breton, Entretiens (Storia del surrealismo 1919-1945), a cura di André Parinaud, Massari editore, Bolsena, 2006, pp. 110-111

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A Dalì l’essere diventato, nei caffè intorno alla rambla, il soggetto di curiose controversie basate sulle domande: «É pazzo? Non è pazzo?», faceva enorme piacere. Iniziò a pensare che tutto ciò che d’insolito accadeva fosse attribuibile alla sua persona:

Diventando più «solo» e più «unico», divenni per ciò stesso più «visibile» - cominciai a esibire la mia solitudine, ad andarne fiero come di un’amante, mentre mi mettevo cinicamente in mostra carico di tutti gli aggressivi gioielli del mio incessante omaggio.99

Nonostante ciò aveva iniziato a mostrare straordinarie capacità di apprendimento che indussero Picasso a descrivere la sua mente come un motore fuoribordo. È grazie alla rivista ‘L’esprit nouveau’ che Dalì conobbe la tecnica cubista.

Ulteriori letture influirono sulla sua formazione: ricordiamo Il dizionario filosofico di Voltaire, Kant e Così parlò Zarathustra di Nietzsche.

La verità profonda che Dalì investigò fu la stessa a cui Picasso cercò di dare una risposta:

Quale verità? La verità non può esistere. Se cerco la verità nella mia tela, con questa verità posso fare cento tele. Allora, qual è la vera? E che cos’è la verità? Quella che mi serve di modello o quella che dipingo? No, è come in tutto il resto: la verità non esiste.100

Era il periodo in cui Dalì riponeva la sua fiducia in una pittura professata al di fuori di ogni dottrina estetica, libera da ogni imposizione:

La pittura è un’arte sensuale. L’essenziale per un pittore è la mancanza di dottrina e metodo; un pittore non può tracciarsi una strada da seguire senza violare la propria sensibilità e seppellire il proprio istinto nell’artificio: è infatti impossibile avere la chiara, profetica visione della nostra natura.101

Ne “La mia vita segreta”, Dalì elimina le coordinate spaziali e temporali, mescolando episodi avvenuti nell’arco di due anni, elogiando se stesso e facendo riaffiorare

99 Salvador Dalì, The secret life of Salvador Dalì, cit. p. 144 100 Hélène Parmelin, Picasso dice…, Rizzoli 1971, p. 66 101 Salvador Dalì, The secret life of Salvador Dalì, cit. p. 234

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attraverso i ricordi, nella fattispecie l’esclusione dall’accademia di San Fernando, un desiderio di elogio e di ammirazione da parte di Picasso, di Mirò e dei loro mercanti. Se l’incontro con Picasso è avvolto da un alone di mistero e scetticismo, quello con Mirò può essere invece ricostruito con certezza. Infatti fu proprio quest’ultimo che prese l’iniziativa di recarsi a Cadaqués insieme a Pierre Loeb, mercante d’arte, per chiedere a Dalì di vedere i suoi quadri. Loeb pur non rinnegando le doti eccezionali di Dalì, mostrò dei dubbi nei suoi confronti sostenendo giustamente che «per il momento la sua produzione è confusa e priva di personalità».102 Infatti Dalì stava sperimentando cubismo, realismo e classicismo oltre ad una propria sintassi personale non avendo trovato ancora una sua direzione:

Eseguivo anche una serie di quadri mitologici, cercando di trarre frutti positivi dalle mie esperienze cubiste, piegando le recenti certezze geometriche agli eterni principi della tradizione.103

E ancora:

Pur non muovendomi mai dal mio studio di Figueras, tutto questo movimento provocò una viva agitazione e le polemiche raggiunsero le attente orecchie di Picasso, che aveva visto a Barcellona il mio Dorso di fanciulla, lodandolo. Di conseguenza Paul Rosenberg mi scrisse, chiedendomi l’invio di riproduzioni fotografiche; per pura trascuratezza dimenticai di rispondergli, ma comunque sapevo che mi sarebbe bastato giungere a Parigi per metter tutti quanti nel sacco.104

Visto quanto riferito da Dalì, sorge spontaneo domandarsi se Picasso vide davvero il quadro intitolato Dorso di fanciulla che il pittore catalano espose nella sua prima mostra personale a Barcellona, non essendo stata accertata la reale presenza di Picasso nella suddetta città. A prescindere dalla veridicità o meno del racconto, ciò che conta davvero è il momento in cui Dalì fa di Picasso un modello e un punto di riferimento. Ricordiamo

102 Salvador Dalì, La mia vita segreta, Abscondita, Milano 2006, pp.161-162 103 Ibidem

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che ancor prima di Dalì fu André Breton a riconoscere l’importanza rivoluzionaria dell’artista Picasso:

Bisogna veramente avere preso coscienza del tradimento delle cose sensibili per avere il coraggio di rompere completamente con esse, e a maggior ragione con ciò che di facile il loro aspetto abituale ci propone; non si può dunque non riconoscere a Picasso un’immensa responsabilità. Sarebbe bastato che la volontà di quest’uomo venisse meno e la lotta che c’interessa tutti sarebbe stata, se non perduta, almeno rimandata.105

É sempre Breton a spiegarci il significato filosofico che aveva acquistato per lui l’opera di Picasso e a fornirci la chiave del debito che il surrealismo ha nei suoi confronti:

Nel momento in cui la creazione artistica, il cui fine è quello di rivelare l’ostilità che può esistere tra il desiderio dell’uomo e il mondo esterno, riesce ad adeguare questo desiderio all’oggetto esterno e a conciliare l’uomo, in un certo modo, con il mondo stesso, è auspicabile soprattutto la creazione di un apparato di precisione che si limiti a registrare, al di là di ogni altra considerazione obiettiva di compiacimento o disaccordo, il movimento dialettico dello spirito.106

Picasso, qui con riferimento al realismo accademico, sostenne che:

L’insegnamento accademico della bellezza è falso. Siamo stati ingannati, ma così bene che non riusciamo a rintracciare nemmeno un’ombra di verità. La bellezza del Partenone, Veneri, Ninfe, Narcisi: tutte bugie. L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello possono concepire indipendentemente da ogni canone. Quando si ama una donna non si fa ricorso a strumenti di misura per conoscere le sue forme: la si ama con tutto il desiderio possibile; eppure è stato fatto di tutto per applicare un canone anche all’amore. A guardarlo bene, il Partenone è una fattoria sulla quale è stato messo un tetto; se è stato aggiunto il colonnato e le sculture è perché ad Atene c’erano degli uomini che lavoravano e volevano esprimersi. Importante non è quello che l’artista fa, ma quello che egli è. Se Cézanne fosse vissuto e avesse pensato come Jacques-Émile Blanche, non m’avrebbe interessato un solo minuto, anche se la mela da lui dipinta fosse stata dieci volte più bella. Quello che c’interessa è l’inquietudine di Cézanne, è l’impegno di Cézanne, sono i tormenti di Van Gogh: il dramma dell’uomo. Il resto è menzogna.107

Dalle affermazioni di Picasso si evince che non è attraverso l’insegnamento artistico che egli è diventato pittore, ma grazie ad un essenziale bisogno di comunicare con la pittura

105 A. Breton, Il surrealismo e la pittura, Abscondita Milano, p. 18 106 Ibidem

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le proprie aspirazioni giovanili e la propria visione personale delle cose. Agli esordi della sua carriera si distingueva dal resto dei pittori contemporanei per la toccante sobrietà delle sue opere; egli infatti disprezzava fermamente non solo gli eccessi dello stile del 1900 e le manifestazioni romantiche, ma anche i contrasti violenti e discordanti delle tavolozze di alcuni pittori dell’epoca. Ad ogni modo, non aderire a canoni prestabiliti condusse Picasso a lavorare instancabilmente:

I pittori veri non possono mai riposare sugli allori. Possono solo vivere la vita eterna e terribile dei pittori, combattendo con la pittura fino all’ultimo. Un pittore non è mai soddisfatto. Ma la cosa peggiore è che non finisci mai. Mai che tu possa dire: ho lavorato bene e domani è Domenica… Appena smetti ricominci. Puoi lasciare una tela da parte dicendoti che non ci metterai più mano. Ma la parola fine, quella non puoi mai scriverla.108

In lui la vita e la pittura costituivano un tutto unico, inoltre l’urgenza di ricreare un mondo si rifletteva inconsciamente nell’esigenza di conoscerne uno nuovo.

Nel 1900 Picasso aveva diciannove anni e Parigi era la prima città straniera in cui ha soggiornato; qui tutto lo incuriosiva: al Louvre scoprì Ingres e Delacroix, passava ore davanti agli impressionisti del Luxembourg, studiava Degas, Van Gogh e Gauguin. Era attratto dall’arte fenicia ed egizia, considerata in quell’epoca perfino “barbarica”, gli piacevano le stampe giapponesi…La carriera del pittore fu lunga e caratterizzata da una grandissima varietà di linguaggi espressivi; la padronanza tecnica fu tale che non incontrò mai particolari difficoltà nello sviluppare nuovi e radicali approcci all’arte e fu sempre capace di esprimere tutte le emozioni che desiderava con qualsiasi mezzo: pittura, disegno, litografia, incisione all’acquaforte o ceramica. L’enorme produzione di Picasso variò moltissimo negli stili, infatti la sua opera venne divisa in diverse fasi: il periodo blu, il periodo rosa, il cubismo, ma la sua mente e la sua mano erano così veloci da indurlo costantemente a tentare nuovi esperimenti.

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Lo stesso Picasso affermò che i diversi stili adoperati nella sua arte non dovevano essere considerati un’evoluzione o passi verso un indefinito ideale di pittura, ma un’espressione di qualcosa rappresentata senza pensare al passato o al futuro. Infatti se i soggetti che intendeva raffigurare gli suggerivano modi diversi di espressione, Picasso non ha mai esitato ad adottarli poiché sapeva passare repentinamente da immagini semi- astratte (caratterizzate dalla scomposizione delle forme) a disegni naturalistici talvolta paragonati a Ingres. L’affermazione: «Io dipingo gli oggetti così come li penso, non come li vedo»109chiarisce meglio l’arte di Picasso, esprimendo la vera essenza del cubismo, ovvero lo stile rivoluzionario che creò insieme a Georges Braque.

I pittori cubisti scelsero di scomporre e ricomporre le forme in modo che il quadro, invece di essere concepito come una finestra attraverso cui vedere l’immagine, fosse pensato come una superfice piana sulla quale il pittore disponeva come meglio credeva tutti gli elementi. Utilizzando diversi punti di vista all’interno della stessa opera potevano essere mostrati contemporaneamente vari aspetti dello stesso oggetto. Il risultato fu un’idea complessiva della percezione di un dato oggetto piuttosto che un’immagine di come l’oggetto si presentava in quel determinato momento.

L’inizio del conflitto mondiale segnò una svolta nella vita dell’artista; gli amici Braque, Derain, Apollinaire e Léger partirono per il fronte. Quel triste distacco rappresentò per lui un nuovo inizio che lo condusse a Roma dove le visite ai musei risvegliarono nella sua memoria molti ricordi classici, dall’armonia delle statue antiche greche e romane a quella dei corpi agili e ben costruiti della compagnia dei Ballets Russes. Da questo momento si ebbe in Picasso un ritorno alla tradizione, espressa inizialmente sotto forma di disegni e di ritratti che ricordavano quelli di Ingres, e successivamente sotto forma di figure monumentali, spesso di ispirazione epica, che rinnovavano l’arte del nudo,

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celebravano la fecondità delle bellezze selvagge ed evocavano il passato idillico del Mediterraneo.

Dalì e Picasso erano uniti da un rapporto ambivalente basato inizialmente sulla stima reciproca, in seguito trasformatasi in sfida, arroganza e disappunto da parte di Dalì per il mancato riconoscimento di superiorità da parte del pittore più anziano nei confronti delle sue straordinarie doti artistiche. Proprio per questo l’artista catalano, ventitré anni più giovane di Picasso e con molte meno opere realizzate, disse: «Non è possibile essere un geniale pittore catalano quando ancora vive, gloriosamente e lungamente il più geniale pittore spagnolo. Il mondo era troppo piccolo per tutti e due».110 In seguito Dalì uccise simbolicamente il padre che si era scelto:

Per quanto mi riguarda Picasso è morto: era diventato mio padre, e inconsciamente desideravo cornificare mio padre, ucciderlo…111

La competizione di Dalì nei confronti di Picasso si evinse già dal loro primo incontro:

Era il 1927 e dovevo dimostrarmi capace di eclissarlo. Picasso probabilmente subodorava qualcosa e l’ultimo sguardo che ci scambiammo diceva che ci eravamo capiti e ci sfidavamo.112

Come già accaduto nei confronti di García Lorca, del quale aveva criticato le inclinazioni folcloristiche e nostalgiche, allo stesso modo Dalì disapprovò l’operato di Picasso, che secondo la sua opinione aveva distrutto l’arte del XX secolo con i suoi persistenti attacchi alla tecnica:

Carissimo Picasso, lavoro ogni mattina da quando sorge il sole e ho la soddisfazione di poterle assicurare che sto dipingendo autentici capolavori nel genere di quelli che si facevano ai tempi di Raffaello, col suo genio iberico integrale e categorico lei ha ucciso Buguereau e anche soprattutto l’arte moderna tutta quanta! Adesso si può di nuovo

110 Salvador Dalì, Comment on devient Dalì: les aveux inavouables de Salvador Dalì, a cura di André Parinaud, Robert Laffont, Paris 1973, p. 91

111 Alain Bosquet, Entretiens avec Salvador Dalì, Ed. Du Rocher, Paris 2000, p.130 112 Ivi, p. 92

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dipingere in modo originale. I miei saluti! L’abbraccio e verrò a mostrarle ancora una volta i miei quadri sarà pazzo di gioia suo Salvador Dalì.113

Questa è stata la prima lettera che Dalì ha inviato a Picasso dopo l’esilio a New York, una volta tornato a Port Lligat. In essa evidenziava le proprie idee sulla distruzione della pittura moderna, sulla superiorità di Raffaello e sulla reinvenzione del classicismo, richiamando all’ordine il maestro.

Verso la metà degli anni trenta il rapporto tra Dalì e Picasso iniziò a deteriorarsi; la causa fu da attribuire al fatto che Picasso venne nominato direttore del Prado dal governo della repubblica spagnola e incaricato alla decorazione del padiglione spagnolo all’Esposizione Universale per il quale eseguirà Guernica, sostenendo moralmente e finanziariamente la causa repubblicana, mentre Dalì si disinteressò completamente alla questione, allontanandosi e dividendosi tra Francia e Costa Azzurra, Italia e Stati Uniti, passando per Austria e Londra, dove incontrerà Freud. La distanza politica e umana ostentata da Dalì non sembrò rappresentare per Picasso un motivo di rottura, come emerge dal carteggio. Infatti il dialogo rimase sempre aperto, e fu lo stesso Dalì ad esprimere il bisogno di parlare con lui: «E soprattutto non dobbiamo morire prima di aver parlato tra noi di tante cose».114 Nel contempo però Dalì non smise mai di denigrare e diffamare Picasso:

«La sola cosa che non gli è mai riuscita è un vero quadro. Non ha realizzato neanche un capolavoro!... soltanto una quantità sbalorditiva di pitture satiriche».115

e inoltre dichiarò di essere lui stesso il grande pittore della nuova Spagna:

Io cerco di fondere il surrealismo con il misticismo. Dalì è per la fusione, Picasso per la confusione. Siamo entrambi dei geni. La Spagna è piena di contrasti – sole e ombra.

113 Salvador Dalì, lettere a Picasso (1927-1970), Éditions Gallimard, Paris, p. 88 114 Ivi, p.80

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Picasso, a settantuno anni, sta nell’ombra fredda dell’arte fuori moda; Dalì molto più giovane, quarantaseienne, è assurdo in pieno sole.116

E prosegue:

Nei confronti del genio, Picasso, non posso essere che grato; per il suo cubismo – vitale per la mia estetica – per avermi prestato il denaro per il mio primo viaggio in America – vitale per la mia fortuna – per i suoi principi anarchici, per i miei principi monarchici.117

Nonostante le provocazioni, Picasso lo ignorò nel silenzio:

Ogni anno gli mandavo una cartolina in cui gli ricordavo una vecchia storia che mi aveva raccontato. Picasso non mi rispondeva mai, ma sapevo che gli faceva molto piacere ricevere la cartolina e ricordare quella storia. Era il suo ambiente che ci separava. Se mi avesse risposto, l’avrebbero probabilmente considerato un traditore della causa. Era prigioniero della sua ideologia.118

Anche sul piano politico Dalì evidenziò dei contrasti con Picasso, sottolineando sempre l’adesione di quest’ultimo al partito comunista, da Dalì ripudiato e denigrato verso la fine degli anni venti:

Picasso è spagnolo anch’io

Picasso è un genio anch’io

[…]

Picasso è famoso in tutto il mondo anch’io

Picasso è comunista Io no!119

Picasso dal canto suo, spiegò in un’intervista i motivi che lo spinsero ad aderire al partito comunista:

116 Fleur Cowles, The case of Salvador Dalí, Literary licensing LLC, p. 263

117 Ibidem

118 Salvador Dalì, Comment on devient Dalì: les aveux inavouables de Salvador Dalì, cit., p. 317 119 Salvador Dalì, Picasso i yo, Ed Elba S.L 2015, p.51

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Mi piacerebbe assai di più rispondervi con un quadro: infatti non sono uno scrittore; ma poiché non è molto facile inviarvi i miei colori per cablogramma, cercherò di spiegarmi con le parole…La mia adesione al partito comunista è la conseguenza logica di tutta la mia vita, di tutta la mia opera. Perché sono fiero di dirlo, non ho mai considerato la pittura come un’arte di puro piacere, di distrazione. Io ho voluto, col disegno e col colore, dato che queste sono le mie armi, penetrare sempre più avanti nella conoscenza del mondo e degli uomini, affinché questa conoscenza ci liberi tutti ogni giorno più. Io ho sempre cercato di dire, alla mia maniera, ciò che consideravo essere il più vero, il più giusto, il meglio, che poi, naturalmente, era sempre il più bello, come i grandi artisti sanno bene. Sì, io ho coscienza d’aver sempre lottato, con la mia pittura, da vero rivoluzionario. Ma ora ho capito che neppure ciò può bastare. Questi anni di oppressione terribile mi hanno dimostrato che io devo combattere non soltanto con la mia arte, ma con tutto me stesso…E allora sono andato verso il Partito comunista senza la minima esitazione, perché dentro di me io ero con lui da sempre. Aragon, Éluard, Cassou, Fougeron, tutti i miei amici lo sanno bene. Se non avevo ancora aderito ufficialmente, era, in qualche modo, per «innocenza», perché credevo che la mia opera e l’adesione del mio sentimento fossero sufficienti, ma di fatto era già il mio Partito. Non è forse esso che ha lavorato di più a conoscere e a costruire il mondo, a rendere gli uomini di oggi e di domani più coscienti, più liberi, più felici? Non sono i comunisti che sono stati i più coraggiosi sia in Francia che in URSS o nella mia Spagna? Come avrei potuto esitare? La paura di impegnarmi? Ma io, al contrario, non mi sono mai sentito più libero, più completo! E poi avevo talmente fretta di ritrovare una patria: sono sempre stato un esiliato, ora non lo sono più, i più grandi scienziati, i più grandi poeti, e tutti quei volti d’insorti parigini così belli, che ho visto nelle giornate di agosto. Sono di nuovo tra i miei fratelli.120